Ritorno ad scholam


Ci siamo. Anzi, ci risiamo. Ancora un paio di giorni e le scuole italiane saranno pronte ad accogliere, per un altro anno scolastico, migliaia di discipuli (si spera) il più desiderosi possibile di apprendere e di arricchire il proprio bagaglio di conoscenze. Per altri otto mesi, i corpi docenti dei nostri istituti (statali e non) di istruzione primaria e superiore di primo e secondo grado si confronteranno con le proprie platee di alunni da formare come buoni cittadini, uomini di integrità e futuri professionisti che sappiano rendere allo stato e alla comunità in cui vivono il giusto contributo in termini di sviluppo e di fattiva partecipazione, lavorando con onestà e producendo per la crescita del proprio paese. Quello dell’insegnante è un ruolo di estrema importanza e delicatezza poiché trasformare bimbi in adulti responsabili e in grado di muoversi limpidamente nella famiglia e in società e con cognizione di causa nel proprio ambito lavorativo necessita di competenze che vanno ben oltre la conoscenza delle varie discipline e presuppongono solide predisposizioni alla comunicazione e alla comprensione. Insomma, come per la storia di ciceroniana memoria, è il caso di definire chi si incammina lungo questo non semplice iter “magister/ra vitae”.
Un illustre predecessore dei nostri docentes, primo fiero sostenitore della scuola pubblica e dell’ istruzione impartita, almeno dopo i sette anni, al difuori della famiglia e non più da istitutori privati ma da insegnanti pagati con denaro pubblico, fu il retore Marco Fabio Quintiliano vissuto tra il 30 e il 96 d.C che, da Calagurris, venne nell’Urbe a studiare grammatica , fu maestro di retorica stipendiato dall’imperatore Vespasiano e, successivamente, educatore dei pronipoti di Domiziano.
Ai tempi di Quintiliano, l’istruzione aveva, di fatto, abbandonato la sfera casalinga, regolamentata dal pater familias, per divenire oggetto di un lavoro vero e proprio, portato avanti da maestri di grammatica, retorica e matematica che provvedevano a preparare ed allenare il giovane alla vita civile e lavorativa, ad essere un buon servitore dell’impero e delle sue istituzioni. Prima di allora, infatti, preoccupazione primaria dei maestri privati, controllati e diretti con rigore dai genitori del discente, era quella di tramandargli principalmente il rispetto per i boni mores e il conseguimento della virtus ma anche di quel senso di pietas e di valore proprio degli eroi antenati, contornando la teoria di nozioni di pratica legate, al massimo, al lavoro nei campi oppure alle tecniche militari. Nel I sec. D. C., l’istruzione comincia invece ad assumere caratteristiche a noi più vicine, diventando anche tecnica e, pertanto, più completa, in quanto finalizzata alla formazione sia dell’uomo che del cives ed estendendosi a tutti i giovani ( almeno fino ai diciassette anni), poiché tutti possono imparare.
Fino ai sette anni, il piccolo poteva essere edotto in famiglia, ma con l’aiuto di un pedagogo (come caldeggiato dal nostro in modo particolare), successivamente, varcava la soglia della scuola e apprendeva i primi rudimenti di scrittura e lettura per poi passare allo studio della matematica. Dai dodici ai diciassette anni intraprendeva un percorso scolastico fondato essenzialmente sullo studio della grammatica per poi passare (ma questo solo per i ragazzi appartenenti a famiglie più abbienti) fino ai venti anni, a quello della retorica, requisito imprescindibile per il buon civis romanus,
In particolar modo nel primo libro della sua opera più famosa, l’Institutio Oratoria, scritta tra il 93 e il 96 d. C, il retore spagnolo afferma che la scuola pubblica, imponendo all’allievo la frequentazione quotidiana con i compagni di classe, stimola lo spirito critico e la capacità di confronto e relazione, oltre ad alimentare quel sano spirito di competizione che genera tenacia, attaccamento alle proprie idee e ferrea volontà di realizzare i propri progetti di vita all’interno della società. Il ragazzo che cresce rapportandosi agli altri o distinguendosene, in assenza di affinità e punti in comune, diviene un uomo completo e maturo e, in quanto tale, è in grado di dare il suo contributo in famiglia e in politica. Inoltre, il rapporto con i propri coetanei genera amicizia e stimola, nel giovane, solidarietà e spirito di fratellanza, instillandogli la consapevolezza di aver dato respiro ad un sentimento che può durare in eterno e che , ancora una volta, ricade nella sfera dei rapporti con il prossimo.
In tutto questo, l’insegnante assume la funzione di guida imprescindibile e viene investito di grande responsabilità poiché deve incarnare un modello di solida integrità, deve essere esente da vizi, non può non mettere in pratica ciò che insegna, deve trattare gli alunni come se fosse il loro padre e deve incitarli ad apprendere continuamente, inculcando loro l’amore e non il fastidio per lo studio. In molti hanno criticato l’ottimismo di Quintiliano, la certezza secondo cui tutti siano in grado di fare tutto poiché dotati di innate e strabilianti capacità di apprendimento ma è innegabile che egli sia stato il primo a dare all’educazione il ruolo rivoluzionario che ad essa spetta, a conferire dignità e peso alla figura del docente, a rivestire l’’istituzione della scuola della legittimità di seconda famiglia e, per tutto questo, a donare all’istruzione una importanza infinitamente maggiore che alla natura, comunque da rispettare e sulla quale formare uomini e donne dall’esistenza proficua e non solo per se stessi. Così la schola è effettivamente buona.