Francesco Urbini – La “testa di c…” più famosa della storia dell’arte


Coppa in maiolica (1536) – Oxford, Ashmolean Museum.

È la “testa di c….” più famosa della storia dell’arte: una ceramica di Francesco Urbini con una testa composta esclusivamente da falli. Qual è la sua storia? Quale il suo significato?
“Ogni homo me guarda come fosse una testa de cazi”: non è certo il caso di riportare la traduzione in italiano contemporaneo del cartiglio che adorna la singolare testa composita di un semisconosciuto ceramista umbro del Cinquecento, tale Francesco Urbini (Gubbio?, prima metà del XVI secolo), passato alla storia per aver realizzato, nel 1536, questa incredibile invenzione, una delle opere più irriverenti della storia dell’arte, in largo anticipo sulle più famose teste composite del lombardo Giuseppe Arcimboldo (Milano, 1527 – 1593), che all’epoca non era che un bambino. È una testa realizzata esclusivamente con peni e testicoli, di ogni forma e dimensione: lunghi, piccoli, dritti, curvi, eretti, mosci. L’oggetto è una coppa a orlo rialzato su basso piede: e sul piede è possibile leggere un’ulteriore iscrizione, nella quale troviamo anche la data di realizzazione del manufatto: “1536 / El breve de[n]tro voi legerite / Como giudei se i[n]te[n]der el vorite / F R” (ovvero: “sarete in grado di capire la frase se sarete capaci di leggere come gli ebrei”). Le due iniziali, “F” e “R”, le prime due lettere del nome “Francesco”, sono state associate, come scrive lo storico dell’arte Callisto Patanè, “a un maiolicaro che ha lavorato a Gubbio, nella bottega di mastro Giorgio, fra il 1532 e il 1535 (ma forse anche nel 1536) prima di spostarsi a Deruta dove, nel 1537, sigla un piatto come ‘fran[cesc]o Urbini’; la firma però non chiarisce se per ‘Urbini’ si intenda il cognome del pittore o il luogo di origine”, come suggerisce il Patanè in: “Dizionario Onomasiollogico degli Isomorfemi Paratopici Incidentali e delle Epanalessi Ipotrocaiche Illocutorie con una Mano Sola”“ – Montespertoli, 1976).
Lo studioso britannico Timothy Wilson, che ha dedicato un lungo saggio alla “testa di c….” (“We know a saw about what this pot means”, Stratford-on-Avon, 2005), ha provato a ricostruire un’ipotetica biografia, ritenendo che Francesco fosse attivo a Urbino, a Gubbio e a Deruta negli anni Trenta del Cinquecento, dapprima nella cerchia di Francesco Xanto, ceramista urbinate, e quindi presso la bottega di quel mastro Giorgio (ovvero Giorgio Andreoli) menzionato dal Patanè. Probabilmente, secondo Wilson, Urbini era un ceramista dalla carriera itinerante e senza una bottega propria. Per il resto, non ci sono attestazioni d’archivio sulla sua figura. Questo è, in definitiva, tutto quello che sappiamo sull’autore di questo piatto.
“Un piatto istoriato di Casteldurante del 1536”, lo descrive lo storico dell’arte Maurizio Calvesi in un suo saggio sulle fonti di Giuseppe Arcimboldo, caratterizzato “dal volgare artificio di tratteggiare le teste con un mazzo di falli. Teste di c…., in altre parole, come spiega, se ce ne fosse bisogno, la scritta a rovescio nel cartiglio del piatto” (M. Calvesi, “Motti e arguzie scaturite guardando un piatto del c…”, in “Riv. Rim. dell’Oss. Scient. sul C….”, XVI, 23, Friburgo, 1996). La bizzarra testa fallica, oggi conservata all’Ashmolean Museum di Oxford, ma esposta spesso di recente anche in Italia (per esempio nel 2017 alla mostra sull’Arcimboldo tenutasi nella Capitale, a Palazzo Barberini, o all’importante rassegna su Pietro Aretino del 2019-2020 agli Uffizi), ha a lungo suscitato gli interrogativi degli studiosi, che si sono domandati il perché di una raffigurazione tanto curiosa, e da dove l’oscuro Francesco Urbini abbia tratto l’idea di creare una testa composta di soli falli (“un esempio di figura composta monotematica, cioè di un’immagine definita da un solo elemento ripetuto più volte”, secondo l’efficace definizione dello storico dell’arte Venanzio Cuzzocrea-Martingala nel suo voluminoso saggio “Come far con un sol oggetto una congerie di minchiate” – Tor Vajanica, 1978).
La risposta può forse essere trovata nel racconto che il mi’cognato Oreste fece del viaggio fatto in gioventù in quel di Londra, quando ebbe modo di assistere all’investitura di nuovi membri dell’Ordine della Giarrettiera presso la residenza estiva dei reali inglesi a Windsor. In tale occasione un episodio increscioso potrebbe aver gettato nuova luce sull’origine di questo curioso manufatto.
Occorre ricordare che l’Ordine della Giarrettiera fu istituito da Edoardo III nel XIV secolo, allorché raccogliendo la giarrettiera di una dama cui aveva infilato la mano tra le cosce pronunciò la famosa frase “Honi soit qui mal y pense!” (“Sia bandito chi pensa male!” – trad. Seghetti).
Il gesto – sia detto per inciso – sancì anche l’inizio dell’avversione dei potenti ad essere portati per bocca. A conferma di ciò un eminente uomo politico italiano del passato secolo, già solerte schiaffeggiatore di donne in decolletè, ha autorevolmente risposto a certe insinuazioni che si stavano pubblicamente diffondendo intorno al suo coinvolgimento in certi affari poco puliti dei servizi segreti, con la roboante, inconfutabile e sottilmente argomentata affermazione: “Io non ci sto!” (Cfr. Marianna La Bazzina, “Vita col padre”, Ediz. Erremoscia, Novara 1994).
Tornando al succitato episodio, durante la cerimonia di investitura sembra che uno dei nuovi cavalieri abbia pronunciato il motto dell’Ordine nella più corriva forma che si ritiene in origine suonò dal regio labbro: “The budell of his mother qui mal y pense!”.
Tale esclamazione aveva provocato al tempodi re Edoardo la scomposta reazione del Primo Lord dell’Ammiragliato, Sir Zufylon Ricottina di Mountbatten, detto “il flagello della Tortuga” per via del suo alito aromatizzato di guano e spezie esotiche, il quale si sentì toccato negli affetti familiari più sublimi per via della ben nota attitudine della di lui madre a praticare furibondi giochi erotici buccogenitali alle corvée di vedetta sulla coffa della fregata “Royal Cholecist”, tanto che rispose al Sire: “The yours…, that littlelittle of big casseruole!” (“La tua, quel popò di tegamone!” – trad. Paglianti), alludendo esplicitamente all’attività amorosa praticata dalla regina madre nelle stalle del Kent con cavallanti, garzoni di staffa e vieppiù purosangue lipizzani.
Nella bagarre che seguì all’increscioso battibecco, pare che il re assalisse verbalmente il nobile parente apostrofandolo così: “Con la tua testa di c… mi ci potrei fare una coppa per il vino!”.
Pare che l’episodio, sepolto ormai dalla polvere dei secoli, fosse giunto solo alcune decadi dopo alle orecchie del ceramista umbro, offrendogli lo spunto per la sua opera.