La questione meridionale


Il divario secolare tra Nord e Sud d’Italia, oggetto di dibattiti e teorie politiche, sembra oggi non interessare praticamente più nessuno. Sotto il peso d’una crisi economica devastante, lunghissima e senza fine, è scomparso dai dizionari della politica Italiana un termine importantissimo: Questione Meridionale. Eppure, l’intera storia unitaria è attraversata dalla dialettica meridionalista, portata alla ribalta sul finire del XIX secolo da intellettuali del calibro di Giustino Fortunato, Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini, che evidenziarono già allora il grave squilibrio esistente tra un Nord in rapido decollo industriale ed un Sud arretrato e malgovernato. La guerra doganale con la Francia, la politica protezionistica, la mancata tutela delle colture meridionali portarono, a meno di vent’anni dall’Unità, ad un completo disfacimento economico-sociale del Mezzogiorno, dilaniato dalla miseria che nemmeno l’Ottocento positivista e borghese riusciva a debellare. Fu così che milioni di quei contadini, disperati e senza prospettive, emigrarono verso le Americhe e l’Australia, iniziando un fenomeno doloroso che fino ad allora non aveva mai interessato le ex regioni Duosiciliane. I governi liberali non vollero mai affrontare realmente il problema, che si trascinò sostanzialmente irrisolto fino all’avvento del Fascismo, nel 1922.Il governo mussoliniano dovette inizialmente concedere ampi favori e regalie ai baroni latifondisti, poiché nel meridione il consenso attorno al Fascismo era stato scarso e frammentario, a causa della tradizionale lontananza e apatia rispetto alla politica, tanto che alle Elezioni del 1924 le liste fasciste si erano dovute appoggiare ai vecchi liberali come Orlando per godere del favore elettorale al Sud. Divenuto Regime, il Fascismo poté successivamente agire in maniera diversa nei confronti della celeberrima questione: tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, cominciò l’opera di bonifica delle zone paludose nel Meridione, per estirpare la malaria e rendere coltivabili migliaia di ettari acquitrinosi, oltre alla messa in atto di numerosissimi lavori pubblici nelle zone a più alto tasso di disoccupazione e all’espropriazione dei latifondi improduttivi. Un grande atto, di indiscutibile valore morale fu, inoltre, la decisa azione antimafiosa condotta in Sicilia da Cesare Mori su precisa volontà di Mussolini: la mafia, tradizionale complice dei potenti deputati liberali, fu messa praticamente al tappeto dal dinamismo del prefetto di ferro, che affrontò per primo, dopo oltre 60 anni d’unità, Cosa Nostra.Specie dopo la Guerra d’Etiopia, la proclamazione dell’Impero e la svolta autarchica e totalitaria, il Meridione divenne un punto fermo nella visione geopolitica del Duce: il collegamento tra la Madrepatria e le colonie africane era naturalmente costituito dalle regioni del sud, che erano tra l’altro un formidabile bastione italiano per il controllo del mare nostrum. Nel settembre 1938, Mussolini poteva affermare che “Oggi non ci sono più Italiani di ponente o di levante, del continente o delle isole: ci sono soltanto degli Italiani. Degli Italiani che, sotto i segni del Littorio, sono sempre pronti a combattere e a vincere.”Proprio in questo lasso di tempo (1937-1940) il Regime partorisce le proposte più audaci e originali per risolvere definitivamente il problema meridionale: per andare, come disse Mussolini, verso il popolo bisognava, innanzitutto, debellare la vergogna del latifondo realizzando il sogno di dare la terra ai contadini. Viene dato l’assalto ai latifondi del Vomere in Campania, del Tavoliere nelle Puglie e, soprattutto, vengono presi di mira gli oltre 500mila ettari di latifondo incoltivato in Sicilia: il 20 luglio del 1939 dichiara che “Da oggi si passa all’azione, che impegna tutte le forze del Regime in generale e quelle della Sicilia in particolare. Ho appena bisogno di aggiungere che se egoismi ritardatari, e posizioni mentali sorpassate, facessero tentativi di opporsi alla esecuzione del piano, tali tentativi sarebbero spezzati.”Con legge 2 gennaio 1940, n. 1, intitolata “Colonizzazione del latifondo siciliano”, veniva istituito l’Ente di Colonizzazione del Latifondo Siciliano dotato di personalità giuridica di diritto pubblico, posto alle dipendenze del Ministero dell’Agricoltura e delle Foreste, con il compito di assistere, tecnicamente e finanziariamente, i proprietari nell’opera di trasformazione del sistema agricolo produttivo e di procedere direttamente alla colonizzazione delle terre delle quali l’ente acquisisse e la proprietà o il temporaneo possesso. E’ un evento senza precedenti nella storia dell’Isola e, in generale, del Meridione, poiché il governo, tramite l’Ente predisposto, si adopera in prima persona affinché le terre divengano coltivabili, a tutto vantaggio dei braccianti. Tempo stimato per la riuscita completa dell’opera, 10 anni: nel solo 1940 vengono creati ex novo 8 borghi rurali e 2507 case coloniche, cui spetta un terreno di competenza di circa 25 ettari, nonostante la guerra sia scoppiata a poco più d’un mese dall’inizio dei lavori. Tutto ciò verrà vanificato dall’invasione anglo-americana del luglio 1943 e dalla successiva occupazione, che rimetterà in sella i vecchi padrini e i baroni, facendo naufragare l’intero Meridione in una condizione di miseria, materiale e culturale, che nemmeno il boom è riuscito del tutto a cancellare. Le parole di Mussolini, seppur grondanti di retorica, non nascondono comunque il tentativo sincero di riscattare una parte d’Italia, senza buonismi e ipocrisie, ma con i fatti.Se si guarda allo stato dell’economia meridionale restituisce una fotografia impietosa di una grandissima terra. I rapporti annuali di Svimez, Censis, Istat sottolineano la deriva delle regioni meridionali. Ma ora comincia ad apparire evidente come alle spalle del dissesto economico (crollo del pil, desertificazione industriale, implosione del sistema manifatturiero, povertà dilaganti…) si stia delineando un vero e proprio tsunami demografico e sociale. Sono due milioni i neet meridionali (persone non impegnate nello studio né nel lavoro né nella formazione). Due milioni i giovani tra i 15 e i 34 anni delle regioni del sud che non lavorano e non studiano. Sono oltre il 38 per cento della loro fascia d’età. Molti di più, in proporzione, che nel resto d’Italia (20 per cento) e che in Grecia (29 per cento), percepita in questi anni come l’epicentro della crisi europea.Se da una parte un’ampia porzione dei giovani meridionali appare stretta tra disoccupazione, assenza di prospettive, alienazione crescente, dall’altra si assiste al ritorno dell’emigrazione in forme massicce, sia sotto forma di nuova emigrazione operaia, sia sotto forma della “fuga di cervelli”.Il fenomeno potrà essere meno appariscente se visto dai centri delle grandi città della costa tirrenica e adriatica, ma basta fare un giro nelle zone interne per accorgersi come la scomparsa dei giovani stia diventando un fattore endemico.A questo dato impietoso sulla condizione giovanile si aggiunge quello sul crollo della natalità. Il dato è il più basso della storia unitaria. Più basso dei dati registrati ai tempi del brigantaggio, o durante le due guerre mondiali. Di questo passo nel giro di qualche lustro una metà del paese apparirà sempre più invecchiata, spopolata e marginalizzata.E allora a finire sotto la lente non è solo lo stato dell’economia meridionale. È lo stato dell’Italia unita a essere andato in frantumi. Come è stato possibile tutto questo?Da almeno un ventennio si assiste alla progressiva scomparsa della parola “sud” dalle agende dei governi che si sono succeduti alla guida del paese. Tale parola evoca un certo fastidio: una sorta di cubo di Rubik irrisolvibile che è meglio riporre nel cassetto.Tuttavia, se da una parte desertificazione industriale e desertificazione politica vanno di pari passo, dall’altra bisogna ormai riconoscere che da tempo si è esaurita la spinta del meridionalismo storico, quella specifica corrente di pensiero (italiana, non solo meridionale) che ha fatto dell’analisi critica e del racconto del Mezzogiorno lo specchio dell’analisi critica e del racconto dell’intero paese.Il meridionalismo migliore, quello di Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini, ha sempre interpretato il sud come una realtà non monolitica.Ha saputo analizzare i ceti sociali e le ragioni profonde del cosiddetto ritardo. Ma, nel farlo, ha saputo anche individuare le responsabilità delle classi dirigenti locali, della “borghesia lazzarona”, dei tanti “luigini” (CARLO LEVI) annidati tra le pieghe dello status quo.Il meridionalismo migliore ha sempre pensato che non bisognasse chiedere “per” il sud, attivando la solita economia di scambio gestita dai sottopoteri, ma trasformare il sud, producendo una sorta di rivoluzione culturale. Si parlava un tempo di “riforme di struttura”, tese a cambiare il Mezzogiorno (e di conseguenza l’intera Italia) dalle sue fondamenta, attivando un processo di profonda trasformazione.Cosa rimane oggi di questo meridionalismo? Molto poco. Ciò che è venuto meno è uno confronto critico con la sfera politica.Così, il vuoto che si è creato è stato riempito in altri modi. Da una parte si assiste al ritorno del sudismo, cioè del piagnisteo neoborbonico di chi vagheggia il ritorno a un buon tempo andato , e vede i mali solo e sempre altrove (nel nord, a Roma, a Bruxelles o a Francoforte), emendando di fatto le responsabilità delle élite meridionali. Dall’altra ci sono i nuovi professionisti del Mezzogiorno i mediatori tra centro e periferie che provano a rinnovare nel nuovo secolo ciò che resta dello scambio novecentesco tra fondi pubblici e consenso. Le ragioni per cui la verità sulle vicende risorgimentali non vengono alla luce sono composite, ma riconducibili ad un concetto che il D’Azeglio enunciò nel secolo scorso “Abbiamo fatto l’Italia, adesso bisogna fare gli Italiani”, e possono essere esemplificate nel seguente modo:
a. Il mondo della cultura post-unitaria si adoperò per sradicare dalla coscienza e dalla memoria di quelle popolazioni che dovevano diventare italiane. Il modo piratesco e cruentisissimo con il quale l’unità si ottenne, ammantando di leggende “l’eroico” operato dei Garibaldini (che sarebbero stati, nonostante tutto, schiacciati prima o poi dall’esercito borbonico), sminuendo il fatto che la reale conquista del Meridione fu ottenuta, in realtà, dall’esercito piemontese, attraverso le vicende della guerra civile – nonostante la formale annessione al Regno di Piemonte – e tacendo, soprattutto, la circostanza che le popolazioni del Sud, salvo una minoranza di latifondisti ed intellettuali, non avevano nessuna voglia di essere “liberate” e anzi reagirono violentemente contro coloro i quali, a ragione, erano considerati invasori.Per contro si diede della deposta monarchia borbone un’immagine traviata e distorta, e del ‘700 e ‘800 napoletano la visione, bugiarda, di un periodo sinistro d’oppressione e miseria dal quale le genti del Sud si emanciperanno, finalmente, con l’unità, liberate dai garibaldini e dai piemontesi dalla schiavitù dello “straniero”.
b. Il Ministero della Pubblica Istruzione e della cultura popolare del periodo fascista, proteso com’era al perseguimento di valori nazionalistici e legato a filo doppio alla dinastia Savoia, non ebbe, per ovvi motivi, nessuna voglia di tipo “revisionista”, riconducendo anzi l’origine della nazione al periodo romano e saltando a piè pari un millennio di storia meridionale. Il governo fascista ebbe l’indiscutibile merito di cercare di innescare un meccanismo di recupero economico della realtà meridionale, ma da un punto di vista storico insabbiò ancor di più la questione meridionale, ritenendola inutile e dannosa nell’impianto culturale del regime.
c. La Repubblica Italiana, nel dopoguerra, mantenne intatto, in sostanza, l’impianto di pubblica istruzione del periodo fascista.La nazione emergeva, non bisogna dimenticarlo, da una guerra civile, nella quale le fazioni in lotta avevano, diviso in due l’Italia, il movimento indipendentista siciliano era in piena agitazione (erano gli anni delle imprese di Salvatore Giuliano), non era certamente il momento di sollevare dubbi sulla veridicità della storia risorgimentale e alimentare così tesi separatiste.
”Non esistono questioni meridionali e questioni settentrionali, esistono questioni nazionali poiché la Nazione è una famiglia, e in questa famiglia non vi devono essere figli privilegiati e figli derelitti.”