Leopardi e i fenomeni elettrici


Nel manoscritto delle Dissertazioni, il giovane Giacomo Leopardi discute il tema del magnetismo, considerato una sorta di antecedente del tema dell’elettricità, per passare poi ad elencare le proprietà del cosiddetto fluido elettrico. All’epoca, infatti, l’elettricità era intesa come vera e propria sostanza chimica, un fluido appunto, che scorre nella materia e che, come scrive il giovane recanatese “viene dai Chimici annoverato fra di quelle trentatré sostanze semplici di cui tutto l’orbe terracqueo è composto”. Tra le varie proprietà di questo fluido, che Leopardi poi ci descrive, vi sarebbe la tendenza all’equilibrio, che porta appunto a trasmettersi da un corpo all’altro; la sua affinità con un altro fluido, il cosiddetto calorico, che si riteneva essere il principio latente, e presente in tutti i corpi, del calore; e infine per certe materie, i cosiddetti corpi non conduttori. Fin qui la definizione di questa strana essenza che è l’elettricità, la quale, spiegata in questi termini chimici, lascia ben poco spazio all’immaginazione poetica. Diverso è il caso dei temi svolti nella seconda parte della stessa dissertazione leopardiana, che è invece dedicata ad alcuni fenomeni atmosferici che la scienza dell’epoca riteneva provocati da questo misterioso “fluido elettrico”, su cui ci soffermeremo tra breve.
Diciamo intanto che – per quanto oggi ci possa apparire bizzarra la teoria secondo la quale l’elettricità, che noi siamo abituati a pensare come l’effetto di un moto di particelle cariche dell’atomo (protoni ed elettroni), sarebbe una sostanza chimica fluida – la spiegazione di Leopardi si inserisce perfettamente nel campo dell’indagine settecentesca quando, oltre ad indagare i rapporti tra fluido ed elettrico e magnetismo, si tentò di riprodurre questi fenomeni e di darne una spiegazione teorica generale. Già nel 1745, ad esempio, venne costruito il primo celebre condensatore, “la bottiglia di Leida”, destinato ad elettrizzare l’acqua, mentre nella seconda metà di quel secolo si compirono esperimenti sulla resistenza elettrica e sull’elettricità atmosferica.
Leopardi, come accennato, dedica la seconda parte delle sue Dissertazioni alla trattazione dei cinque fenomeni atmosferici che la scienza del tempo riteneva generati dal fluido elettrico, cioè il fulmine, la pioggia, la grandine, il tremuoto, la tromba. Spiega il fulmine come un fenomeno che si deve al passaggio di fluido elettrico tra una nuvola carica di questo fluido e la terra, meno carica, passaggio per la quale il fluido deve lasciare la luce con cui era combinato (e che noi vediamo come fulmine). Illustra il formarsi della pioggia e della grandine secondo lo stesso principio: quando il fluido elettrico si sposta, trascina con sé il calorico con cui è combinato, il vapore acqueo si raffredda e raffreddandosi genera sia la pioggia che, in alcuni casi, la grandine. E sempre secondo analogo principio, si spiegano anche i terremoti e le trombe d’aria: i terremoti nascerebbero dal fatto che, nelle viscere della terra, ad un certo punto, si trova un corpo conduttore isolato, sovraccarico di fluido elettrico che deve, come scrive Leopardi, “scagliarsi da questo in altri corpi che ne abbiano in minore quantità e per tal modo scuotere impetuosamente la terra e cagionare tutti quei lacrimevoli effetti che sogliono essere le funeste conseguenze del tremuoto” (tant’è che avanza poi la proposta di inserire dei parafulmini nel ventre della terra per evitare i terremoti, permettendo al fluido di scaricare la sua forza altrove). Analogamente il giovane di Recanati ci spiega poi la formazione delle trombe d’aria. Come già detto per i fulmini, quando il fluido elettrico si deve scaricare dal cielo alla terra si apre un varco nell’atmosfera. Ma, nel caso l’aria sia particolarmente umida, allora, nella sua discesa, il fluido elettrico non si limiterà ad aprirsi una strada stretta, come quella percorsa dal fulmine, ma trascinerà con sé una parte dei vapori che compongono la nuvola stessa. Da questa discesa di vapori, si originerà la tromba d’aria, dal momento che questa materia “dovrà necessariamente formare un cono, generato dalla pressione dell’aria esterna, la quale è in ragione inversa dell’altezza dell’atmosfera”. Ancora una volta possiamo constatare quanto l’apprendimento della materia non si limiti, come potrebbe sembrare a prima vista, allo studio di nozioni scientifiche utili per il superamento di tappe scolastiche, ma si trasformi, in uno stimolo vivace alla riflessione filosofica, da un lato, ed alla materia poetica dall’altro. Di questi fenomeni atmosferici, infatti, Giacomo Leopardi si occupa a più riprese anche in molte altre occasioni ed in modo del tutto singolare: si tratta di fenomeni che, per gli effetti appariscenti e le cause misteriose, hanno sempre affascinato ed impaurito l’essere umano.
Così il Leopardi dello Zibaldone, ad esempio, ne scopre il potenziale per la riflessione filosofica e, in data 18 novembre 1821, annota: “piace l’essere spettatore di cose vigorose……non solo relative agli uomini ma comunque. Ogni sensazione viva porta seco nell’uomo una vena di piacere, quantunque ella sia per se stessa dispiacevole o dolorosa”. Ricordando la sua adolescenza, il 25 settembre 1823, appunta: “mio timor panico d’ogni sorta di scoppi, non solo pericolosi; ma nell’adolescenza, quando io era ben in grado di riflettere e di ragionare……………non potè né la ragione né la riflessione liberarmi di quel timore irragionevolissimo, perch’esso m’era cagionato dalla natura”.
Lo studio delle ragioni scientifiche dei fenomeni naturali risultava dunque insufficiente per far tacere in Leopardi la voce irrazionale e fantastica, l’immagine terribile delle forze di una natura scatenata che occupa la mente dei bambini e dei poeti. Il Leopardi maturo, infine, su questo suo timore di adolescente costruirà passi di intensa riflessione, in cui è pur tuttavia possibile leggere reminiscenze delle spiegazioni scientifiche apprese in gioventù. Nello Zibaldone troviamo una riflessione di carattere politico, relativa al fatto che l’ardore e le passioni della gioventù non siano più tenuti in considerazione alcuna dai governanti, che ignorano queste qualità come fossero irrilevanti. Qui, per spiegare quale danno possa nascere dal mancato controllo di queste forze, Leopardi ricorre, nell’agosto del 1820, all’immagine fisica del fluido elettrico: “L’ardor giovanile, cosa naturalissima, universale, importantissima, una volta entrava grandemente nella considerazione degli uomini di stato. Questa materia vivissima e di sommo peso, ora non entra più nella bilancia dei politici e dei reggitori, ma è considerata come non esistente. E’ divenuta estranea alla macchina di stato e nociva, come un fuoco elettrico che non si può sopire né impedire che non iscoppi in temporali o in tremuoti”. Allo stesso modo torneranno alcuni pensieri dedicati a quei misteriosi ed accattivanti oggetti che sono i parafulmini. …certamente gli uomini che verranno di qua a mille anni, appena chiameranno civile la età presente, diranno che noi vivevamo in continui estremi timori e stenteranno a comprendere come si potesse menare e sopportare la vita, essendo di continuo esposti ai pericoli delle tempeste e dei fulmini”.
Dovremo, infine, almeno ricordare che nel saggio scritto da Leopardi per studiare Gli errori popolari degli antichi, due interi capitoli sono dedicati rispettivamente al tuono e al vento, con forti cenni ai terremoti. Anche la poesia e la prosa letteraria manterranno traccia di queste immagini che tanto spaventano i fanciulli.
Si è potuto notare come dalla fisica si è passati alla filosofia morale, proprio come dall’astronomia si era passati alla metafisica. E quello che era esercizio di calcolo è diventato l’immagine potentemente efficacie del Sole indignato contro la pigra Terra: appunto, la fisica si è fatta metafisica e poesia, in uno.