Vera Caslavska, atleta ribelle


La vicenda dell’ucraina Kharlan che ai mondiali di scherma batte la russa Smirnova ma non le stringe la mano riporta alla mente la storia di un’altra sportiva di un paese invaso che compì, e pagò duramente, un forte gesto politico: Vera Caslavska.
Fu alle Olimpiadi del 1968, quelle in cui Tommie Smith e John Carlos, primo terzo nei 200 metri piani, sul podio alzarono il pugno chiuso per ribadire la battaglia per i diritti civili degli afroamericani in America, Ma la storia delle imprese atletiche e del clamoroso gesto politico della grandissima Vera Caslavska non ha avuto la stessa eco.
Chiediamoci allora: chi era quest’atleta? Vera Caslavska è stata una delle più grandi ginnaste di tutti i tempi: sette ori e quattro argenti la rendono la quattordicesima atleta con più medaglie vinte ai Giochi Olimpici e la ginnasta con più vittorie a livello individuale. Senza contare i quattro titoli mondiali e gli undici titoli europei.
Imbattuta al concorso individuale tra il 1964 e 1968, Vera Caslavska una ginnasta innovativa, muscolare ma non così piccola come le ginnaste di adesso: è alta 1 metro e 60 e pesa 58 kg, numeri impensabili per una ginnasta di oggi.
È anche bellissima: negli anni del suo successo è in copertina sulle riviste patinate e la sua fama è simile a quella delle dive del cinema. Nel 1968 viene nominata la seconda donna più celebre al mondo, dopo Jackie Kennedy.
Prima delle Olimpiadi, a causa dell’invasione della Cecoslovacchia da parte delle truppe del Patto di Varsavia, Vera Caslavska si schiera a favore delle riforme liberali tentate da Alexander Dubcek e firma il manifesto anticomunista “Duemila Parole”.
Quando i russi, ad agosto, soffocano la “Primavera di Praga” e riprendono il controllo del suo paese, le cose per lei e per tutti i dissidenti volgono al peggio: il grande Emil Zátopek, la “locomotiva umana”, uno dei più grandi fondisti della storia dello sport, nonostante si sia ritirato da tempo viene relegato in una miniera di uranio.
Vera è malvista dal regime sovietico e la sua partecipazione alle Olimpiadi di ottobre è in fortissimo dubbio. Così, mentre le atlete russe sono già in Messico ad acclimatarsi, lei è ancora in Cecoslovacchia: temendo l’arresto e l’esilio si è nascosta, nella campagna della Moravia dove è nata, a casa di un amico, dove si allena correndo moltissimo, sollevando di sacchi di patate e con altri mezzi di fortuna.
“Mi appendevo agli alberi, facevo esercizi a corpo libero sul prato davanti a casa, mi procuravo calli sulle mani spalando carbone”, racconterà. Vera è così forte e famosa che risulta complicato non farla partire per le Olimpiadi, sarebbe troppo clamoroso perfino per il nuovo regime che già deve far digerire alla popolazione la fine delle speranze nate nella Primavera di Praga e il ritorno sotto al tallone sovietico. Così, quando arriva l’autorizzazione Vera parte senza essersi allenata in palestra o aver seguito programmi specifici per abituarsi al clima d’altura, con il rischio di trovarsi fuori condizione a oltre 2000 metri, nell’aria rarefatta di Città del Messico. Eppure inanella una serie di successi clamorosi uno dopo l’altro: oro nel concorso individuale, oro nel volteggio, oro nelle parallele. Alla trave invece un giudizio che farà molto discutere la relega al secondo posto dietro la russa Kuchinskaya.
Ancora più incredibile è quanto accade nella gara del corpo libero. Alla fine delle esibizioni Vera sembra nettamente la vincitrice, poi la giuria, su pressione del membro russo, prende una decisione quasi senza precedenti e va inspiegabilmente ad aumentare il voto delle qualificazioni della russa Larik, che si ritrova avanzata di posizione e diventa anche lei oro, a pari merito con la Caslavska.
È in quel momento che Vera compie il gesto che segnerà la storia sua e dello sport: alle note dell’inno russo china la testa, si gira e rifiuta di guardare la bandiera che rappresenta gli invasori del suo paese. Lo aveva già fatto già durante la premiazione della Kuchinskaya, vincitrice della trave, quando lei occupa il secondo gradino sul podio.
Ma è nella premiazione della Larik, con cui divide il gradino più alto e l’oro, che l’immagine arriva nelle case di tutti gli spettatori, nitida, potentissima: la bandiera cecoslovacca che sale insieme con quella russa, le due atlete spalla a spalla e Vera Caslavska che china la testa e gira con dolorosa grazia il suo viso, senza degnare del suo sguardo l’altra atleta e la bandiera russa.
È la raffigurazione iconica del dissenso: una fotografia che vale migliaia di parole: come Smith e Carlos hanno alzato i pugni per rappresentare al mondo la segregazione di cui i neri sono vittime in America, così Vera Caslavska gira il viso e non onora la bandiera del paese che schiaccia il suo popolo.
Il giorno dopo, in Messico, Vera sposa il connazionale e mezzofondista Josef Odlozil in una cerimonia cui accorrono anche molti messicani divenuti fan di una grandissima atleta.
Vera, al culmine della sua gloria, non sa ancora che la sua carriera, il giorno prima, è finita.
Appena tornata in patria, infatti, viene messa sotto indagine dal governo con altri atleti del suo team per “influenze scorrette”. Le chiedono di ritrattare tutto e togliere la firma al manifesto liberale cui aveva aderito, ma lei non ci sta, così il Comitato Olimpico della Cecoslovacchia la bandisce da tutte le competizioni e le nega l’impiego da allenatrice.
Nel regime filosovietico della sua Patria diventa “persona non gradita”, ma paradossalmente non può andarsene via: ha divieti a volare, espatriare, lavorare.
Vera si guadagna da vivere facendo pulizie, fino a quando un giorno, stanca di subire un destino che non sente suo, va al Ministero dello Sport in tuta da ginnastica e dichiara che non uscirà da lì senza un lavoro. E lo ottiene, seppure solo come consulente! “Hanno voluto cancellarmi e ci sono riusciti” racconterà molto tempo dopo.
Ma le persecuzioni governative non cessano, pertanto questo Vera Caslavska, la bellissima campionessa che dominava lo sport e le copertine dei giornali, cade in depressione e sceglie di ritirarsi in una casa di cura, diradando al minimo le uscite pubbliche.
Nelle sue memorie racconta: “Dopo aver raggiunto la cima dell’Olimpo, non sono scesa per il percorso più facile. La mia strada è stata di pietre, discese a precipizio e pozzi profondissimi”.
Quando le chiedono perché non abbia mai rinnegato la sua contestazione risponde: “Se avessi rinnegato quel manifesto e quella speranza, la gente che credeva nella libertà avrebbe perduto fiducia e coraggio. Volevo che conservassero almeno la speranza”.
Solo negli anni Novanta, dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine del regime sovietico, Vera Caslavska è riabilitata e ha gli onori che merita, diventando presidente del Comitato Olimpico cecoslovacco prima e ceco dopo, membro del Comitato Olimpico Internazionale e consigliera del Presidente della Repubblica Václav Havel.
Muore nel 2016 per un tumore al pancreas contro cui lottava da tempo.
Negli ultimi anni si è schierata a favore della protezione dei profughi e dei rifugiati.
La sua storia è raccontata in un film documentario intitolato “Vera 68” e il suo Paese l’ha dichiarata seconda atleta più importante del secolo scorso, dopo Emile Zatopek, facendola così entrare a pieno titolo nella “Hall of fame” della ginnastica mondiale, sebbene il suo nome sia rimasto sconosciuto a molti.