La “Concessione” di Tientsin: il gioiello italiano sopravvive nella Cina di oggi


Può sembrare una scena tratta da una serie di fantascienza: un paese comunista che restaura con cura una torre dotata di enormi fasci littori. Invece è ciò che è accaduto nella nostra ex-colonia di Tientsin, in Cina, la dimenticata “Concessione italiana” che nel 2021 compie 120 anni.
Già nella prima metà del XIX secolo erano presenti a Shanghai commercianti italiani e, soprattutto, missionari gesuiti, i quali però – come spesso accadde nella storia dell’ordine – non seppero farsi ben volere da una popolazione locale ferocemente attaccata alle proprie tradizioni. Il pluripremiato film di Steven Spielberg “Silente” dovrebbe far riflettere su ciò che per decenni fu una tragedia ignorata a sfondo religioso.
Poi, dal 1868, l’Italia seguendo col solito ritardo l’esempio degli altri paesi occidentali, aveva allacciato relazioni diplomatiche con la Cina grazie anche al viaggio della pirocorvetta “Magenta” al comando del capitano Vittorio Arminjon.
A causa di questo contatto tra una popolazione abituata da secoli ad un nobile isolamento e popoli di estrazione marinara come Olanda, Portogallo, Spagna, Italia Gran Bretagna e Francia che invece cercavano sempre nuovi contatti per mercanteggiare e tendevano a sviluppare non solo il commercio ma anche lo scambio tra le culture, nel 1900 esplose la Guerra dei “Boxer”, lottatori cinesi di Kung-Fu che, sobillati da organizzazioni popolari, si ribellavano in modo violento a ogni tipo di infiltrazione occidentale. Il Regno d’Italia, con altri otto paesi, inviò per proteggere i missionari, un contingente di 46 Bersaglieri di Marina tra i quali il sottotenente Ermanno Parlotto che rimase ucciso negli scontri.
Sedata la rivolta, nel 1901 l’imperatrice vedova Cixi, concesse in premio ai paesi della cosiddetta “Alleanza delle otto nazioni” alcuni terreni sul fiume Hai-He per uso commerciale. L’Italia ottenne solo 46 ettari: una sorta di pantano usato dai locali come discarica e cimitero, ma situato in posizione strategica, sul fianco del porto. Grazie al primo piano regolatore realizzato dal tenente del genio Osvaldo Cecchetti, cominciarono a sorgere strade, palazzi, chiese, caserme, monumenti, banche, perfino una stazione del telegrafo.
Dopo la vittoria nella Grande Guerra, l’Italia poté inglobare anche l’area dell’Austria-Ungheria ormai sconfitta. Nell’arco di quarant’anni, fino al 1943, i nostri connazionali faranno di questa ‘Little Italy’ orientale un vero gioiello architettonico. Nella “Concessione aristocratica” – come fu chiamata – vi andarono a vivere importanti personaggi autoctoni come il drammaturgo Cao Yu e il presidente Li Yuanhong.
I cinesi, con lungimiranza, hanno conservato fino ad oggi pressoché intatto questo straordinario palinsesto di stili, che va dall’umbertino, al Liberty, al modernismo alla Basile, per culminare nelle più audaci e imponenti costruzioni razionaliste di epoca mussoliniana come il palazzo del Forum (dotato di quattro enormi fasci sulla torre) e la Casa degli Italiani.
Infatti, durante il periodo fascista la Concessione Italiana ebbe un vero e proprio boom edilizio divenendo un faro di architettura, di scienza delle costruzioni, di eleganza e tecnologia Made in Italy. La cittadella, delle dimensioni all’incirca dell’abitato di Venezia, per intenderci, era al centro di scambi commerciali e diplomatici di alto livello e per questo gli Italiani, fin dall’inizio, avevano portato civiltà e buongoverno, creando un corpo di Polizia con personale autoctono. I militari di stanza assicuravano la pacifica convivenza tra occidentali (600 italiani e 700 europei) e i 6000 cinesi che vivevano volentieri in quel quartiere al riparo dalle lotte feudali che imperversavano nella Cina rurale pre-rivoluzionaria.
Una colonia, quella di Tientsin, che era stata elargita – non conquistata con la forza – nella quale i nostri connazionali pagavano le materie prime da importare con una certa equità, a differenza degli altri paesi “ospiti”.
Garante della pace e dell’ordine fu, per anni, il Battaglione San Marco sulla cui storia va citato il volume “Il San Marco, in Cina. Memorie dal 1868 al 1946” di Sergio Jacuzzi che documenta tutto il movimento commerciale e militare creato dagli italiani in quel periodo e anche, con bella iconografia, le navi utilizzate per il trasporto dei fanti di marina. Il volume spiega come il Battaglione fosse il primo a ricevere gli equipaggiamenti più moderni per pubblicizzarli in sede internazionale. E’ il caso dell’ottimo elmetto M 33, ad esempio, il nuovo modello che sostituì l’Adrian di derivazione francese e che rimase in dotazione fino agli anni ‘90.
All’inizio della Seconda guerra mondiale, con la Cina invasa dai giapponesi, il San Marco rimase confinato all’interno della Concessione, tagliato fuori quasi del tutto dalle comunicazioni col mondo esterno. L’8 settembre 1943 solo pochi militari scelsero di restare col Re e furono imprigionati dai giapponesi, mentre gli altri, avendo optato per la RSI, vennero rimpatriati l’anno successivo.
La cosa interessante è che tutte le concessioni straniere tornarono alla Cina dopo la guerra e vennero rase al suolo per far posto ai grattacieli; solo quella italiana fu salvata nel 2012 e successivamente sottoposta a restauro.
Storia scomoda quella di Tientsin, in particolare per i sostenitori di quel contro-cliché che, in opposizione allo stereotipo dei bravi italiani citano meccanicamente i gas usati in Abissinia, parificando il colonialismo italiano a quello palesemente avido e arraffone di altri paesi occidentali. Senza voler sbandierare meriti intellettuali o morali dei nostri compatrioti, il semplice fatto che nella corsa alle colonie gli italiani fossero arrivati ultimi fece sì che dovettero accontentarsi dei paesi meno ricchi, civilizzati e progrediti. Per questo motivo fu necessario costruire in loco, creando dal nulla, scuole, leggi, organizzazioni e infrastrutture che nei casi più fortunati durano ancor oggi.
Il caso del pantano di Tientsin, trasformato dagli italiani più e meglio dell’Agro Pontino in un gioiello di urbanistica, dimostra come la storia coloniale italiana sia del tutto diversa dalle altre e che andrebbe finalmente riveduta nell’ottica della ricerca di una verità super partes, scevra da visioni anacronisticamente politiche.