“Lili”, una canzone per tutti i fronti


La prima “operazione” della campagna militare contro la Jugoslavia, iniziata il 7 aprile 1941, fu compiuta a Milano nel recinto della Fiera Campionaria. Quella mattina, infatti, mentre il Conte di Torino e il Ministro Host Venturi inauguravano, senza la consueta pompa, la prima “fiera di guerra”, elementi tedeschi procedevano all’occupazione del padiglione dove erano esposti i prodotti jugoslavi. Cacciati i “nemici”, fra gli applausi di molti, i tedeschi trasferirono, in quello stesso padiglione, una mostra del turismo germanico. Ma le “imprese” delle forze dell’Asse, in quell’aprile, non furono tutte di questo tipo. “A primavera verrà il bello”, aveva promesso Mussolini a Capodimonte. E’ il “bello” arrivò, puntualmente, con l’inizio della buona stagione. Mai, come in quel periodo, furono inflitti tanti duri colpi all’Inghilterra e ai suoi alleati superstiti.
Solo che il “bello” arrivò per merito tutto tedesco e questo fatto non mancò di aumentare il senso di frustrazione che già circolava, da tempo, in campo italiano. Tutti i successi militari di quei giorni, dalla riconquista della Libia (riprese Bengasi e Derna, il 15 aprile veniva varcata la frontiera egiziana), alla conquista della Jugoslavia (che capitolava il 17) e al crollo della Grecia, ratificato il 23 (e seguito dallo sgombero del corpo britannico con un esodo paragonabile a quello di Dunkerque), vi furono grazie all’intervento delle divisioni tedesche nelle zone di operazioni che, secondo gli schemi ambiziosi della “guerra parallela”, avrebbero dovuto essere controllate dai soli italiani. Un unico fronte si mosse in senso inverso: quello etiopico, tenuto dal nostro isolato “esercito imperiale”. Soltanto qui, infatti, gli inglesi ebbero modo di consolarsi delle stangate che stavano ricevendo altrove. Conquistate Asmara e Massaua, Hailè Selassiè potè tornare trionfalmente nella sua Addis Abeba a riprendersi, con gli interessi (strade, case, cantieri,) l’Impero che gli era stato portato via cinque anni prima.
Ma dell’Impero, sui giornali italiani di quei giorni, si parlò poco o nulla. Tutte le prime pagine furono votate all’esaltazione dei successi italotedeschi, anche se con le opportune censure. Ci si sforzò di convincere i lettori che l’intervento tedesco non era stato decisivo e si dimenticò, annunciando la resa dei greci all’Esercito Italiano, che, due giorni prima, si erano già consegnati al Feldmaresciallo List. E si diede gran fiato alla retorica, come quando si lamentava – secondo le parole dell’archeologo Amedeo Mauri – “che purtroppo nessun Polibio ammonì i greci, come gravemente li ammonì dopo l’ultima ribellione a Roma”.
Ma nonostante la guerra, gli italiani avevano ancora “distrazioni”. Era particolarmente viva l’attività sportiva, che non si arrestò mai del tutto. Fausto Coppi, approfittando di una licenza, partecipò al Giro di Toscana, conquistando una vittoria leggendaria. Basta dare un’occhiata all’ordine di arrivo: 1° Coppi; 2° Bartali a 2’; 2° Fendi a 11’; 4° Ricci a 26’; 5° Magni a 30’. Quelli erano tempi! E poi, il campionato di calcio, con un Bologna in testa alla classifica. Fervevano i Ludi culturali, con l’assegnazione di ricchi premi da parte dell’Accademia d’Italia, presieduta da Federzoni. Il “Premio Mussolini”, di 200.000 lire, fu assegnato a Bruno Cicognani. Altri riconoscimenti furono ottenuti dal neoaccademico Riccardo Bacchelli, Enrico Pea, Oro Vergani, Giuseppe Lugli, Dino Buzzati e Gino Rocca (alla memoria).
Si registrò, in quel periodo, anche un curioso caso giudiziario che interessò tutta la categoria degli avvocati. Un legale bolognese, Umberto Beuttian, si era rifiutato di apporre il bollo “Cicerone”, di 15 lire, ritenendolo un’imposizione ingiusta. Si trattava di un bollo che, in base ad una legge del 1938, doveva essere applicato a tutti gli atti legali. Il suo importo veniva destinato alla cassa pensioni degli avvocati e dei procuratori legali. Il rifiuto di Beuttian fu però condannato dalla Cassazione e ci sarebbero voluti una guerra ed una trentina di anni ancora, per abolire questo balzello.
Intanto, i successi militari dell’Asse avevano rafforzato, in tutto il mondo, l’ipotesi di una prossima disfatta della Gran Bretagna. I giornali italiani pubblicarono, con grande evidenza, una dichiarazione fatta dal Generale Lindbergh, il famoso trasvolatore solitario, davanti ad una commissione del Senato americano. “Ritengo”, dichiarò, “che nessuna forza militare riuscirà a far sloggiare, dalle loro posizioni sul continente europeo, gli eserciti dell’Asse. Neanche se la guerra durasse tre anni…….”. E In America molti la pensavano come Lindbergh. Anzi, i giornali rivelarono che si diffuse, fra l’opinione pubblica statunitense, la psicosi dello sbarco. Temevano che gli italotedeschi, per punire Roosevelt che stava aiutando l’Inghilterra, potessero decidere di invadere gli Stati Uniti. Curiosamente, qualcuno a Washington prese sul serio questa minaccia. Ma subito i vertici delle Forze Armate si affrettarono a calmare gli animi, precisando che per invadere gli USA sarebbe stato necessario un esercito di un milione di uomini, il quale avrebbe avuto bisogno di 20.000 tonnellate di merci al giorno e, per trasportarle, non sarebbero bastare 500.000 tonnellate di naviglio giornaliero. Insomma, gli americani si tranquillizzarono: nessuno, nello scacchiere militare mondiale, sarebbe stato in grado di organizzare un’operazione così gigantesca. Riflettendo su queste considerazioni, dedotte oltreoceano, i governanti italiani si affrettarono, ottimisticamente, a rilevare che, per le stesse ragioni, era da escludere un’analoga operazione!
Su tutti i fronti, soldati dei vari eserciti incominciarono a fischiettare il motivo di una canzonetta tedesca che parlava di una ragazza, chiamata Lili Marlen, la quale aspettava un soldatino alla luce di un fanal. La melodia veniva trasmessa, tutte le sere, da Radio Belgrado che, dopo l’occupazione germanica, era diventata la più potente emittente europea, destinata a raggiungere le truppe del Terzo Reich, dall’Africa alla Norvegia.
Interpretata da una cantante sconosciuta, certa Lale Andersen, la canzone fu trasmessa, per caso, la sera del 29 aprile 1941 ed il suo successo fu immediato. Valanghe di lettere sommersero Radio Belgrado, affinchè fosse mandata ancora in onda. Così, alle 22 in punto, per tre minuti, tutti i giorni, Lili Marleen arrivava a tutti i combattenti. Curiosamente, questo motivo ebbe fortuna non solo tra le truppe tedesche, ma tra i soldati di tutti gli eserciti e diventò la melodia più ascoltata della seconda guerra mondiale. In seguito, resi forse un po’ gelosi dal successo di Lili, gli autori italiani cercarono di contrapporre ad essa un brano dal Titolo Maddalena, i cui versi dicevano: “Maddalena, Maddalè / Tu non sei Lili Marlen / Tu non m’aspettavi al chiaro di un fanal / Ma da dietro i ferri del tuo davanzal…..”. Evidentemente si voleva tartufescamente sottintendere che i soldati italiani non spasimavano per le Lili da marciapiede.
Nel frattempo, le conquiste territoriali, operate dalle forze italiane, non avevano mancato di stuzzicare nuovi appetiti. Mentre era in corso la frenetica campagna per l’annessione definitiva di Nizza al Regno d’Italia (condotta dal poeta futurista Marinetti, dal nipote dell’Eroe dei Due Mondi, Ezio Garibaldi e da una certa Artemisia Zimei, segretaria di un gruppo d’azione nizzarda), si procedeva all’italianizzazione della Dalmazia e della Slovenia, per detenere due nuove corone: quella di Croazia (creata, momentaneamente, Stato Indipendente, sotto la guida del duce degli Ustascia, Ante Payeliĉ) e quella del Montenegro. Per il regno di Croazia, Vittorio Emanuele propose il Principe Ajmone, Duca di Spoleto, fratello del Duca d’Aosta; per il Montenegro, un nipote della Regina, certo Michele, uno spiantato che Mussolini definiva, in privato, “figlio di pochi e poveri genitori”. Molto più cauto il Re si rivelò circa l’annessione della Dalmazia: preferì cederla tutta allo Stato croato. “Se non fosse per certi sentimentalismi”, commentò, ”Io cederei a Paveliĉ persino Zara. Di quelle terre, meno se ne prende e meno grane avremo”. Non aveva tutti i torti.