Ma vi siete fatti i conti bene? Vi conviene?


Due recenti fatti di cronaca napoletana hanno riportato alla ribalta un deprecabile fenomeno purtroppo mai scomparso e sempre voracemente attivo a discapito degli onesti lavoratori : il racket o “pizzo”.
Prima Ciro Scarciello, salumiere della Duchesca (rione a ridosso della stazione centrale di Napoli, così chiamato perché sede, in epoca rinascimentale, di una villa costruita su idea di Giuliano da Maiano per la duchessa Ippolita Maria Sforza, moglie dell’allora duca di Calabria Alfonso II) poi Salvatore Castelluccio, parrucchiere di largo Ecce Homo (in pieno centro storico) hanno, dopo una lodevole resistenza, alzato bandiera bianca e deciso, per salvaguardare le vite proprie e dei propri cari, non solo di cessare le loro attività commerciali ma anche di lasciare il capoluogo campano, dichiarando di essere stati abbandonati dalle autorità e di non aver ricevuto, dalle stesse, la doverosa assistenza nella loro strenua lotta.
A Napoli, secondo uno studio dell’osservatorio S.O.S imprese, un commerciante su due paga il pizzo; dai dati di Confcommercio emerge che la maggior parte di essi, evade esplicite domande in merito, dichiarandosi più preoccupata di problemi come furti e abusivismo anziché di racket o usura e che, nel Sud e nelle Isole il 79% degli appartenenti alla categoria sceglie di pagare in silenzio.
Quella dell’estorsione è la forma base di ogni attività mafiosa, camorristica o comunque legata a organizzazioni criminali di uguale stampo, il modo in cui il delinquente si palesa, la prima manifestazione del desiderio e della volontà di sopraffazione del prepotente che, tramite la coercizione, si dichiara più forte, superiore, esclusivo detentore di una supremazia indiscutibile.
Il termine “racket” indica, nella lingua inglese, una situazione di dominio e di monopolio in un determinato campo e, da questa accezione, passa poi a rivestire il significato di “organizzazione criminale che controlla, attraverso l’intimidazione, il ricatto e l’estorsione, numerose attività illegali” (Grande dizionario italiano di Aldo Gabrielli ed. Hoepli). “Pizzo”, in dialetto siciliano, è invece il becco dell’uccello e, per estensione, la bocca che viene bagnata col vino, offerto in segno di ringraziamento, da chi ha ricevuto un favore; da ciò l’espressione “fari vagnari ‘u pizzu”, abbastanza chiara, sia nel suo senso letterale che in quello lato, anche a chi mastica poco l’idioma siculo.
Tale pessimo costume cominciò a diffondersi, appunto, in Sicilia, alla fine del secolo XIX, quando un manipolo di pericolosi manigoldi e rozzi senza scrupoli che trascorreva il proprio tempo a terrorizzare le zone circostanti il territorio delle loro scorribande, fece il “salto di qualità”, cominciando a perseguitare con richieste di denaro, alcune prestigiose famiglie della zona. All’alba del XX secolo, i baroni D’Onofrio, il principe Starrabba di Giardinelli, i nobili d’Angio’ di Petrulla, inizialmente sordi alle prime pretese, subirono gravi atti intimidatori che spaziarono dai furti alle devastazioni e ancora agli incendi; ai banchieri inglesi Whitaker, nel 1897, fu rapita una figlia, rilasciata poi dietro pagamento di un riscatto ammontante a circa 100.000 lire in un clima di omertà appesantita dai silenzi dei familiari che, sotto le minacce degli estorsori, gestirono la trattativa da soli senza avvertire le autorità.
Ma la pratica del pizzo varcò anche i confini italiani e ciò avvenne proprio ad opera dei feroci delinquenti responsabili di tali crimini, i quali si lasciarono “ammaliare” dalla personalità di Don Vito Cascio Ferro, originario di Bisacquino, in provincia di Palermo, considerato il fondatore della Mano Nera, organizzazione antesignana della cupola mafiosa che affondò le sue radici marce negli USA di inizio secolo. Cascio Ferro incarnò pienamente, stando alle testimonianze, la figura del boss, del padrino pronto a prestare la sua assistenza da mammasantissima ma fu anche un “uomo d’affari”, che costruì nel nuovo mondo un business legato al racket, alla falsificazione di monete e banconote e all’immigrazione clandestina che la Mano Nera controllava fissando e intascando le somme richieste per i viaggi della speranza e producendo documenti fasulli per i nuovi arrivati, molti dei quali neo accoliti della mafia d’oltreoceano.
Nel 1903, Vito Cascio Ferro fu accusato dell’ omicidio di un connazionale, tale Benedetto Madonia, ritrovato decapitato e ritornò in Sicilia per sfuggire al segugio Joe Petrosino, il celebre poliziotto italoamericano di origine salernitana che, giunto nel 1909 a Palermo per una serie di indagini tese ad annientare il cancro del “pizzo”, fu ucciso a colpi di pistola da sicari mandati dal boss di Bisacquino o, come sostengono in molti, dallo stesso Cascio.
Tornando ai non meno foschi giorni nostri e nonostante l’impegno delle autorità in merito, l’estorsione di denaro ai danni di commercianti e lavoratori del settore resta il modo più immediato e diretto per manifestare il predominio sul territorio, per marcarlo e per dichiararlo proprio. Il malcapitato che non ritiene doversi affidare ai mezzi istituzionali per trovare una soluzione al problema o che non si sente da essi sufficientemente supportato, agisce in favore della criminalità o perché non denuncia e paga o perché sceglie la via dell’usura, gestita dagli stessi autentici assassini che pretendono una ricompensa per una millantata protezione, in realtà per la manifestazione più lampante dell’illegalità della quale si nutrono e che significa morte, carcere, vendette trasversali o, come minimo, una vita non vita, trascorsa a guardarsi le spalle e a nascondersi.
Insomma, riandando con il ricordo alla chiosa del celebre monologo recitato da Luciano De Crescenzo nel cult “Così parlò Bellavista” a proposito del pizzo imposto al negozio col civico 157/bis, chiese: “Ma vi siete fatti i conti bene? Vi conviene?