In Catalogna la Spagna s’infogna


Un comico direbbe che nell’orto non è bene seminare la Catalogna vicino ai fagioli bianchi di Spagna. In realtà in terra iberica oggi come oggi non c’è molto da ridere, anzi, proprio nulla.
Il referendum di domenica scorsa per l’indipendenza della Catalogna ha trasformato l’incertezza della vigilia in una clamorosa certezza: quella che ormai il regno dei Borbone e la bizzosa provincia occitana sono arrivati ai ferri corti.
Diciamo subito che il voto era senza alcun dubbio illegale, e ciò per almeno tre motivi: non è previsto dalla costituzione spagnola (che per il momento la Catalogna è tenuta a rispettare), non è stato fissato un quorum e infine non è stato un voto trasparente. Infatti si hanno prove che svariate persone hanno votato in tempi diversi in più di un seggio, segnale evidente della mancanza di un controllo centralizzato e super partes.
Come detto, la costituzione del 1978, frutto di accordi non del tutto indolori al termine di trentacinque anni di dittatura, non prevede per le comunità (le nostre regioni) il diritto alla secessione – cosa invece prevista, ad esempio, dalla costituzione della ex Cecoslovacchia e da altri Stati europei. Inoltre gli indipendentisti – che già avevano fallito un referendum poco tempo fa – hanno fissato regole arbitrarie per una consultazione che, essendo già di per sé illegittima, non aveva proprio bisogno di ricevere anche il marchio dell’inciucio. Il voler votare anche in seggi di fortuna, improvvisando commissioni elettorali e nominando personale ai seggi senza alcun controllo effettivo da parte della Generalidad, ha prestato il fianco a una selva di critiche in cui si fatica a trovare anche un solo barlume di legalità. I filmati delle persone che votano in più seggi dimostrano che mancavano addirittura delle liste elettorali autenticate. In pratica, pur essendo presenti tutti gli elementi del rito ma mancando totalmente una liturgia, la messa solenne si è trasformata in una farsa.
Detto ciò, com’era doveroso, vorrei soffermarmi su pochi punti essenziali per poter capire cosa in realtà è successo e cosa potrebbe ancora succedere.
Innanzitutto sarà opportuno smentire alcuni luoghi comuni che circolano insistentemente tra le fila sempre più numerose dei “sapienti da internet”.
Il primo tra questi è che la Catalogna cerchi l’indipendenza in quanto a suo tempo chiese ma non ottenne l’autonomia. Niente di più falso: nel 1979, un anno dopo l’adozione della Costituzione, fu adottato un nuovo Statuto di Autonomia della Catalogna che tra le altre cose stabilì, come scrisse El Pais «un sistema di autogoverno senza precedenti nella storia della Spagna»: fu recuperata la lingua catalana, il cui uso era stato vietato durante il franchismo, si fecero passi avanti sulla corresponsabilità fiscale e si ridistribuirono le competenze tra stato e comunità autonoma. Nel 2006 fu approvato un nuovo Statuto di Autonomia, che dava ulteriori poteri alla Catalogna, anche se poi molte sue parti furono dichiarate incostituzionali dal Tribunale costituzionale spagnolo con una sentenza molto contestata. Nonostante quella sentenza, e nonostante le diverse leggi centralizzatrici introdotte dal Partito Popolare dal 2012 a oggi, il grande livello di autogoverno delle comunità autonome spagnole sia una cosa ormai consolidata: migliorabile, ma comunque notevole se comparato con altri stati del mondo.
Sarebbe invece corretto asserire che secondo gli indipendentisti oggigiorno sarebbe in corso un nuovo processo di centralizzazione del potere, e che quindi l’autonomia debba essere trasformata in indipendenza.
Altra bufala ricorrente è che l’attuale costituzione spagnola sia ostile al popolo catalano, motivo per il quale gli indipendentisti la vorrebbero comunque cambiare.
Ci sono diverse cose sbagliate e false riguardo a questo punto. Anzitutto ci sarebbe un problema di rappresentatività nel modo tramite il quale gli indipendentisti vorrebbero modificare la Costituzione: gli indipendentisti nell’attuale Parlamento catalano sono stati votati da 1,9 milioni di persone, pari al 47,7 per cento del totale dei votanti; la Costituzione del 1978 fu appoggiata da 2,7 milioni di catalani, pari al 91,09 per cento dei votanti. La Catalogna fu, insieme all’Andalusia, la comunità autonoma spagnola ad appoggiare con la maggioranza più ampia la Costituzione, alla cui scrittura parteciparono tra l’altro catalani molto importanti. Secondo il País, inoltre, il testo votato non si può considerare in nessun modo quello di uno “stato ostile” ai catalani, ma tipico di uno stato profondamente decentralizzato.
Proseguendo ad abbattere miti, non è assolutamente vero che i Sì all’indipendenza hanno avuto la maggioranza assoluta. I catalani sono circa 7,5 milioni, di cui oltre 6 milioni aventi diritto al voto. I votanti sono stati poco più di 2 milioni e il No ha preso solo 176 mila voti.
Questo dato conferma solo un fatto: sono andati a votare praticamente solo i favorevoli alla secessione. Perché? Semplicemente perché, come scritto più sopra, i partiti indipendentisti possono contare su un bacino di voti che oscilla intorno ai due milioni, ma alle elezioni politiche regionali questa cifra rappresentò meno del 50 per cento dei voti espressi!
Da ultimo, ma non meno importante, è totalmente falso il concetto che il governo centrale “rubi” i soldi alla regione di Barcellona. In realtà, sappiamo che la Catalogna contribuisce per circa un quinto al PIL dell’intera Spagna: è pertanto logico che in una situazione di riparto delle quote fiscali sia tra le regioni che contribuiscono maggiormente a riempire le casse dello Stato centrale, pur se una buona parte di tali imposte finisca nuovamente alla comunità autonoma per via del meccanismo di compensazioni e rimborsi previsto per le regioni autonome (un po’ quello che accade in Sicilia, in Trentino e nelle altre regioni autonome italiane). Da questa falsa concezione deriva poi l’illusione che da solii catalani sarebbero più ricchi.
Innanzi tutto occorre considerare che la Spagna è un forte competitor dell’Italia sui mercati europei, agricoli ma non solo. E’ ovvio che due concorrenti più piccoli sarebbero un favore enorme a noi e ad altri stati dell’Unione Europea! Inoltre il PIL di una Catalogna indipendente è destinato a diminuire drasticamente: la perdita delle sinergie economiche e degli stimoli intellettuali ottenuti dal fatto di appartenere all’ampio spazio economico europeo» sono difficilmente quantificabili, ma dovrebbero essere presi in considerazione. Il ministero dell’Economia spagnolo ha stimato che l’eventuale secessione ridurrebbe il PIL catalano di una cifra compresa tra il 25 e il 30 per cento rispetto a quello attuale; uno studio del ministero degli Esteri, meno catastrofico, parla comunque di un calo del 19 per cento del PIL.
Alla luce di quanto detto fin qui. Appare evidente che i catalani siano caduti con tutte le scarpe nel calderone della faciloneria, lasciandosi guidare da un’idea molto suggestiva quanto fragile.
Nella “Ley del referéndum de autodeterminación vinculante sobre la independencia de Cataluña”, cioè la legge approvata il 6 settembre dal Parlamento catalano che regola il referendum, c’è scritto che la Catalogna ha il «diritto imprescrittibile e inalienabile all’autodeterminazione», in senso «favorevole all’indipendenza».
Non è proprio vero. Il diritto internazionale riconosce il principio di autodeterminazione dei popoli, ma non inteso come diritto alla secessione, quanto piuttosto come diritto del popolo, o di una parte di esso, a essere cittadino con pieni diritti, potendosi quindi realizzare politicamente e partecipando alla vita democratica delle istituzioni del proprio paese. Il diritto alla secessione viene riconosciuto solo in alcuni specifici casi, per esempio dove c’è un dominio coloniale, un’occupazione militare di una forza straniera e dove vengono compiute gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani. Nel resto dei casi il diritto internazionale fa prevalere la “garanzia del confine”, ovvero l’integrità territoriale dello stato, sulle esigenze di autodeterminazione.
Sulla base di tutto ciò non è errato sostenere che il governo catalano ha operato sapendo di essere nel torto, ma compiendo azzardo degno di un grande gambler: ha spinto cioè lo Stato spagnolo a mosse che si sono ritorte contro di esso trasformando una massa di buffoni in una brigata di martiri.
Il primo ministro Mariano Rajoy tra sabato 30 settembre e domenica 1° ottobre è riuscito in un’impresa che ha dell’incredibile: passare dalla ragione piena al torto marcio in meno di 24 ore, e con lui l’intero establishment spagnolo! Adesso sarà durissima ricucire lo strappo e c’è da sperare che tra i pigmei della politica internazionale (non riesco a definire in altro modo i vari personaggi che calcano il red carpet di Strasburgo) ce ne sia almeno uno in grado di evitare una guerra civile intavolando un dialogo e una trattativa che comunque dovrà portare almeno all’autonomia fiscale della regione catalana.
L’unico personaggio che si era tenuto fuori dai giochi, Felipe Juan Pablo Alfonso de Todos los Santos de Borbón y Grecia, alla fine ha fatto ciò che il suo ruolo gli imponeva (e che caspita, almeno un discorso un re lo deve pur fare! come disse balbettando Giorgio V d’Inghilterra). Purtroppo non ha avuto lo stesso successo del suo omonimo francese Filippo VI di Valois, che nel secolo decimo quarto era detto “il Fortunato”: il suo “pippone” al riottoso governo catalano che aveva dimostrato “una slealtà inammissibile” aveva tutti i crismi che la legge spagnola gli permetteva di sfoggiare, e la promessa di aiuto alla maggioranza silenziosa dei sudditi occitani fedeli è anche stato piuttosto convincente, ma l’assoluta mancanza di riferimento alle cariche della polizia e alle manganellate della Guardia Civil, non fosse altro che per promettere provvedimenti contro chi quegli ordini aveva impartito, è stata demoralizzante.
Il re aveva l’occasione per mostrare gli attributi (come fece suo padre in quell’unica occasione che fu il discorso tenuto alla nazione dopo il tentato golpe del colonnello Tejero, il 24 febbraio del 1981), ma l’inesperienza e la mancanza di una capacità politica consolidata lo ha fatto apparire un nano tra i pigmei. Avrebbe potuto scaricare Rajoy dimostrando una classe degna di un re, ma non lo ha fatto. Peccato.