La morte di Cesare


Vincenzo Camuccini – olio su tela (400×707 cm) – Circa 1806, Museo di Capodimonte – Napoli.

Alle Idi di marzo del 44 a.C. Caio Giulio Cesare venne ucciso durante una seduta del Senato di Roma. Fu assassinato dai nemici a cui aveva concesso la sua clemenza, dagli amici a cui aveva concesso onori e gloria, da coloro che aveva nominato eredi nel suo testamento. Il popolo di Roma lo pianse; Roma non fu più la stessa.
La Morte di Cesare è un dipinto a olio su tela del pittore neoclassico Vincenzo Camuccini, realizzato intorno al 1806 e conservato nel museo di Capodimonte a Napoli.
L’opera, commissionata nel 1793 da Lord Bristol, fu portata a compimento dal Camuccini intorno al 1806. Il lord, tuttavia, era morto due anni prima, pertanto dopo alcune trattative infruttuose con i suoi eredi Camuccini vendette l’opera nel 1807 a Gioacchino Murat, messo nel frattempo da Napoleone Bonaparte sul trono di Napoli. Con la Restaurazione e il ritorno della monarchia di Ferdinando I di Borbone, la tela fu acquistata da quest’ultimo e ricollocata nel palazzo Reale di Napoli. Nel 1864 l’opera trovò finalmente la sua collocazione definitiva nel museo di Capodimonte.
Il pittore romano, assai sensibile all’influenza di Jacques-Louis David, diede alla scena un’impostazione solenne e teatrale, di ispirazione strettamente neoclassica, con l’adozione di una rigorosa partizione geometrica dello spazio ottenuta attraverso la conformazione del pavimento a blocchi di marmo squadrati.
L’intera composizione si articola staticamente su semplici linee orizzontali e verticali, schema geometrico tipico della pittura neoclassica; i gradini a destra seguono l’andamento della direttrice orizzontale, mentre le linee verticali sono descritte dalle tre sculture poste nelle nicchie del muro e dalla grande statua di Apollo che regge un globo terrestre in mano.
Dal punto di vista cromatico la Morte di Cesare è composta da colori particolarmente caldi, come il rosso e il giallo, stesi sulla tela in modo preciso e senza sfumature.
Secondo il Bazzaunta (Adelmo Bazzaunta-Striminziti: “Le opere classiche spiegate a que’ taddei de’ tempi nostri”, Fiesole, 1888) l’artista trasse ispirazione per questo quadro dalla lettura della “Morte di Cesare” di Plutarco e dall’omonima tragedia di Voltaire, scritta nel 1733 e rappresentata a Roma 65 anni dopo.
Il momento raffigurato è quello in cui Giulio Cesare, alzatosi e sceso dal seggio della curia pompeiana per cercare di difendersi, si accorge della presenza di Bruto, suo figlio adottivo, che lo colpisce senza guardarlo in faccia. Sulla destra è collocato il gruppo di senatori, che osservano l’omicidio di Cesare increduli e terrorizzati.
A proposito della famosissima frase che il condottiero avrebbe pronunciato vedendo il figlio adottivo tra i congiurati, secondo il Melaguasti non fu “Anche tu, Bruto, figlio mio!”, bensì “Maledetto ‘i ti ‘oce ‘r pane!”. In effetti, nella weltanschauung romana dell’epoca tale allocuzione veniva significativamente indirizzata alla persona che fornisce l’alimento di prima necessità pertanto responsabile della sopravvivenza di colui che si intende colpire. Anche se un po’ contorta e bizantina, l’espressione possiede una sua fulminante efficacia fonetica, paragonabile all’ormai classico “maledetta la majale di tu mà…” di gusto meno barocco e di discutibile eleganza, ma più adatta alle relazioni diplomatiche con i paesi della sponda sud del Mediterraneo (Ulderico Melaguasti, in “Americal Journal of Triial Phrases used at Little Italy and Neighbours”, XIX, 71-2).
Quale che fosse l’espressione usata, invero, l’interpretazione che oggi viene data dai moderni studiosi non la colloca semplicemente nel contesto della delusione di un padre che si vede tradito nel modo più crudele da chi amava più di ogni altro, bensì la giustifica come esternazione estrema dinnanzi a ben altro tradimento. Per dirla con il Ficiente, “Cesare sapeva da tempo che la moglie Calpurnia non aspettava altro che il marito partisse per una delle sue campagne militari per giacere con gladiatori e centurioni pettoruti. L’uomo, attento più alla cosa pubblica che alle corna private, sopportò in silenzio finché non venne a sapere da un’ancella che anche Bruto era entrato nelle grazie della matrigna (e non solo lì). La frase pronunciata in punto di morte intendeva dunque svelare il suo essere a conoscenza dei fatti, di modo che il rimorso potesse perseguitare il fedifrago anche dopo la morte del dittatore”. (Ficiente Paride, “Verso un’estetica delle corna: Calpurnia e altri bùi spellati” – Bargagli (GE), 1967).
Al pari di oggi, l’infedeltà coniugale era uso comune nell’antica Roma come ci ricorda il Bucostrinto (Filodemo Bucostrinto: “Gli amori pastorali di Dafne e Tirsi, che trombavan da non dirsi”. Livorno 1621). Tuttavia, nel caso di persone in vista (e Cesare lo era, indubbiamente) il fatto in sé non si limita al reclutamento di manodopera specializzata nel rialzo delle porte di casa, ma pone gravi problemi sociali. Nel caso in questione, se la faccenda fosse diventata di pubblico dominio Cesare avrebbe dovuto ripudiare l’adultera, inoltre ci avrebbe rimesso in prestigio e in immagine, con tanti saluti ai suoi sogni di potere. Ecco allora che il significare a Bruto la sua conoscenza dei fatti solo nel momento supremo acquista un suo perché ben delineato e chiaro. In pratica, la stessa cosa che successe al mi’ cognato Oreste allorché per l’ennesima volta trovò un paio di mutande non sue sotto al letto. Ben sapendo che la sora Argìa se la faceva da tempo col di lui capoufficio, il poveròmo aveva sempre abbozzato per tema di perdere il posto di usciere fancazzista al Catasto. Ma quando si accorse che il corpo del reato feteva di patchouli, orribile essenza indiana che usava ormai solo il suo vicino di casa, soffrendo in silenzio e con modi da gran signore uscì di casa e prese l’autobus per Tirrenia da dove mandò un laconico “So tutto” via sms alla copia fedifraga.
Ma non essendo certo che la moglie avesse afferrato il concetto, dopo un quarto d’ora le scrisse un secondo e più esplicativo messaggio: “Brutto budello, quando torno ti tronco di legnate”.
Dopo di che andò ad ubriacarsi alla bocciofila.