Vietato abbassare la guardia – parte 1 di 2


Lo scorso 10 febbraio si è celebrata la Giornata del Ricordo, in memoria della tragedia degli italiani di Venezia Giulia e Dalmazia e di tutti i martiri delle foibe.
E’ stata, crediamo, la prima volta che questa celebrazione ha assunto un carattere nazionale ed ecumenico, interessando finalmente anche la coscienza dei cittadini italiani più lontani da quei luoghi. Forse per la prima volta giovani e meno giovani si sono stretti intorno ai parenti di quelle migliaia di persone che vennero barbaramente assassinate per la sola colpa di essere italiani, in nome di quell’ideale comunista che ha condotto a morte oltre cento milioni di persone nel mondo intero. Forse per la prima volta nelle scuole è stato ricordato ufficialmente uno dei momenti più bui della nostra storia mentre in molti luoghi pubblici il minuto di silenzio ha commemorato il sacrificio di un popolo che ha subito in silenzio e per molti hanno ha sopportato in silenzio e con dignitosa compostezza che gli venisse tributato il giusto ricordo.
Ciò nonostante molte, troppe voci fuori dal coro hanno tuonato contro un presunto revisionismo storico che – a loro dire – nulla ha a che vedere con la realtà dei fatti. Gli animi più esacerbati hanno urlato nelle piazze, benché non ci fosse un cane a dargli ascolto, i meno gretti hanno dato luogo a dibattiti, certe volte montati ad arte per l’occasione, in cui hanno dato fondo al loro repertorio di falsità e di atti di pompieraggio nel tentativo di soffocare, come hanno fatto per oltre settant’anni questo disonore.
Perché di vero e proprio disonore si tratta, in quanto non furono solo le milizie di Tito a compiere questa barbarie ben oltre il 25 aprile, ma buona parte dei partigiani italiani, includendo la brigata Garibaldi e tutte le frange oltranziste che afferivano al verbo comunista si prodigarono nela cerca casa per casa degli italiani da offrire in sacrificio alla bestia rossa.
La guerra è guerra, si sa, e in tutte le guerre sono accaduti episodi efferati anche dopo che le armi erano state posate. Basti pensare alla caccia al fascista che ha lasciato alberi e lampioni adorni di corpi appesi da Torino a Palermo, così come le esecuzioni sommarie dei collaborazionisti di Vichy e via via indietro ricordando lo strascico di odi e vendette alla fine della guerra di secessione americana, e così via in un infinita teoria di massacri compiuti al di fuori di ogni codice di guerra.

Il ritrovamento dei cadaveri di Greggio

Non lontano da casa di chi scrive, tra le risaie del vercellese, avvennero parecchi episodi efferati.
Il 12 maggio un gruppo di partigiani della 182ª Brigata Garibaldi “Pietro Camana” agli ordini del biellese Francesco Moranino, detto Gemisto, un vero macellaio poi condannato all’ergastolo dalla Corte d’Assise di Firenze e fatto eleggere dal PCI in Parlamento dopo la grazia concessa da Saragat, partì alla volta di Novara con un autobus ed un autocarro, munito di un elenco di 170 nomi di prigionieri fascisti da prelevare appositamente dallo stadio di Novara che fungeva da campo di concentramento dei prigionieri rastrellati. Giunti sul posto, chiamarono all’appello i fascisti dell’elenco: ne individuarono in tutto 75, li caricarono sugli automezzi e li portarono a Vercelli, rinchiudendoli all’interno del locale ospedale psichiatrico dopo aver costretto il personale ospedaliero ad uscire. Lì vennero percossi violentemente e divisi in gruppi. Fra il pomeriggio del 12 e le prime ore del 13 maggio, la maggioranza dei prigionieri venne eliminata, secondo le modalità che vado a elencare, degne dei peggiori assassini. Undici vennero trasportati nella vicina frazione di Larizzate, fucilati e sommariamente seppelliti in una trincea di difesa antiaerea.
Secondo la ricostruzione della procura di Torino, almeno dieci prigionieri furono legati col filo di ferro, stesi a terra nel piazzale dell’ospedale e schiacciati sotto le ruote di due autocarri, utilizzati “a guisa di due rulli compressori”. I corpi di questi prigionieri non sono mai stati ritrovati. Altri prigionieri sarebbero stati defenestrati o uccisi alla spicciolata, sempre nei locali o nell’orto dell’ospedale.
Un’altra strage avvenne nelle stesse ore, a cavallo tra il 12 e il 13 maggio. Un gruppo di militari prigionieri fu portato a Greggio e fu ucciso in piena notte sulla spalletta del ponte sul Canale Cavour alla luce dei fari di due camion. Il numero delle vittime riportato dalle fonti è variabile da un minimo di 20 ad un massimo di 50. I loro corpi vennero gettati in acqua: alcuni furono ritrovati solo dopo alcuni giorni e in certi casi anche diversi chilometri a valle del luogo in cui furono uccisi. Altri scomparvero per sempre tra le acque.
Un’altra cinquantina di loro compagni di prigionia, probabilmente uccisi in provincia di Novara, venne ripescata giorni appresso nel canale Cavour, all’altezza delle chiuse di Veveri.
Insomma, per farla breve ogni parte d’Italia ebbe i suoi martiri dopo la fine delle ostilità, e siamo certi che se le sorti del conflitto si fossero ribaltate sarebbe successa esattamente la stessa cosa a parti invertite perché, purtroppo, tale è la natura umana.
Anche altre parti d’Italia videro queste esplosioni di odio fratricida negli ultimi giorni di guerra o subito dopo l’armistizio. Tra gli innumerrevoli episodi basti ricordare la strage di Porzûs, dove la famigerata brigata Garibaldi trucidò un gruppo di partigiani bianchi con una barbarie inaudita, o l’eccidio di Malga Bala, in territorio sloveno, dove dodici carabinieri aderenti alla RSI vennero trucidati da partigiani sloveni. Lasciamo a ciascuno approfondire sui mezzi di informazione, ma per meglio capire di che razza fosse questa gente, ricordiamo le modalità atroci di quest’ultima bestiale strage.
Il commando partigiano e gli ostaggi, catturati nella caserma di Bretto di Sotto, costretti a portare a spalla tutto il materiale trafugato dalla caserma, si incamminarono lungo un percorso tutto in salita, nel bosco per raggiungere a tappe forzate Malga Bala, passando per il Monte Izgora (1.000 m circa s.l.m.), la Val Bausiza (di nuovo a valle) e risalendo verso l’altipiano di Bala.
Il lungo tragitto venne intervallato da poche soste, di cui l’ultima, la sera del 24 marzo 1944, in una stalla sita sull’altipiano di Logje (853 m s.l.m.). Qui venne loro somministrato minestrone a cui erano stati proditoriamente aggiunti soda caustica e sale nero, usato per il bestiame perché ad elevato potere purgante.
La mattina successiva (25 marzo) venne fatto percorrere ai prigionieri l’ultimo tratto di strada che li separava dal luogo della mattanza, un casolare sito su un pianoro, malga Bala appunto. Il Vicebrigadiere Perpignano, comandante della caserma, venne arpionato ad un calcagno con un uncino, appeso a testa in giù e costretto a vedere la fine dei propri dipendenti; verrà finito a pedate in testa. Gli altri militari vennero sterminati barbaramente, dopo essere stati incaprettati con filo di ferro, legato anche ai testicoli, così che i movimenti parossistici sotto i colpi di piccone amplificassero il dolore; ad alcuni furono tagliati i genitali e conficcati loro in bocca; ad altri vennero sbriciolati gli occhi; ad altri ancora venne poi spaccato il cuore a picconate; in particolare, al Carabiniere Primo Amenici venne infilata nel petto la foto dei figli.
Ma certamente la vicenda delle foibe supera in orrore tutti gli altri episodi. Non mi è mai piaciuto soffermarmi sui particolari cruenti, ma ritengo sia utile descrivere come di norma (se è lecito usare questo termine!) venivano messe in atto le esecuzioni.
I condannati, che spesso non sapevano di esserlo, venivano condotti con camion e poi a piedi, spesso per lunghi e faticosi tratti, in prossimità delle voragini carsiche, profonde a volta centinaia di metri. Qui venivano legati a due a due senza troppi complimenti con corda o filo di ferro, quindi a uno dei due poveretti veniva elargito un colpo di pistola o una raffica di mitra, spesso non mortale. La vittima cadendo si trascinava dietro il compagno, che se era fortunato moriva nella caduta, altrimenti era destinato a sofferenze d, spesso con uno o più arti spezzati, finché aveva un respiro in corpo. Da notare che in quel frattempo gli altri condannati dovevano assistere a questa sceneggiata disumana, in fila come bestiame al macello!
Solo pochissimi sopravvissero, più per fortuna che per abilità, e furono proprio loro a dare il primo allarme su questo fenomeno che comunque venne volutamente e scientemente ignorato per decenni, finché non risultò troppo grande da arginare.
Ma anche oggi, nonostante il riconoscimento di quel martirio sia ormai realtà, una frangia ben nutrita di negazionisti – che potremmo anche definire ‘controrevisionisti’ – continua con sfacciataggine, protervia e alterigia a disconoscere quei fatti o, almeno, a minimizzarli. Come ha fatto di recente il neocomunista Marco Rizzo a Porta a Porta quando, non potendo negare l’evidenza, ha tuttavia cercato di ridurre il tutto a un fatto di poco conto, dichiarando che in fondo cosa sono poche centinaia di morti in confrontai venti milioni di russi periti nel secondo conflitto.
E un bel chissenefrega gigante non glielo vogliamo mettere in fondo alla frase?
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(NDR: la seconda parte segue la prossima settimana)
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Fonti:
http://www.wikipedia.it
http://www.ilgiornale.it/news/spettacoli/camera-si-minimizza-tragedia-storico-oliva-fu-pulizia-etnica-1362068.html
http://www.carabinieri.it/arma/curiosita/non-tutti-sanno-che/m/malga-bala
Gianni Oliva: “Foibe” (Mondatori)
Marina Cattaruzza: “L’Italia e il confine orientale” (Il Mulino)