
Un albero per non dimenticare le vittime di camorra, mafia, ‘ndrangheta
La sera del 21 novembre 2004, in una stradina secondaria del quartiere napoletano di Secondigliano, precisamente in viale privato Agrelli, nella carcassa della Fiat Seicento di suo padre, distrutta dalle fiamme, furono ritrovati i poveri resti di Gelsomina Verde, ventiduenne di San Pietro a Patierno, centro a ridosso dell’aeroporto di Capodichino, operaia in una fabbrica di pellami, che occupava gran parte del suo tempo libero con attività di volontariato. L’autopsia evidenziò la presenza, sul cadavere della sventurata ragazza, di tre ferite da arma da fuoco alla nuca, causa della morte, e numerosi segni di percosse; prima di essere uccisa, Mina (così veniva chiamata da familiari e amici) aveva subito lo strazio di una lunga tortura con calci e pugni per poi essere infilata, già priva di vita, nell’auto, incendiata per cancellare le tracce dell’inaudita violenza riservatale.
Le indagini appurarono ben presto la triste dinamica degli eventi: Mina era rimasta vittima della prima faida di Scampia, la guerra di camorra che oppose, dall’ottobre del 2004 al febbraio del 2005, il clan capeggiato da Paolo Di Lauro, (detto Ciruzzo ‘o milionario) spalleggiato dal figlio Cosimo e i cosiddetti scissionisti, staccatisi dalla famiglia e intenzionati a costruire un proprio impero sui guadagni provenienti dal traffico di droga sottraendo ai nemici piazze di spaccio.
Qualche tempo prima, giovanissima, Mina aveva aveva avuto una storia di breve durata con Gennaro Notturno, delinquente in nuce che, alla vita tranquilla e al lavoro onesto, preferì, insieme al fratello Vincenzo, cedere alle lusinghe del potere camorrista e dei soldi sporchi e accodarsi agli spagnoli ( altro epiteto per indicare gli scissionisti, considerata la latitanza del capoclan, Raffaele Amato, nella penisola iberica) spingendo così la ragazza a lasciarlo.
Probabilmente, nonostante la separazione, i due avevano continuato a sentirsi nel tempo o forse, effettivamente, tutto era finito lì ma ciò poco importava ai Di Lauro che, per arrivare al Notturno e infliggere un colpo agli acerrimi nemici, convinti che Mina potesse portarli al loro obiettivo o fornire loro preziose indicazioni sulle sue sorti, la attirarono in trappola usando come esca Pietro Esposito, un ex galeotto cui ella aveva prestato aiuto e di cui si fidava, essendo stata anche baby sitter dei suoi figli. Costui , assolto il suo compito infame, la lasciò nelle mani di Ugo de Lucia, detto Kojak, ennesima nefandezza in questa immonda carrellata, sicario dei Di Lauro che, nel giorno dell’assassinio di Mina, aveva già ucciso due volte.
Sevizie, botte, infine, i colpi di pistola a mettere fine a una vita giovanissima, in cui l’unico momento di debolezza, subito riscattato, era diventato una condanna a morte.
Quattro giorni dopo il ritrovamento del cadavere, Esposito, viene catturato, si pente e contribuisce, con le sue confessioni, alla cattura di De Lucia, nel frattempo scappato in Slovacchia, dove viene scovato nel febbraio 2005.
Nel 2006 Esposito e De Lucia vengono condannati, rispettivamente a 7 anni e 4 mesi di carcere (pena poi ridotta a 6 anni) e al carcere a vita; nel 2008 Cosimo di Lauro, riconosciuto mandante dell’omicidio viene anch’egli condannato all’ergastolo e, pur non dichiarandosi apertamente colpevole, decide di risarcire la famiglia della vittima (che non si costituirà più parte civile) con trecentomila euro per poi essere assolto nel 2010.
La vicenda di Mina, che scosse profondamente gli animi e le coscienze all’epoca per l’atrocità e l’efferatezza che la caratterizzarono, tanto da spingere il pm assegnato al caso, Giovanni Corona, a lasciare l’Antimafia, ritorna , in questi giorni, di attualità in seguito all’omicidio di Nicola Notturno, nipote di Gennaro e alle rivelazioni di un collaboratore di giustizia, tale Pasquale Riccio, secondo cui non fu Ugo de Lucia ad ammazzare la sfortunata ragazza ma Antonio Mennetta, in carcere dal 2013 e capo del clan della Vanella Grassi ( dalla strada di Secondigliano eletta a proprio fortino) detto anche dei “girati”, ovvero di quegli scissionisti che, ad un certo punto, decisero di andarsene per proprio conto, dando origine ad una ulteriore faida che li oppose ai scissionisti della prima ora ( seconda faida di Secondigliano, scoppiata nel 2012). Ciò alla luce di alcune sue affermazioni, più volte ripetute, secondo le quali il de Lucia era in forte credito nei suoi riguardi in quanto innocente in relazione all’omicidio Verde ( in realtà, già nel 2013 un altro pentito di camorra, Carmine Annunziata, aveva ribadito il ruolo di rilievo che, a suo dire, il capo dei girati avrebbe ricoperto nella vicenda).
Aldilà delle confessioni dell’ultima ora, che gettano luce nuova sulle varie faide che hanno tormentato e che ancora affliggono la periferia napoletana diventata enorme piazza di spaccio da conquistare metro per metro col sangue e la ferocia e che interessano prettamente le autorità giudiziarie, l’omicidio della operaia di San Pietro a Patierno è la testimonianza più lampante per ribadire ( nel caso in cui ancora ce ne fosse bisogno) la completa assenza, nelle teste e nelle viscere degli individui di camorra e delle organizzazioni a delinquere in generale di un qualsivoglia seme di coscienza. Si inserisce, infatti, nella chilometrica fila di storie di innocenti ammazzati nell’ambito di vendette trasversali tra cosche, usati per raggiungere i propri scopi e lasciati senza vita in un angolino buio e sporco, ridotti ad un ammasso sanguinolento o ad un mucchietto di cenci bruciacchiati, uccisi per errore, per scambio di persona ,mentre passeggiano ignari per strada o addirittura nelle proprie case. Donne, uomini, bambini, anziani, colpiti indiscriminatamente per punire l’avversario, per cercare di arrivare a lui cogliendolo di sorpresa o solo perché hanno avuto la sventura di trovarsi nel posto sbagliato in un momento ancora più sbagliato.
Emanuela Sansone aveva diciassette anni quando, il 27 dicembre del 1896, fu ammazzata a Palermo da mafiosi che temevano una denuncia, da parte della madre, per falsificazione di banconote. Tra lei e Mina, ci sono, tra gli altri, negli anni più lontani:
– Calcedonio Catalano, morto a 13 anni nel 1945 a San Filippo di Roccapalumba (PA) per scambio di persona;
– Masina Perricone Spinelli, morta a 33 anni, per “ sbaglio”, nel 1946 a Burgio (AG);
-Giuseppe Letizia, deceduto nel 1948 a 13 anni poichè ritenuto testimone dell’omicidio del sindacalista Placido Rizzotto,
– Anna Prestigiacomo, uccisa all’età di 15 anni a Palermo da esponenti mafiosi convinti che suo padre collaborasse con le autorità;
– Giuseppina Savoca, dodicenne palermitana uccisa da un proiettile vagante il 19 settembre del 1959.
Più recentemente, ricordiamo:
Grazia Scimè, casalinga cinquantaseienne ammazzata per “sbaglio”nel 1988 a Gela,
Paolo Vinci e Calogero Loria, di 17 e 26 anni, uccisi a Camporeale (PA), nel 1989, in un agguato il cui bersaglio era Filippo, cugino di Calogero;
Pasquale Primerano, ucciso nel 1989, a 18 anni per errore a Serra San Bruno, in provincia di Vibo Valentia;
Anna Maria Cambria, sedicenne massacrata, ancora per “errore” nel 1989, a Milazzo, ad opera di sicari incaricati dell’omicidio di un pregiudicato;
Maurizio Estate, ucciso nel maggio del 1993, a Napoli, dopo aver messo in fuga degli scippatori e, per questo, punito dai boss cui essi avevano chiesto protezione;
A noi ancora più vicini, i casi di:
Silvia Ruotolo, uccisa nel giugno del 1997 a Napoli , mentre riaccompagna a casa il figlio di 5 anni, freddata da colpi di arma da fuoco destinati al boss Salvatore Raimondi;
Maria Colangiulli, pensionata morta il 7 giugno del 2000 a Bari , colpita da un proiettile vagante esploso durante un conflitto tra bande criminali;
Luigi Sequino e Paolo Castaldi, scambiati per guardie del corpo del boss Rosario Marra e uccisi a vent’anni, nell’agosto del 2000, mentre , in auto, progettavano la loro prossima, ormai imminente vacanza;
Gaetano Marchitelli, quindicenne, morto, nell’ottobre del 2003, durante un conflitto a fuoco nella pizzeria in cui lavorava a Carbonara, in provincia di Bari;
Annalisa Durante, uccisa a 14 anni nel marzo del 2004 nel quartiere di Forcella, a Napoli da killer intenzionati a colpire il boss Salvatore Giuliano;
Antonio Majorano, assassinato nel luglio del 2004 a Paola (CS) perché scambiato per un boss della ‘ndrangheta.
Pochi giorni prima dell’omicidio di Gelsomina Verde, fu trucidato, a Scampia, Antonio Landieri, venticinquenne affetto da disabilità motoria, scambiato per spacciatore; nel dicembre del 2004 Dario Scherillo, 26 anni, rimase vittima di un agguato ancora una volta per scambio di persona; poco più di un mese dopo, un ennesimo, terribile svarione decretò la morte di Attilio Romanò, ventinovenne “confuso” con un affiliato ai clan e trucidato nel negozio di telefonia in cui lavorava.
Se venisse piantato un albero per ogni vittima innocente di mafia, di camorra o altra organizzazione criminale, di ignoranza e prevaricazione, di violenza gratuita e prepotenza, di avidità e inutile desiderio di potere da conseguire a prezzo del sangue degli onesti, ci sarebbero boschi verdi e foltissimi a ricordarci il risultato di tale barbarie.