Vesuvio ed abusivismo edilizio: disastro annunciato


Il Vesuvio è un vulcano situato a circa 15km a sud-est dalla città di Napoli. Attualmente è un rilievo con una circonferenza alla base di circa 20km ed un’altezza pari a 1281m. La bocca del cratere è di diametro pari a 500m.
Il suo rilievo, staccandosi nettamente dalla piana ove sorge, domina l’intero golfo della città di Napoli ed è, forse, il vulcano più conosciuto al mondo e, sicuramente, tra i più studiati e monitorati. Infatti il Vesuvio è stato il primo vulcano ad essere studiato sistematicamente e risale al 1841, per volontà di Re Ferdinando II delle Due Sicilie, la costruzione di un Osservatorio Vesuviano tuttora funzionante. Anzi la vulcanologia, una branca della geologia, si può dire nasca proprio in quegli anni grazie agli studi che si iniziarono in quell’istituto.
Il Vesuvio è noto per dare eruzioni esplosive dette pliniane, dal nome di “Plinio il giovane” che nel 79 d.c. ne descrisse una. Si tratta di eruzioni potenzialmente molto pericolose sia per la loro violenza ma, nel caso del Vesuvio, anche per la elevata densità abitativa presente sulle sue pendici e nel suo circondario. Tale sfavorevole circostanza è dovuta alla fertilità della terra delle sue pendici e al fatto che le eruzioni sono intervallate da lunghi periodi di riposo in cui la popolazione, intercalandosi svariate generazioni, tende a perdere la memoria del loro potere distruttivo. Oggi si stima, infatti, che circa 600.000 persone vivano stabilmente nella così detta “zona rossa”, l’area immediatamente interessata da una eventuale eruzione.
L’eruzione del Vesuvio del 79 d.c. é la prima attività di questo vulcano storicamente documentata (l’ultima è avvenuta nel 1944). Fu descritta da Plinio il giovane nelle sue lettere inviate a Tacito circa trentanni dopo l’evento.
Plinio il giovane si trovava a Miseno, una località posta all’altro estremo del golfo dell’attuale città di Napoli, e nella prima lettera descrisse l’evento come segue:
“Si elevava una nube, ma chi guardava da lontano non riusciva a precisare da quale montagna: nessun’altra pianta meglio del pino ne potrebbe riprodurre la forma. Infatti slanciatosi in su in modo da suggerire l’idea di un altissimo tronco, si apriva in diversi rami…”.
In questa prima lettera descrisse inoltre la morte dello zio, “Plinio il vecchio”, salpato alla volta di Ercolano per portare aiuto ad una famiglia amica, ma poi costretto a riparare nel porto di Stabia dove fu raggiunto dall’eruzione.
In una seconda lettera, sempre inviata all’amico Tacito, descrisse gli effetti che si erano avvertiti addirittura a Miseno prima e durante l’eruzione raccontando di scosse di terremoto via via di intensità crescenti sino a che, nel giorno dell’eruzione:
“Sembrava che ogni cosa si rovesciasse e che il mare si ripiegasse su sé stesso, quasi respinto dal tremare della terra al punto che la spiaggia si era allargata e molti animali marini giacevano sulle sabbie rimaste in secco”.
Secondo quanto riferito dagli storici, il Vesuvio all’epoca dei Romani appariva molto diversamente rispetto a come siamo abituati a vederlo oggi. Infatti tale rilievo si identificava col Monte Somma, vulcano risalente a oltre 18.000 anni fa di cui oggi resta solo la parete nord, ma che prima dell’evento del 79 d.c., era invece completamente integro anche nelle altre direzioni. Durante tale eruzione, infatti, crollò il fianco sud del vecchio vulcano e al suo posto si creò l’attuale cono cratere.
Gli antichi, in effetti, ignoravano che quella che ritenevano una innocua montagna dolcemente digradante verso il mare, era in realtà un pericoloso vulcano. Questo fu uno dei motivi per cui gli abitanti di Pompei, Ercolano, Stabia e Oplonti persero tempo prezioso prima di tentare di mettersi in salvo finendo invece sopraffatti dall’eruzione. Tali città e le stesse persone rimasero per secoli sotterrate da uno strato di oltre dieci metri di ceneri e lapilli. La circostanza ha, tuttavia, consentito la loro conservazione attraverso i millenni restituendoci oggi uno dei siti archeologici più strepitosi al mondo con gli scavi iniziati nel 1748 per volere di Re Carlo III di Borbone a seguito di alcuni ritrovamenti nell’attuale area archeologica di Ercolano.
Le prime avvisaglie (che poi esitarono nella eruzione del 79 d.c.) si ebbero già nell’anno 62 d.c. quando vi furono alcuni terremoti di intensità tale da provocare crolli di interi caseggiati. Tuttavia solo diciassette anni dopo vi fu il risveglio palese del vulcano. Si narra che intorno all’una del pomeriggio si avvertì un fortissimo boato immediatamente prima all’inizio dell’eruzione dei materiali piroclastici: prima pomici e ceneri e poi bombe magmatiche flagellarono incessantemente le località a sud-est del cratere. La nube dei materiali piroclastici si stima possa avere raggiunto l’altezza di 26 chilometri prima di collassare su sé stessa rovinando, con una temperatura di svariate centinaia di gradi centigradi, sulle città costiere radendole al suolo. Il fenomeno è oggi noto come “nube ardente” o “frana piroclastica”.
Dopo l’eruzione descritta da Plinio il giovane il Vesuvio ebbe svariati periodi di attività intervallati da decenni di quiescenza. Nel 472 d.c. ci fu un’eruzione che, per violenza, sparse le ceneri in tutta Europa e giunsero fino a Costantinopoli. Nel 1036 si registrò una imponente fuoriuscita di lava che si riversò in mare allungando la linea costiera di circa 600m. Successivamente, sempre alternando lunghi periodi di riposo, in cui le pendici si coprivano di una lussureggiante vegetazione ed abitazioni a eventi eruttivi violenti e distruttivi, si è giunti alla eruzione del 1944 che distrusse le cittadine di Massa e di San Sebastiano. Dopo questa eruzione il Vesuvio è entrato in un nuovo stato di quiescenza, in cui si trova tuttora, perdendo anche il caratteristico “pennacchio” di fumo, una costante emissione di vapori che per secoli fuoriuscivano dal cratere, con il quale nelle stampe del ‘800 napoletano il vulcano partenopeo viene sempre raffigurato.
L’attuale periodo di riposo, in base agli studi storici effettuati e a recenti ricerche geologiche, appare atipico in quanto la ripresa dell’attività eruttiva sembra fortemente in ritardo rispetto alla passata frequenza. Nel 2001, una ricerca condotta dalle Università di Napoli e di Nizza, e i cui risultati sono stati pubblicati su Science, ha permesso di accertare che a una profondità di circa otto chilometri sotto la superficie è presente un accumulo di magma che si estende per circa quattrocento chilometri quadrati, dal centro del golfo di Napoli fino quasi ai contrafforti preappenninici.
Per tale motivo il Vesuvio è oggi fortemente monitorato al fine di tentare di evacuare la popolazione della zona rossa sin dalle prime avvisaglie di ripresa dell’attività eruttiva ma il vero problema è e rimane quello della forte antropizzazione del territorio, spesso conseguente alla incontrastata edificazione abusiva.