Due pesi e due misure


Se ripensiamo alla crisi albanese degli anni ‘90, quando migliaia di disperati dalla Terra delle Aquile si riversarono in Italia attraversando in condizioni più che precarie il canale di Otranto, ci viene spontaneo fare un paragone con la situazione attuale.
Era il 7 marzo del 1991 quando 27mila migranti albanesi arrivarono nel porto di Brindisi, a bordo di navi mercantili e di imbarcazioni di ogni tipo.
L’8 agosto dello stesso anno al porto di Bari fu la nave Vlora sbarcò 20.000 profughi.
La cosa proseguì a un ritmo più blando negli anni seguenti, ma il flusso sembrava non volersi arrestare. Come racconta bene lo scrittore Vincenzo Latronico nel libro La cospirazione delle colombe, dopo la caduta del regime comunista, all’inizio degli anni Novanta l’Albania si ritrovò in una situazione molto complicata e difficile. Il paese era politicamente isolato, con un livello di criminalità molto elevato, povero e arretrato da un punto di vista economico. Il governo albanese cercò di porre rimedio con una serie di riforme, tra cui quella delle cosiddette “imprese piramidali” che funzionavano come delle banche ma con un tasso di interesse molto alto. Nel gennaio del 1997 la maggior parte di queste imprese fallì e un terzo delle famiglie albanesi perse i propri risparmi. A Tirana cominciarono proteste che poi si estesero anche in altre città, durarono mesi e diventarono sempre più violente fino a quando l’allora presidente della Repubblica, Sali Berisha, dichiarò lo stato d’emergenza: solo una piccola parte del territorio albanese era rimasto sotto il controllo dello governo, mentre la maggior parte del sud e delle zone centrali (Tirana, Durazzo, Valona) erano gestite da bande armate. Fu in questa situazione – che viene storicamente ricordata come “anarchia albanese” – che tornò ad aumentare l’emigrazione verso l’Italia.
A quel tempo al governo c’era il PDS, con Prodi alla Presidenza del consiglio e Napolitano agli Interni. La compagine di Governo vedeva Lamberto Dini Ministro degli Esteri mentre alla Difesa c’era Beniamino Andreatta; i Trasporti erano gestiti da Burlando e Bersani era Ministro dell’Industria.
Il governo italiano decise di adottare una duplice strategia: da una parte offrire accoglienza temporanea nei casi di bisogno effettivo, con l’immediato rimpatrio di coloro a cui non era riconosciuto quel bisogno, dall’altra parte evitare un afflusso massiccio di migranti verso l’Italia tramite un accordo con l’Albania.
Il 19 marzo del 1997 un decreto legge regolamentò i respingimenti; il 25 marzo venne firmato un accordo con l’Albania per il contenimento del traffico clandestino di profughi. L’accordo parlava ufficialmente di un «efficace pattugliamento» delle coste dell’Adriatico e dava alla Marina disposizioni per fare «opera di convincimento» nei confronti delle barche di migranti provenienti dall’Albania: in pratica però fu un vero e proprio “blocco navale”, criticato apertamente dall’ONU.
L’accordo prevedeva un controllo nelle acque territoriali albanesi affidato al 28° Gruppo Navale italiano, che operava regolarmente armato e pronto a rispondere al fuoco se provocato (aveva a disposizione anche un contingente di terra per il controllo dell’area portuale, del porto e del lungomare sul quale si trovavano le aree di partenza dei cosiddetti “scafisti”); una seconda fascia, costituita da navi d’altura, aveva il compito di sorvegliare lo spazio marittimo tra Albania e Italia per intercettare le barche con i migranti; la terza fascia doveva recepire la situazione trasmessa dalle unità d’altura e agire per contenere l’entrata nelle acque territoriali italiane.
Il blocco aveva dichiaratamente lo scopo di evitare l’ingresso in Italia di criminali e migranti economici Il 2 Aprile 1997, infatti, Prodi spiega in Parlamento: “il carattere dell’operazione è un’attività volta soprattutto a stroncare la malavita organizzata che gestisce gli espatri” (no, non è Salvini)
In quei giorni Repubblica uscì con il titolo: “Blocco navale per fermare gli albanesi”. In effetti fu proprio questo: un blocco navale, ma per farlo meglio digerire la chiamarono “Operazione di Convincimento”.
Lo stesso Casini dichiarò pubblicamente che non sarebbe stato sbagliato silurare gli scafisti mentre tornavano coi gommoni vuoti verso Valona e le coste Albanesi.
Furono schierate da principio le fregate Aviere e Sagittario e le corvette Driade, Sibilla e Urania. Tutte furono poste al limite delle acque territoriali albanesi con l’ordine di non far passare nessun natante.
Il 28 marzo del 1997 – un Venerdì Santo – pochi giorni dopo la promulgazione degli accordi una motovedetta albanese, la Katër i Radës, fu speronata nel canale d’Otranto dalla Sibilla, una corvetta della Marina militare italiana che ne contrastava il tentativo di approdo sulla costa italiana. La Katër i Radës era stata rubata al porto di Saranda da un gruppo che gestiva il traffico di migranti. Nel pomeriggio del 28 marzo, intorno alle 15, partì da Valona carica di circa 120 persone, tra uomini, donne e anche molti bambini, molte più di quante ne potesse contenere.
Quel giorno a svolgere le operazioni di pattugliamento nel canale d’Otranto c’erano cinque navi della marina Italiana: le fregate Zeffiro, Aliseo, Sagittario, il pattugliatore Artigliere e la corvetta Sibilla. Le prime quattro avevano il compito di perlustrare le acque internazionali vicino alle coste albanesi. La corvetta Sibilla, invece, aveva compiti e funzioni difensive diverse: collocarsi al confine tra le acque italiane e quelle internazionali, controllando la seconda linea.
Alle 17.15 la Katër i Radës fu avvistata dalla fregata Zeffiro impegnata nell’operazione del blocco navale. La Zeffiro intimò alla nave albanese di invertire la rotta ma questa proseguì. Quindici minuti più tardi della nave iniziò a occuparsi la corvetta Sibilla, più piccola ed agile, che iniziò a effettuare le manovre di allontanamento, avvicinandosi in cerchi sempre più stretti alla Katër i Radës. Alle 18.57 avvenne l’urto. La Sibilla colpì la piccola nave (il ponte era lungo circa 20 metri) due volte: una prima, sbalzando molte persone in acqua e una seconda capovolgendola. Alle 19.03 la nave si rovesciò e affondò in pochi minuti: morirono 81 persone, ne sopravvissero solo 32. Tra i morti 31 erano minorenni sotto i 16 anni.
La sentenza di primo grado, che risale al 2005, ma anche quella di secondo grado, del 2011, stabilirono che la colpa era condivisa tra i comandanti delle due imbarcazioni: il comandante della Katër i Radës venne condannato a quattro anni di carcere, poi ridotti in appello a tre anni e dieci mesi; Fabrizio Laudadio, comandante della Sibilla, venne condannato a tre anni, poi ridotti a due anni e quattro mesi. Il relitto della nave albanese, recuperato, è diventato un monumento a Otranto.
Chi volesse approfondire può leggere la storia della Katër i Radës nel libro Il naufragio di Alessandro Leogrande.
Ma veniamo alle diseguaglianze con la storia dei giorni nostri.
Allora non vi fu nessuna incriminazione al tribunale dei ministri, né per Prodi, né tantomeno per Napolitano o altri componenti l’Esecutivo.
Nessun membro del governo Prodi si presentò a Brindisi, dove aveva sede la centrale operativa. Nemmeno D’Alema, segretario del PDS (nonché pugliese) si recò sul posto!
Durante uno dei tanti altri blocchi, la Sagittario incrociò il peschereccio Nikdei Cervo con 150 persone. Col megafono i militari italiani minacciarono di non proseguire pena rimpatrio immediato. Il peschereccio fece dietro-front senza alcun soccorso nonostante fosse in avaria.
Nessuna omissione di soccorso venne contestata nonostante si trattasse a tutti gli effetti di un blocco navale e nonostante la Convenzione di Amburgo del 1979 recepita in forma di Legge in Italia nel 1989
Anche la Procura di Brindisi affiancò il governo sulla linea dura con l’arresto immediato per comandanti ed equipaggi albanesi che tentassero di sconfinare in acque territoriali italiane.
Il procuratore Giordano dichiarò: “…Si sale su un peschereccio o su un natante qualsiasi solo pagando il pedaggio… secondo alcune testimonianze raccolte ci sono personaggi in zone di imbarco che consentono di salire a bordo solo se paghi, lasciando a terra chi non ha i soldi per pagare”. (No, anche qui non è Salvini) Prosegue il procuratore Giordano: “… la Procura di Brindisi ha motivo di ritenere che i componenti gli equipaggi dei mezzi navali, siano conniventi a pieno titolo con questi sfruttatori”.
Anche il questore Antonio Ruggiero ebbe a dire: “… fanno uso di armi o di altri metodi cruenti per intimidire i clandestini e indurli all’ omertà” (vi ricorda qualcosa?)
E per finire, citiamo le parole del vice dell’allora ministro agli Interni Napolitano, Giannicola Sinisi: “Il fenomeno è mutato di nuovo: sulle nostre coste non stanno arrivando più profughi, ma uomini e donne che vengono da zone dove la rivolta non è neppure arrivata. Cercano una vita migliore, un lavoro più redditizio, sono insomma immigrati”
Anche qui le somiglianze con la storia recente sono impressionanti, sebbene lo schieramento della Magistratura abbia cambiato radicalmente sponda.
A questo punto una domanda si impone: perché quando il pugno di ferro contro l’immigrazione selvaggia era quello della sinistra andava tutto bene mentre oggi che Salvini propone più o menole stesse cose (forse solo più razionalmente organizzate) lo vogliono tutti alla gogna?