PsicologicaMente – Il coraggio di non piacere


“Ognuno è un genio. Ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi lui passerà tutta la sua vita a credersi stupido.” ( A. Einstein )

Cari lettori, per la rubrica di questa settimana ho deciso di prendere spunto dal titolo di un libro (“Il coraggio di non piacere, Liberati dal giudizio degli altri e trova l’autentica felicità” di Ichiro Kishimi, Fumitake Koga) che mi riprometto di leggere al più presto ma che mi ha già fatto molto riflettere: vorrei affrontare la tematica del “giudizio”.
E allora vi domando, quanto pesa per voi il giudizio altrui?
Da uomo, ma ancor più da psicoterapeuta, certamente mi viene spontanea una premessa.
Giudicare è un atto di facile realizzazione, l’impresa davvero epica per un essere umano oggi è osservare senza avvertire la necessità di aggiungere aggettivi o commenti personali.
Questo spiegherebbe perché la maggior parte delle persone si limita ad esprimere giudizi senza porsi il problema di capire, di eliminare tutto ciò che in effetti filtra e rischia di annebbiare la loro prospettiva del mondo.
Quanti di noi ci soffermiamo a chiederci, prima di esprimerli, se i nostri giudizi apportino effettivamente valore? Quanti provano a mettere in dubbio da dove viene il metro di giudizio adoperato per attribuire gli altri le etichette di “buono” o “cattivo”?
Nietzsche disse che “il giudizio e la condanna morale sono la vendetta preferita delle persone spiritualmente limitate rispetto a coloro che lo sono meno di loro”.
Di certo sarà difficile per le persone che interpretano il mondo in bianco e nero comprendere la prospettiva di chi, diversamente, lo vede a colori: nasce l’incomprensione, che a sua volta finisce col generare un rifiuto che si esprime attraverso una comoda condanna morale.
Questo meccanismo si innesca perché tutto ciò che non risulta in linea con questa visione limitata del mondo spaventa ed è proprio la paura a diventare lo strumento che si adopera per emettere verdetti sul prossimo, e questo avviene laddove le idee e gli argomenti logici si esauriscono.
Sembrerebbe, allora, che si possa correttamente affermare che in questa società vale il principio per cui: meno si pensa e più si giudica.
In effetti anche la scienza avalla questa tesi.
Siamo portati a pensare che il giudizio sia una conclusione ben ragionata ma la realtà è che fonda le sue basi più sulla mera intuizione e su quegli usi comuni ormai radicati nella società che su un autentico ed imparziale processo di riflessione.
Tutto quanto sin qui detto non è solo una mia semplice considerazione ma è il risultato di moltissimi studi.
Ad esempio il centro di studi psicologici dell’Università della California ha evidenziato come sono principalmente le emozioni che proviamo ad indirizzare le nostre intuizioni, e sempre le stesse emozioni a darci la percezione che qualcosa sia da considerarsi giusta o sbagliata.
Le indagini condotte a livello scientifico inducono a credere che i giudizi intervengano a seguito di una riconsiderazione, ovvero dell’innescarsi di un iter attraverso cui si attenua la vivacità delle emozioni e ci si concentra su una descrizione intellettiva di quanto ci circonda. In altre parole, i giudizi sarebbero una semplice razionalizzazione di ciò che proviamo nel momento in cui ci confrontiamo con qualcosa o qualcuno che poi ci suggerisce un giudizio, un modo attraverso cui “spiegare” la nostra avversione.
E’ stato provato che quando esprimiamo giudizi di affidabilità guardando i volti delle persone, nel nostro cervello si attivano le aree legate alle emozioni, come l’amigdala, l’insula anteriore, la corteccia prefrontale mediale e il precuneus.
Traducendo il linguaggio tecnico ciò significa che quando i giudizi comportano l’attribuzione di etichette semplicistiche, di solito sono il risultato di pregiudizi e sicuramente preclusioni. Tutto questo dipende dall’applicazione automatica ed inconscia delle norme sociali che ormai abbiamo interiorizzato, dal modo di esprimersi di un mondo dualistico in cui le cose non possono che essere buone o cattive, brutte o belle, e soprattutto un mondo che non incontra mai una via mediana.
A tal proposito Nietzsche affermò che: “in linea di principio siamo inclini ad affermare che i giudizi più falsi (i giudizi sintetici ne fanno parte a priori) sono i più essenziali per noi, che l’uomo non potrebbe vivere se non ammettesse finzioni logiche, se non misurasse la realtà con il metro del mondo puramente inventato dell’incondizionato, identico a se stesso, se non falsasse continuamente il mondo”.
Ed è vero, il giudizio cela il più delle volte il timore atavico di quanto non riusciamo a comprendere (o che semplicemente non vogliamo comprendere) perché ciò richiederebbe un troppo duro lavoro intellettuale.
Possiamo allora concludere che il giudicare è la manifestazione dell’incomprensione e dunque del rifiuto del diverso da noi ma anche ed allo stesso tempo la ricerca di protezione in un mondo che vogliamo immaginare fatto per noi.
Ma allora come evitare l’innesco di questo disdicevole, seppur umano, processo dentro di noi?Bisogna impegnarsi a sostituire i giudizi con l’osservazione e la comprensione di ogni cosa che ci circonda.
Voglio ancora una volta fare riferimento a Nietzsche che, nel suo libro “Al di là del bene e del male”, sostenne che l’unico vero criterio per stabilire il valore da attribuire ad una prova è la sua capacità di preservare, favorire e migliorare la vita dell’uomo.
Egli scrisse che “Il punto è sapere fino a che punto tale giudizio favorisce la vita”, credeva cioè che i giudizi assumono un reale valore soltanto quanto contribuiscono a migliorare la persona, permettendogli di superare i suoi stessi limiti, rendendola più forte, felice, creativa, riconciliata con sé stessa ed appagata nei confronti del mondo.
Perché questo obiettivo sia raggiungibile, sempre Nietzsche suggerì che “dobbiamo allontanare da noi il cattivo gusto di voler coincidere con gli altri”.
Bisogna maturare il coraggio di pensare a noi se stessi separandoci dalle categorie dualistiche e dicotomiche quali quelle del bene e del male o del giusto e dello sbagliato: è fondamentale aprire la mente a idee nuove, imparare a gestire la paura che il diverso provoca in noi.
Un buon piano di partenza può coincidere con l’impegnarsi ad osservare, consapevoli però che esistono modi diversi di osservare: c’è l’osservazione con giudizio e quella senza il giudizio.
Nel tentativo di registrare eventi, cose e persone che agiscono intorno a noi non è facile operare una separazione dalla propria personale scala di valori, dalle nostre convinzioni e regole mentali, ma soprattutto dal nostro modo di interpretare la vita.
Tutto ciò non ha necessariamente un’accezione negativa, ma dobbiamo renderci capaci di fare un passo avanti perché se il fine ultimo della nostra osservazione resta solo l’espressione di un giudizio, di una critica o condanna, renderemo il nostro apprendimento limitato e molto probabilmente finiremo col danneggiare gli altri, i nostri rapporti passati e futuri, quindi noi stessi.
Se osserviamo per avere poi la mera possibilità di giudicare perderemo la parte migliore della realtà e della vera essenza delle cose.
Viceversa se ci impegneremo ad osservare con attenzione per il puro piacere di scoprire, di apprendere, sarà allora che si amplierà il nostro universo. Ci troveremo piacevolmente coinvolti in un processo virtuoso ed arricchente che spalanca le porte al nuovo e scocca la freccia della conoscenza verso orizzonti nuovi e prima inimmaginabili.
Allora, cari lettori, non è meglio lasciare i giudizi alle persone che preferiscono limitare se stesse ed aprire le nostre braccia e le nostre menti?

Notazioni Bibliografiche:
– “Al di là del bene e del male: Preludio di una filosofia dell’avvenire”, F. Nietzsche;
• “L’arte di ignorare il giudizio degli altri”, A. Shopenhauer;
• “La regolazione degli affetti e la riparazione del sé”, A. N. Schore