Arte relazionale e partecipativa come pratica sociatrica


Breve storia di un’artista alla ricerca di se stessa negli altri.


AAA. Nella mia sociologia, l’Arte sta accanto all’Amicizia e all’Amore, ma senza alcun romanticismo, perché si tratta prima di tutto di tre sentimenti concreti e, poi, perché hanno il tratto comune di essere coesivi, cioè fattori primari della congiunzione societaria umana. Inoltre, sono sentimenti benefici, che evitano l’ostilità dell’Uomo, a differenza dell’odio e dell’invidia, ad esempio. Il sociologo, e ancor di più la sua versione clinica, il sociatra, in particolare di tipo organalitico, si occupa del miglioramento della miriade di società umane di oggi, in una umanità complessiva che è di Grande Massa, cioè fatta da 8 miliardi di individui e da 40 a 80 miliardi di società umane.


L’Umanità di oggi e del domani prossimo è dunque moltiplicata e societaria, immersa nella Quadrivoluzione (Globalizzazione, Antropocene, Ipermediatizzazione e Ginecoforia) e nel Transumanesimo (protesi fisiche di tutti i tipi, Intelligenza Artificiale, ibridazioni, nuove tecniche riproduttive, omologazione del genoma umano, i neuro-chip di Elon Musk, gli studi sulla coscienza del referente storico del microprocessore Federico Faggin, …).
Di fronte a questa grande aleatorietà, a questa era neo-diluviana che interessa il mondo esterno e anche il mondo interno dell’Uomo, viene quasi naturale rivolgersi all’Arte: chi se non l’artista ha sempre rischiato, messo in gioco la sua intelligenza e vita nella ricerca del significato tramite le percezioni sensoriali? Cosa c’è di meglio della pratica più libera del rapporto tra segno e significato, oggetto principe di qualsiasi creazione artistica, per educare alla varietà, preparare all’imprevisto, all’esercizio dei sensi e, quindi, aiutare l’umano contemporaneo?


Di fronte a questo diluvio che sembra confondere tutto, rimangono alcuni estremi punti d’appoggio: 1. la capacità di esperienza individuale sul piano percettivo sensoriale, ove la pratica dello yoga integrale si presenta come uno strumento efficacissimo a sostegno, perché profondo ed empiricamente strutturato da oltre 5000 anni; 2. i sentimenti coesivi, che possiamo ricondurre ad Amore e Amicizia, che l’esteso studio clinico sociatrico-organalitico di un migliaio circa di organizzazioni umane ha evidenziato come base estrema della società umana; 3. Il panorama estetico che ci circonda, composta da canoni artistici di grande varietà e molteplicità, ben distanti ormai dal principio di raffigurazione longhiano, con l’uso coordinato di linea, colore e forma nel cubo della tela.
La mia lettura dell’arte anche relazionale e partecipativa della brava artista abruzzese Anna Seccia sarà dunque contemporanea e concreta, secondo ciò che si deve chiedere ai sociologi dell’arte: istruzioni sul come tenere oggi il timone dell’arca nel mare in tempesta, e non altri elementi filosofico-estetici o di storia dell’arte che possono piacere agli artisti, ma che si presentano come aspetti secondari nel mezzo della tempesta perfetta, la più completa che l’umanità abbia mai vissuto.
Riguardo ad Anna Seccia ( www.annaseccia.it ), prima di passare alle cose importanti per noi del suo lavoro, occorre considerare alcuni elementi: sono stati scritti su di lei oltre 50 testi da storici dell’arte, studiosi di estetica e varie figure in funzione di critica d’arte; ha esposto in circa 30 mostre personali in Italia e all’estero; ha partecipato con sue opere a oltre 200 mostre collettive in Italia e all’estero; ha partecipato a oltre 20 tra fiere e manifestazioni d’arte anche all’estero; ha ottenuto una trentina circa tra premi e riconoscimenti istituzionali per la sua produzione artistica; circa 300 sono i pezzi giornalistici che sono apparsi su di lei sulla stampa nazionale e internazionale e 40 i video e servizi televisivi che hanno parlato di lei. Dunque, dice il sociologo, è evidente dalle numeriche sopra, ottenute tutte con spontaneità e per volere altrui, cioè per concreta e favorevole selezione, che si tratta di un’artista importante, con un suo messaggio conformato e una sua evidenza estetica. Anna Seccia fa parte già della corrente post-longhiana, quella per cui il coordinamento accademico di linea colore forma nel cubo della tela non è più condizione essenziale.


Come il suo miglior critico, l’illustre Giorgio Di Genova, ha colto con precisione, facendo il punto storico nella monografia a lei dedicata, Anna Seccia è “Anna dei colori” e, in particolare, del blu. Un colore nobilissimo che non ha mai abbandonato la sua intrinseca ricchezza, transitando da ricchezza materiale (col lapislazzulo afgano e l’azzurrite di Giotto, che gli Scrovegni, usurai padovani, hanno voluto come dominante nella loro Cappella per segnalare la propria opulenza ai vicini veneziani) a emblema di ricchezza morale, profondità e pace. Scrive infatti Di Genova con proverbiale ottima sintesi, che Anna è un artista di sangue colorato e in particolare di “sangue blu”. Poi, un poco spaventato del senso aristocratico della locuzione, immediatamente precisa, senza rinunciare alla elegante e appropriata metafora, che si tratta di sangue democratico (il blu, dico io, della profondità e della pace, quindi).
Infatti, l’esperienza che segue all’esteso e vigoroso curriculum da artista individuale, è quella dell’arte condivisa, societaria, collettiva, senza soggetto unico che la produce: è la Arte relazionale, di cui parleremo nel prossimo pezzo dedicato, conosciuto meglio, con questo, il profilo dell’artista.
Chi è Anna Seccia? Ecco la sua risposta.
“Me lo domando tutti i giorni. Dovrei essere equilibrata, normale ma c’è sempre agitazione, eccitazione in me: una ricerca di cui mi sfugge il significato finale. È molto faticosa… ogni giorno faccio un gradino. Ma… è una domanda che mi faccio spesso. C’è anche però tanta gioia. Adesso per esempio cambio casa… La casa in cui sono vedova da quarant’anni… Esco dalla casa che ho costruito con mio marito, i bambini erano piccoli, in centro a Pescara: quando sono entrata là i miei figli avevano 5 e 9 anni, l’abbiamo ristrutturata e poco più di due anni dopo mio marito è morto di leucemia. Mio marito era commerciante di scarpe e io insegnavo al liceo artistico pittura e scultura. L’ho conosciuto mentre facevo architettura all’università, che poi ho lasciato perché ho voluto fare l’artista. E intanto insegnavo al liceo artistico, già a 19 anni insegnavo, poi sono andata in pensione prestissimo con 19 anni sei mesi e 1 giorno, sempre perché volevo fare l’artista. Ecco, dopo la pensione, due anni e mio marito è morto. La famiglia era sulle mie sole spalle: commerciante o artista? I figli… le responsabilità… Decisi “commerciante” e distrussi il lavoro di artista fatto fino a quel momento, eliminai tutto. Vado da mio cognato che era in società con mio marito e gli dico: lavoro con te. Lui mi rassicura e dice no fai pure quello che ti piace, quando tuo figlio sarà in età verrà lui. Ma mio figlio non vuole poi lavorare con lo zio, e allora io vengo liquidata con pochi soldi. Quindi ho ripreso a fare arte. Ma non riuscivo a riprendere appieno, era come se avessi perso le capacità… Allora ho abbandonato la tela, il supporto della mia epoca precedente, che avevo distrutto, e ho iniziato a lavorare su tavola. Ho scelto la tavola perché così forse non avrei potuto distruggerla facilmente… Ho fatto molte esperienze di arte terapia, a Roma a Milano, sui suoni… proprio per ritrovare quella parte creativa. Non so chi è Anna Seccia, ripeto, sono timida e introversa: ed ecco anche perché vado a cercare persone per fare le cose con loro… L’arte partecipata che ritrovo nei risultati delle persone devo portarla alla fine, e vado in crisi: non riesco fino a che la sfida è matura. L’arte è un’altra dimensione, e allora vado a cercare le persone e a scontrarmi con le persone che hanno lasciato le tracce, e così attenuarle, e dare un senso, un senso compiuto, a ciò che le persone hanno contribuito nelle opere.
Stanza del colore: una mia creazione questa locuzione. Che cosa succede alle persone quando entrano in una stanza del colore? Un bambino fa cose spontanee, un adulto invece no… e allora ecco che agli adulti devo infrangere le resistenze, e quindi nella stanza si sviluppano comportamenti nuovi, che riconducono a elementi originari della sensibilità emozionale di ciascuno, su cui si costruisce un percorso partecipato e limpido di manifestazione umana.
Da dicembre, nella mia nuova vita, andrò a vivere vicino allo studio: prima avevo una casa grande e un piccolo studio, adesso avrò una casa piccola e un grande studio”.
Mentre l’arte individuale (la prima fase della vita artistica della figura speciale ed emblematica di Anna Seccia) approfondisce e contamina tecniche e materiali, la società esprime in modo sordo un bisogno di comunità. L’intuizione è dunque quella d’infrangere l’unicità del soggetto che produce l’opera, estendendo a un numero imprecisato di partecipanti. La sfida di un’artista come Seccia è quella di allargare le spalle dell’arte a più sensibilità personali, per riprendere a valle dei diversi contributi il compimento catartico dell’opera. Apparirebbero delle analogie con il lavoro delle “botteghe” rinascimentali e sei-settecentesche, ma è l’opera che ha cambiato senso: non più lavoro per la riproduzione magistrale ai fini di una più longeva memoria di qualcuno (il ritratto) o qualcosa (natura morta, paesaggio o arte sacra) bensì creazione artistica tramite la fusione societaria. L’organizzazione societaria, che nella bottega è il mezzo per la produzione del fine, che è l’opera, diventa il fine, e il fine (la produzione dell’opera) diventa il mezzo. Una rivoluzione copernicana interna al processo produttivo dell’arte.
Nel prossimo pezzo vedremo come avviene.