Ciro a Formia, la pizza, e il Neoliberismo


Prima di scagliarmi nuovamente contro il neoliberismo (per essere precisi è già la 3a volta), devo premettere che queste riflessioni le ho elaborate mentre ero seduto nell’Antica Pizzeria di Ciro a Formia, mentre degustavo le squisitezze del pizzaiolo Michele Capuozzo (artefice di una pizza all’insegna della tradizione napoletana più autentica), riflettevo tra me e me sulla circostanza, ampiamente riscontrabile, che tra cultura ed intelligenza ci può essere un abisso. Si può essere intelligenti ma non conoscere e si può conoscere, inteso come fatto mnemonico, ma non capire quello che si conosce. Direte voi alla Di Pietro. Ma cosa c’entra Ciro a Formia, la pizza di Capuozzo e Di Pietro con il neoliberismo? C’entra, c’entra… Da buon ficcanaso, infatti, ascoltavo il dialogo tra una coppia di fidanzati. Lei, dallo sguardo scaltro, lo incalzava sul matrimonio: certo, a quasi trenta anni una donna ha le sue esigenze, il ragazzo aveva invece lo sguardo sconfitto si giustificava che allo studio percepiva solo 1000 euro (generazione 100 euro) e che sommato al suo si arrivava a circa 2400 euro con la banca che ne chiedeva 667 di mutuo, nel tono di voce del ragazzo si avvertiva, non senza una nota di tristezza, una certa consapevolezza di essere un perdente. Ecco il classico esempio degli effetti del neoliberismo, mi sono detto.
Il neoliberalismo è diventato così pervasivo che ormai raramente lo consideriamo come una ideologia. Sembriamo accettare la tesi che questa utopica fede millenaria rappresenti una forza neutrale; una sorta di legge biologica come la teoria dell’evoluzione di Darwin. Ma la filosofia è nata come un tentativo consapevole di trasformare la vita umana e spostare il luogo del potere. Il neoliberalismo vede la competizione come la caratteristica che definisce le relazioni umane. Ridefinisce i cittadini in quanto consumatori, le cui scelte democratiche sono meglio esercitate con l’acquisto e la vendita, un processo che premia il merito e punisce l’inefficienza. Essa sostiene che “il mercato” offre dei vantaggi che non potrebbero mai essere offerti dalla pianificazione dell’economia. I tentativi di limitare la concorrenza sono trattati come ostili alla libertà. Pressione fiscale e regolamentazione dovrebbero essere ridotte al minimo, i servizi pubblici dovrebbero essere privatizzati. L’organizzazione del lavoro e la contrattazione collettiva da parte dei sindacati sono considerate come distorsioni del mercato, che impediscono lo stabilirsi di una naturale gerarchia di vincitori e vinti. La disuguaglianza è ridefinita come virtuosa: un premio per i migliori e un generatore di ricchezza che viene redistribuita verso il basso per arricchire tutti. Gli sforzi per creare una società più equa sono sia controproducenti che moralmente condannabili. Il mercato fa sì che ognuno ottenga ciò che merita. Noi interiorizziamo e diffondiamo questo credo. I ricchi si autoconvincono di aver acquisito la loro ricchezza attraverso il merito, ignorando i vantaggi come l’istruzione, l’eredità e la classe sociale d’appartenenza che possono averli aiutati ad assicurarsela. I poveri cominciano a incolpare se stessi per i propri fallimenti, anche quando possono fare poco per cambiare la situazione. Per non parlare della disoccupazione strutturale: se non si ha un lavoro (e deve anche essere un buon lavoro, ossia molto remunerativo e socialmente appagante) è perché non lo si è cercato abbastanza. E non parliamo nemmeno dei costi impossibili degli alloggi o se la vostra carta di credito è in rosso. Se così stanno le cose, siete stati irresponsabili e imprevidenti. Non importa che i vostri figli non abbiano più un cortile a scuola dove poter giocare: se ingrassano, è colpa vostra. In un mondo governato dalla competizione, chi rimane indietro viene definito e si percepisce come perdente. Tra i risultati, come documentato da Paul Verhaeghe nel suo libro What About Me?, vi sono epidemie di autolesionismo, disturbi alimentari, depressione, solitudine, ansia da prestazione e fobia sociale. Forse non è sorprendente che la Gran Bretagna, dove l’ideologia neoliberale è stata applicata più rigorosamente, sia la capitale europea della solitudine. Ormai siamo tutti neoliberali. Il termine neoliberalismo è stato coniato durante una riunione a Parigi nel 1938. Tra i delegati vi erano due uomini che giunsero a definire l’ideologia, Ludwig von Mises e Friedrich Hayek. Entrambi esuli provenienti dall’Austria, vedevano nella socialdemocrazia, esemplificata dal New Deal di Franklin Roosevelt e dal graduale sviluppo del welfare britannico, la manifestazione di un collettivismo di stampo simile al nazismo e al comunismo. In un primo momento, nonostante il suo lauto finanziamento, il neoliberalismo rimase ai margini. Il consenso del dopoguerra era quasi universale: le indicazioni economiche di John Maynard Keynes erano ampiamente applicate, la piena occupazione e la riduzione della povertà erano obiettivi condivisi negli Stati Uniti e in gran parte dell’Europa occidentale, le aliquote d’imposta sui redditi alti erano elevate e i governi perseguivano i loro obiettivi sociali senza ostacoli, creando nuovi servizi pubblici e reti di sicurezza sociale. Ma negli anni Settanta, quando le politiche keynesiane cominciarono a crollare e le crisi economiche colpivano su entrambe le sponde dell’Atlantico, le idee neoliberali cominciarono a entrare nel mainstream. Come osservò Friedman, «quando venne il momento che si doveva cambiare… c’era un’alternativa già pronta lì per essere colta». Con l’aiuto di giornalisti compiacenti e consiglieri politici, elementi del neoliberalismo, in particolare le sue indicazioni circa la politica monetaria, furono adottati dall’amministrazione di Jimmy Carter negli Stati Uniti e dal governo di Jim Callaghan in Gran Bretagna. Dopo che Margaret Thatcher e Ronald Reagan presero il potere, il resto del pacchetto fu presto applicato: massicci tagli alle tasse per i ricchi, smantellamento dei sindacati, deregolamentazione, privatizzazioni, esternalizzazioni e concorrenza nei servizi pubblici. Attraverso il Fondo monetario internazionale, la Banca mondiale, il trattato di Maastricht e l’Organizzazione mondiale del commercio, le politiche neoliberali sono state imposte, spesso senza il consenso democratico, in gran parte del mondo. La cosa più notevole è stata l’adozione del neoliberalismo tra i partiti che un tempo appartenevano alla sinistra: i laburisti e i democratici, per esempio. Come osserva Stedman Jones, «è difficile pensare ad un’altra utopia che sia stata così pienamente realizzata». Può sembrare paradossale che una dottrina che promette possibilità di scelta e libertà sia stata promossa con lo slogan, tratto dal The Guardian “there is no alternative” (non c’è alternativa, N.d.T.). Ma, come osservò Hayek durante una visita nel Cile di Pinochet, una delle prime nazioni in cui il programma venne ampiamente applicato, «la mia preferenza personale pende verso una dittatura liberale piuttosto che verso un governo democratico privo del liberalismo». La libertà che il neoliberalismo offre, che suona così seducente se espressa in termini generali, si rivela essere libertà per il luccio, non per i pesciolini. Libertà dai sindacati e dalla contrattazione collettiva significa libertà di reprimere i salari. Libertà dalla regolamentazione significa libertà di avvelenare i fiumi, mettere in pericolo i lavoratori, applicare tassi di interesse iniqui e inventare strumenti finanziari esotici. Libertà dalle tasse significa libertà dalla redistribuzione della ricchezza che solleva le persone dalla povertà, teorici neoliberali hanno sostenuto l’uso della crisi per imporre politiche impopolari, approfittando della distrazione creata dalla situazione di crisi: cosi è successo in occasione del colpo di stato di Pinochet, della guerra in Iraq e dell’uragano Katrina, quest’ultimo descritto cinicamente da Friedman come «un’opportunità per riformare radicalmente il sistema educativo» di New Orleans. Dove le politiche neoliberiste non possono essere imposte a livello nazionale, sono imposte a livello internazionale, attraverso trattati commerciali che incorporano la cosiddetta “risoluzione delle controversie tra investitori e Stato”: tribunali off-shore in cui le grandi società possono fare pressioni per la rimozione delle protezioni sociali e ambientali. Quando i parlamenti hanno votato a favore della limitazione della vendita di sigarette, o per proteggere le riserve idriche nei confronti delle compagnie minerarie, congelare le bollette energetiche o evitare l’eccessivo aumento dei prezzi da parte delle case farmaceutiche, le società hanno fatto causa, spesso con successo. La democrazia è ridotta a un teatro. Un altro paradosso del neoliberalismo è che la competizione universale si basa sulla altrettanto universale comparazione e selezione. Il risultato è che i lavoratori, i disoccupati e i servizi pubblici di ogni genere sono soggetti ad un pernicioso e soffocante regime di valutazione e monitoraggio, ideato per identificare i vincitori e punire i perdenti. La dottrina, che ci avrebbe liberato dall’incubo burocratico della pianificazione centrale, al contrario, ha realizzato proprio questo. Il neoliberalismo non è stato concepito come un meccanismo autoreferenziale, ma lo è rapidamente diventato. La crescita economica è stata nettamente più lenta nell’era neoliberista (dal 1980 in Gran Bretagna e negli Stati Uniti) di quanto non fosse nei decenni precedenti; ma non per i più ricchi. La disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza, dopo 60 anni di declino, è di nuovo oggigiorno aumentata rapidamente a causa della distruzione dei sindacati, le riduzioni fiscali, l’aumento delle rendite, le privatizzazioni e la deregolamentazione. La privatizzazione o mercatizzazione dei servizi pubblici, quali l’energia, l’acqua, i trasporti, la sanità, l’istruzione, le strade e le carceri, ha permesso alle grandi aziende di imporre delle tariffe sui beni essenziali e pretendere il pagamento per l’accesso, sia dai cittadini che dai governi. Rendita è un altro termine per significare reddito senza lavoro. Quando si paga un prezzo gonfiato per un biglietto del treno, solo una parte della tariffa compensa gli operatori per i soldi che spendono per il carburante, i salari, il materiale rotabile e altre spese. Il resto riflette il fatto che vi hanno messo con le spalle al muro. Coloro che possiedono e gestiscono i servizi privatizzati o semi-privatizzati del Regno Unito fanno immense fortune investendo poco e ricaricando molto. In Russia e in India, oligarchi hanno acquisito beni precedentemente dello Stato grazie a delle svendite. In Messico, a Carlos Slim è stato concesso il controllo di quasi tutti i servizi di rete fissa e telefonia mobile, così che è divenuto ben presto l’uomo più ricco del mondo. La finanziarizzazione dell’economia, come osserva Andrew Sayer in “Why We Can’t Afford the Rich”, ha avuto un impatto simile. «Come le rendite», sostiene, «gli interessi sono… redditi non da lavoro, che maturano senza alcuno sforzo». Cosí i poveri diventano più poveri e i ricchi diventano più ricchi acquisendo sempre più il controllo su un’altra risorsa cruciale: la moneta. La spesa per interessi, in modo schiacciante, rappresenta un trasferimento di denaro dai poveri ai ricchi. Man mano che i prezzi degli immobili e la fine dei finanziamenti pubblici caricano le persone di debiti (si pensi al passaggio dalle borse di studio ai prestiti agli studenti), le banche e i loro dirigenti sbancano. Sayer sostiene che gli ultimi quattro decenni sono stati caratterizzati da un trasferimento di ricchezza non solo dai poveri ai ricchi, ma anche tra le fila dei ricchi: da quelli che fanno soldi con la produzione di nuovi beni o servizi a coloro che fanno soldi controllando i beni esistenti e traendone delle rendite, interessi o plusvalenze. Il reddito da lavoro è stato soppiantato dalla rendita senza lavoro. Le politiche neoliberiste sono ovunque afflitte dai fallimenti del mercato. Non solo le banche sono troppo grandi per fallire (“too big to fail“), ma lo sono anche le società ora incaricate di fornire servizi pubblici. Come Tony Judt ha sottolineato nel suo libro “Ill Fares The Land”, Hayek ha dimenticato che i servizi pubblici vitali per un paese non possono fallire, il che significa che la concorrenza non può fare il suo corso. Gli investitori prendono i profitti, lo Stato si assume il rischio. Maggiore è il fallimento, più estrema diventa l’ideologia. I governi usano le crisi neoliberiste come pretesto e occasione per tagliare le tasse, privatizzare i restanti servizi pubblici, creare strappi nella rete di sicurezza sociale, deregolamentare le imprese e disciplinare i cittadini. Lo Stato autolesionista ora affonda i denti in ogni organo del settore pubblico. Forse l’impatto più pericoloso del neoliberalismo non è la crisi economica che ha causato, ma la crisi politica. Come il peso dello Stato è ridotto, così è ridotta la nostra capacità di cambiare il corso delle nostre vite attraverso il voto. Invece, la teoria neoliberale afferma che le persone possono esercitare una scelta attraverso la spesa. Ma alcuni hanno più da spendere rispetto ad altri: nella democrazia del consumatore o dell’azionista, il diritto di voto non è equamente distribuito. Il risultato è una riduzione dei diritti dei meno abbienti e della classe media. Mentre i partiti di destra e della ex sinistra adottano politiche neoliberali simili, la riduzione del potere statale si traduce in una revoca dei diritti. Un gran numero di persone sono state escluse dalla politica. Chris Hedges osserva che «i movimenti populisti costruiscono il loro fondamento non sulla base degli attivisti, ma di coloro che sono politicamente inattivi, i “perdenti”, che percepiscono, spesso in modo corretto, di non avere alcuna voce in capitolo nel mondo politico”. Quando il dibattito politico non parla più a tutti, allora le persone diventano sensibili a slogan, simboli e sensazioni. Per gli ammiratori di Trump, ad esempio, i fatti e gli argomenti appaiono irrilevanti. Judt ha spiegato che quando la fitta rete di interazioni tra il popolo e lo Stato viene ridotto a nulla se non all’autorità e all’obbedienza, l’unica forza che ci lega è il potere dello Stato. Il totalitarismo che Hayek temeva ha più probabilità di emergere quando i governi, dopo aver perso l’autorità morale che nasce dalla erogazione dei servizi pubblici, si riducono a «blandire, minacciare e, infine, costringere la gente a obbedire».Come il comunismo, il neoliberalismo è il Dio che ha fallito. Ma la dottrina zombie vacilla e uno dei motivi è il suo anonimato. O meglio, un insieme di anonimati.La dottrina invisibile della mano invisibile è promossa da sostenitori invisibili. Lentamente, molto lentamente, abbiamo iniziato a scoprire i nomi di alcuni di loro.Le parole usate dal neoliberismo spesso nascondono più di quanto chiariscano. “Il mercato” suona come un sistema naturale che potrebbe essere paragonato alla gravità o alla pressione atmosferica. Ma è gravido di relazioni di potere. Ciò che “il mercato vuole” tende a significare ciò che le aziende ed i loro capi vogliono. “Investimento”, come nota Sayer, significa due cose molto diverse. Uno è il finanziamento di attività produttive e socialmente utili, l’altro è l’acquisto di beni esistenti per ottenere una rendita, interessi, dividendi e plusvalenze. Utilizzare la stessa parola per le diverse attività «mimetizza le fonti della ricchezza», il che ci porta a confondere l’estrazione di ricchezza con la creazione di ricchezza. Un secolo fa, i nuovi ricchi venivano denigrati da coloro che avevano ereditato il loro denaro. Gli imprenditori ricercavano l’accettazione sociale facendosi passare per rentiers. Oggi, il rapporto è stato invertito: i rentiers e gli ereditieri si definiscono imprenditori. Sostengono di essersi guadagnati le loro rendite, che in realtà non derivano dal lavoro Questo anonimato e questa confusione si mischiano all’opacità senza nome e senza luogo del capitalismo moderno: il modello di franchising assicura che i lavoratori non sappiano per chi lavorano esattamente; società registrate off-shore dietro ad una rete di segretezza così complessa che neanche la polizia può risalire ai proprietari reali; regimi fiscali che infinocchiano i governi; prodotti finanziari che nessuno comprende. Quando nel 1929 l’economia del laissez-faire portò alla catastrofe, Keynes ideò una teoria economica globale per sostituirla. Quando negli anni ’70 la gestione keynesiana della domanda andò fuori strada, c’era un’alternativa pronta. Ma quando nel 2008 il neoliberalismo è crollato, non c’era niente. Ecco perché la marcia degli zombie. La sinistra e il centro non hanno prodotto alcun nuovo inquadramento generale del pensiero economico per 80 anni. Ogni invocazione di Lord Keynes è un’ammissione di fallimento. Proporre soluzioni keynesiane alle crisi del 21esimo secolo significa ignorare tre problemi evidenti. È difficile mobilitare le persone intorno a vecchie idee; le falle messe in luce negli anni ’70 non sono scomparse; e, soprattutto, non tengono in considerazione la nostra più grave emergenza: la crisi ambientale. Il keynesismo agisce stimolando la domanda dei consumatori per promuovere la crescita economica. La domanda dei consumatori e la crescita economica sono i motori della distruzione ambientale.Quel che la storia del keynesismo e del neoliberalismo ci dimostra è che nessuno dei due si è dimostrato adeguato a controbilanciare le criticità del sistema. Bisogna proporre un’alternativa coerente. Per i laburisti, i democratici e più in generale la sinistra, il compito centrale dovrebbe essere quello di sviluppare un programma economico che sia come l’Apollo (il programma spaziale), un tentativo maturo di progettare un nuovo sistema fatto su misura per le esigenze del 21esimo secolo. Di questa alternativa ne parleremo nel prossimo articolo di domenica.
Nota conclusiva:
The guardian e the telegraf sono state le mie fonti, non sempre è tutto oro quello che luccica anche nelle altre nazioni si vive male non solo in Italia. Finiamola di alimentare concetti creati ad arte da quella elitè che non vuole cedere il passo. A nessuno, che sia esso francese o tedesco o inglese, piace vedersi limitare nei propri diritti. Che in Giappone i treni arrivano puntuali o che in Germania un operaio guadagni 4000 euro al mese non importa, l’importante è il valore che dà alla sua vita.