Se un muro non divide


Berlino Est, 9 novembre 1989. I vertici Politburo della Repubblica Democratica Tedesca, dopo le dimissioni del leader DDR, Erich Honecker, preoccupati di frenare minacciosi venti di protesta provenienti da una popolazione stanca del bavaglio comunista, così come di una situazione economica e sociale di imbarazzante immobilità, indicono una conferenza stampa finalizzata a calmare le acque tramite la promessa di una maggiore attenzione ai bisogni espressi e ad un avvicinamento alle posizioni dell’occidente. Pochi giorni prima, la città di Lipsia è stata, a tale riguardo, lo scenario di una manifestazione pacifica sì ma, per la prima volta dopo la divisione della Germania, quasi plebiscitaria, con la partecipazione di circa 250.000 anime, portavoci dello scontento di massa. Pertanto, si rende necessario far rientrare tutti nei ranghi e gettare tanta acqua su tali pericolose fiammelle.
Günter Schabowski è il funzionario incaricato di far da portavoce ma, sin da subito, non appare particolarmente in forma e pronto. Forse è già stanco per il super lavoro, forse non è la persona più adatta per ricoprire il ruolo di “front man”. Fatto sta che non riesce a mantenere la necessaria razionalità davanti al fuoco di fila delle domande di quattro giornalisti in modo particolare: Riccardo Ehrman, dell’Ansa, Peter Brinkmann, del quotidiano tedesco Bild, Krzysztof Janowski, rifugiato politico di nazionalità polacca in forza a un network americano e, presumibilmente (ancora oggi non si è certi al cento per cento dell’identità del quarto individuo) di un ventenne di nome Ralph T. Niemeyer. Messo alle strette da serrati e diretti quesiti cui non sa dare una ponderata risposta, pronuncia un biascicato “si” in risposta all’incalzare di Janowski e lascia intendere che sin da subito sarà possibile, per i cittadini della Repubblica democratica, spostarsi con facilità e senza condizionamenti. L’impeto popolare, già da tempo pronto ad esplodere, si concretizzerà, di lì a qualche ora, nella caduta del muro di Berlino, sigillo alla serie di eventi.
La mediatica distruzione, masso per masso, della cinta edificata nel 1961 è rimasta il simbolo dell’inevitabilità del corso della storia ed è parsa la conseguenza naturale di scelte e decisioni prese a tavolino, peggiorate, se possibile, negli anni e infine spazzate via dalle esigenze dei tempi e dal crollo di un sistema quanto meno (adoperiamo un eufemismo) anacronistico.
In particolar modo da quell’ormai lontano novembre di fine anni ‘80, il muro è divenuto simbolo e sinonimo esclusivamente di divisione e chiusura, di ignoranza e mancanza di vedute,di immobilismo e razzismo, di piccolezza intellettuale e sterilità d’animo. Non abbiamo bisogno di muri e di mura nel mondo globalizzato e, quindi, abbattiamo i pochi rimasti e abbandoniamo l’intento di costruirne altri o altre, spinti a fonderci sino a perdere l’identità.
A Berlino un chilometrico muro divideva e condizionava, costringeva e legava, opprimeva e, con la sua assurda presenza, dimostrava la cecità di taluni assunti politici, a Belfast, le Peace lines, separano la parte cattolica della città da quella di religione protestante, al confine tra California e Messico, tra Tijuana e San Diego, un muro spinato si erge, comunque debole baluardo, nel tentativo di fronteggiare il fenomeno dell’immigrazione clandestina, Ceuta e Melilla, spagnole in terra d’Africa, continuano restare in isolamento dietro le loro barriere, a dimostrare l’insuccesso della diplomazia e della politica che si serve della soluzione più rapida, del cemento e del ferro lì dove sarebbe più opportuno e lecito lavorare con le parole, l’esperienza, il buon senso e la pazienza.
Per questo, il concetto di muro ha acquisito, nel tempo connotazioni tanto negative e oscure.
In realtà, in passato, quasi mai si è reso necessario abbattere una cinta muraria per affermare la propria dignità di popolo e legittimare l’identità di nazione, diritti alimentati proprio dalla individualità e dalla diversità rispetto a chi, dal confine ben delimitato e appartenente ad un gruppo agevolmente individuabile, era escluso ma solo perché facente parte di un gruppo altro, anch’esso precisamente delineato.
Tracciare una linea di separazione era, un tempo, il primo passo verso la formazione di un villaggio, di un agglomerato e poi di una città. Oltre ad assicurare la dovuta difesa dagli assalti di etnie ostili, il muro, solo in un secondo tempo trasformatosi in mura, conferiva un’ identità e caratteristiche sociali e culturali, contribuendo a preservare quelle storiche e non era di certo inteso come ostacolo o freno allo sviluppo economico o alle relazioni commerciali con altri popoli e paesi.
La Grande Muraglia cinese, la cui costruzione è iniziata nel IX sec. a. C. ed è proseguita per oltre duemila anni, eretta, rispettando il territorio e le sue caratteristiche, non per velleità isolazioniste, ma come baluardo contro i popoli delle steppe, rappresenta, già da tempi lontani, lo spirito del popolo cinese e del suo ingegno e, nei suoi quasi novemila Km di lunghezza abbraccia e protegge il paese senza dare il minimo senso di divisione.
Ad Atene, le così chiamate “Lunghe mura” concepite da Pericle e realizzate da Temistocle nel V sec. a. C., collegavano la parte interna della pòlis al porto del Pireo e furono costruite proprio per conferire alla città maggiore spinta verso il mare, raggiungibile così anche in caso di assedio e inesauribile risorsa economica, oltre che collegamento con l’esterno.
Roma è nata dal pomerium, il solco sacro che rappresentava il confine della città (l’etimo del termine è da far risalire a post – moerium, al di là del muro, per chi osservava l’Urbem dal di fuori, oppure a promoerium, davanti al muro, ovvero tra le mura e il solco) ed è divenuta imperium grazie ai suoi castra e limes, alle numerose porte che nei secoli l’hanno conservata, sostenute dalle mura di Romolo, da quelle serviane, aureliane, leonine, vaticane e gianicolensi.
Si può forse anche soltanto tentare di concepire che Bruges, Costantinopoli, Carcassonne, Gerusalemme, Firenze, Lucca, Milano, Napoli, Norimberga, San Marino, Toledo, Venezia ,York, solo per citare alcune tra le città e località dotate, in passato e in taluni casi ancora oggi, di spettacolari e solide mura, siano per questo volutamente rimaste ai margini della storia, isolate con la loro paura di aprirsi al mondo esterno? Che siano rimaste impermeabili ai mutamenti storici e di costume o che non siano state esse stesse vessillo di sapere e di civiltà?
Con l’industrializzazione galoppante, le città cominciarono a perdere le loro mura, non più in grado di essere curate e allargate, soprattutto in considerazione dell’aumento demografico e, inoltre, non più indispensabili ai fini difensivi, viste le innovative armi da guerra introdotte.
Una cosa, dunque, sono i muri “della vergogna” eretti a dimostrazione del fallimento di patti e negoziazioni, ben altra quei simboli e quegli strumenti di individuazione che conferiscono unicità e positiva diversità ad un luogo, quindi, ad una storia e alla storia di ognuno di noi.
E’ naturale, lo è sempre stato e lo è ancor di più in questi anni, preservare l’irripetibilità e le singolarità e non mancare di confrontarle con le altrui particolarità, affinchè non ci si ritrovi ai piedi di una Torre di Babele, precipitati e senza possibilità di attingere al patrimonio culturale, al bagaglio di usi e costumi, allo scrigno custode del passato, di ciascun popolo e di fruire dei traguardi raggiunti in secoli e secoli di storia. Non tutti i muri sono da abbattere.