Una vita per l’Imperatore


Hiroo Onoda avrebbe compiuto cento anni lo scorso 19 marzo; è morto a Tokyo nel gennaio del 2014, incapace di accettare i clamori di un’epoca scolorita che non sentiva più sua. La sua vicenda fece molto clamore. Cerchiamo di ripercorrerla.

Lubang è un’isola al largo delle Filippine, a 150 chilometri in linea d’aria da Manila ma in acque cinesi, di fronte al Vietnam. L’isola è piccola, ricoperta per lo più dalla giungla, con un vulcano inattivo che svetta sulla vegetazione. Per certi versi è un paradiso terrestre: si vive di pesca, in alcuni angoli si coltiva il riso e da anni è un’attrazione per turisti ansiosi di scoprire una cucina interessante. Il 20 febbraio del 1974 Norio Suzuki, un giovane esploratore giapponese, a Lubang riesce a trovare quello che cerca: il fantasma, l’assassino celeste, il guerriero inossidabile. Questi i soprannomi che gli aveva dato la popolazione locale.
I media giapponesi avevano dato notizia di un soldato imperiale, Kinshichi Kozuka, ucciso nelle Filippine il 19 ottobre del 1972.. Kozuka facceva parte di una cellula di guerriglia composta in tutto da quattro soldati giapponesi asserragliati sull’isola di Lubang dal 1944. Uno dei quattro, Yuichi Akatsu, nel 1949 si era allontanato dai compagni e si era arreso a quello che credeva essere l’esercito alleato.. Circa 5 anni dopo, Shōichi Shimada fu ucciso in uno scontro a fuoco con una pattuglia della milizia filippina sulla spiaggia di Gontin. Il governo giapponese dopo molti anni dichiarò morti Onoda e Kozuka, nella presunzione che non avessero potuto sopravvivere così a lungo nella giungla, ma quando il corpo di Kozuka fu riportato in Giappone fu costretto a ricredersi. Tuttavia tutte le ricerche fatte per ritrovare Onoda furono infruttuose.
Fu a questo punto che Suzuki decise di trovarlo. Egli espresse i suo intendimento dichiarando che avrebbe trovato “il tenente Hiroo Onoda, un panda selvatico e lo Yeti, in quest’ordine”!
Approdato a Lubang dopo aver letto tutti i rapporti militari sul ritrovamento dei suoi compagni, Suzuki si mise immediatamente alla ricerca di Onoda e lo trovò dopo soli quattro giorni.
Quando il tenente fu scoperto viveva solo da ormai due anni. Era pronto a sparare a Suzuki a prima vista, ma fortunatamente il giovane esploratore aveva letto tutto sul soldato disperso e disse subito: “Onoda-san, l’imperatore e il popolo del Giappone sono preoccupati per te”. Onoda ha descritto questo momento in un’intervista del 2010: “Questo ragazzo hippie, Suzuki, è venuto sull’isola per ascoltare i sentimenti di un soldato giapponese. Suzuki mi ha chiesto perché non ero uscito allo scoperto”. Onoda non si sarebbe sentito sollevato dai suoi doveri a meno che non gli fosse stato ufficialmente ordinato di farlo. Pertanto, dopo lunghe conversazioni, Onoda accettò di aspettare che Suzuki tornasse con il suo ex comandante (che ora era diventato un anziano libraio) per dare l’ordine di arrendersi. Onoda gli disse: “Sono un soldato e rimango fedele ai miei doveri”. Nel marzo 1974 Suzuki tornò con l’ex comandante di Onoda, che lo sollevò ufficialmente dai suoi ordini. Uscirono insieme dalla giungla di Lubang, l’indomito militare ancora con la katana di famiglia al fianco. Consegnò la spada, un fucile Arisaka Mod. 99 funzionante, 500 munizioni e diverse bombe a mano, così come il pugnale che sua madre gli aveva dato nel 1944 per uccidersi se fosse stato catturato. Quindi si arrese, fu graziato dal presidente filippino Ferdinando Marcos e fu libero di tornare in Giappone.
Non era stato facile per Suzuki convincere Onoda a una resa virtuale: per trent’anni aveva combattuto nella giungla, sorretto da una logica che sfiorava la follia, da una fibra tenace e da una pazienza che ha del santo.. Non credeva che la Seconda Guerra sia finita, non credeva che il Giappone fosse stato sconfitto: il suo credo era la guerra, era stato educato ad essere invisibile, era cresciuto tra le ombre, si era specializzato nell’arte del mimetismo. Ma soprattutto fedele agli ordini ricevuti nel 1944, mentre le forze americane facevano strage dei soldati nipponici.
Per i contadini di Lubang, Onoda era l’incarnazione di un demone, le sue sortite per procacciarsi il cibo – rare, fulminee e mai esose – sono diventate leggendarie. In Giappone, l’ottusa fedeltà del soldato disperso nella giungla, era un monito, il simbolo di un popolo indomito, che combatte oltre ogni ragione. Abile a nascondersi e ad apprendere i segreti del camuffamento dagli insetti e dagli altri animali della foresta, Onoda era convinto che tutti gli mentano e che il dio della menzogna tenti sempre di corrodere la sua fede. In un mondo di vigliacchi, l’accanimento del soldato Onoda ha qualcosa di eroico e al tempo steso oscuro. L’obbedienza, in effetti, supera la ragione e non ascolta il buon senso. Tant’à vero che solo quando Suzuki accetta di scortare nell’isola uno degli antichi comandanti di Onoda, il soldato cede. O meglio: risponde all’ordine che lo scioglie dall’obbligo, dal suo voto di fedeltà.
Nel 1975 Mondadori pubblica con il titolo italiano di “Non mi arrendo” il diario di Hiroo Onoda, “i miei trent’anni di guerriglia nella giungla delle Filippine”. Il libro è scomparso per anni dagli scaffali delle librerie, finché nel 2014 è stato ripubblicato da Edizioni di Ar lo ha pubblicato con il nuovo titolo di “Dietro le linee”. Il racconto non ha nulla di affascinante e non è un capolavoro letterario: è crudo, spesso prolisso, militaresco. Si entra, per lo più, nella ferrea logica del soldato, che ad ogni dubbio e ad ogni tentazione di mollare contrappone sempre la scoperta di incongruenze, i richiami delle forze maligne contro cui deve continuare a lottare. Egli coltiva il rischio quotidianamente, ma verso la fine del racconto, quando ormai ha lasciato la “sua” isola, la commozione che accompagna un’età più matura gli apre nuovi dubbi:
“Tutti noi avevamo sperato che un giorno saremmo tornati in Giappone. E ora io solo tornavo, lasciando gli spiriti dei miei insostituibili camerati sull’isola. Tornavo in un Giappone che aveva perso la guerra trent’anni prima. Tornavo nella terra dei miei avi, per la quale avevo combattuto fino al giorno prima. Se non ci fosse stata gente intorno a me, avrei battuto il capo per terra, gemendo… Per la prima volta osservavo dall’alto il mio campo di battaglia. Perché mai avevo combattuto laggiù per trent’anni? Per chi avevo combattuto? In nome di quale causa?”.
Il 1974 è l’anno, per intenderci, in cui David Bowie pubblica Diamond Dogs e a Cannes Pier Paolo Pasolini vince il Prix della giuria con Il fiore delle Mille e una notte. Quattro anni prima, Yukio Mishima si suicida chiudendo una vita dedicata all’estetica e all’onore del Giappone. Onoda per certi versi è il contraltare di Mishima: stesso senso morale ma vita di azione anziché di pensiero. Addestrato per la guerriglia; non ha fisime estetiche, non ha estremismi ideologici, ma trova una ragione e uno scopo nella guerra nel fango della giungla. È un uomo semplice, in fondo, per molti versi ingenuo.
Acclamato dai compatrioti, Onoda non riesce ad acclimatarsi nel Giappone per lui troppo modernizzato, così pochi mesi dopo si trasferisce in Brasile col fratello che nel Mato Grosso mette in piedi un allevamento di bestiame. Riceve spesso visite di alti ufficiali delle forze armate brasiliane e si adatta alla nuova vita in un clima non troppo dissimile da quello che aveva respirato per trent’anni.
Quando trovò Onoda, Norio Suzuki aveva 25 anni. Aveva studiato economia ma lo affascinavano le storie dei ‘soldati fantasma’ giapponesi. In particolare, era sedotto dai misteri, tanto che nel 1986, dopo avere trovato anche il panda selvaggio che cercava, intraprese una spedizione nell’Himalaya, certo di poter trovare lo Yeti così come aveva rintracciato Onoda. Morì nel 1986 travolto da una valanga, alle pendici del Dhaulagiri la settima cima più alta del mondo. Appresa la notizia, Onoda non ci pensò su molto: volò in Nepal e si fece scortare da uno sherpa sulla tomba del ragazzo che lo aveva fatto risorgere dalla giungla filippina. Pregò per lui, poi fece in modo che il corpo tornasse alla famiglia. Era ritornato in Giappone due anni prima, aprendo la “Onoda Shizen Juku”. Una scuola. Creata, diceva lui, “perché i giovani giapponesi non smarriscano il loro cuore”. Insegnava a orientarsi nella foresta, ad accendere il fuoco, a riconoscere le piante e a distinguere il commestibile dal velenoso. Insegnava a vincere la paura della notte, a costruirsi una capanna nel folto della giungla, a sopravvivere insomma. “Qualsiasi cosa accada, non sarai mai vinto”, pensava. Aveva semplicemente cambiato il proprio terreno di guerra, il soldato Onoda. Gli piaceva stare coi bambini e non arretrava di fronte all’arrembante orrore del mondo. Nella giungla di Lubang, non trovando l’olio di garofano aveva imparato a filtrare l’olio dalle noci di cocco che gli serviva per conservare lucida, perfetta, inattaccata dalla corrosione, la sciabola di famiglia. Quando lo trovarono, nel 1974, sfoderò l’arma, con orgoglio. Era una lama di luce, quella luce che lo aveva guidato nel buoi della giungla per tanti anni.