Cosa può imparare la sinistra italiana dalle piazze francesi?


La Francia è messa a ferro e fuoco dalle proteste, Re Carlo d’Inghilterra rinuncia addirittura ad una visita da lungo programmata. È preoccupante quanto bolle nel pentolone del malessere sociale? Le scene di violenza da parte della polizia e dei manifestanti fanno il giro del web e la situazione sembra sempre più fuori controllo. Eppure, non emerge qualche spunto utile alla riflessione? Ad un conservatore certo non piace troppo la protesta di piazza: ma la chiarezza in politica si. E sorge allora il caso dei partiti politici italiani, che formalmente si appellano ai valori tradizionali della sinistra, ma pare che operino al contrario di essi. Dove la sinistra fa o almeno prova ancora a fare la sinistra. Il caso più o meno solo italiano di una sinistra che è assai lontana dal giungere a conseguenze estreme come Oltralpe, anzi sembra essersi completamente venduta l’anima, alla faccia della classe lavoratrice.

Quanto segue accadrebbe mai Italia? Ci riferiamo a quanto basta andare in Francia per essere visto. Nei quartieri di Parigi, ma pure a Lione, a Rennes e in diverse altre città, compresa Bordeaux dove è stato dato alle fiamme dai manifestanti il grande portone di legno del Comune, la guerriglia si perpetua tra i black bloc e la polizia. La Francia dove esiste un movimento politico di sinistra e sinistra radicale, denominato La France insoumise (letteralmente “La Francia indomita”, abbreviata non solo LFI ma anche La FI, laddove è rappresentata ufficialmente con il simbolo della lettera greca phi (φ)) e lanciato il 10 febbraio 2016 per promuovere la candidatura di Jean-Luc Mélenchon alle elezioni presidenziali del 2017 e alle successive legislative, allo scopo di realizzare un programma progressista, il cui nome tuona come una sfida al fronte della conservazione: L’Avenir en Commun (“Il Futuro in Comune”).
L’occasione è un classico della tradizione barricadera e rivoluzionaria. La piazza preda di tumulti. Rabbia di manifestanti fra cariche di alleggerimento e lanci di lacrimogeni della polizia. Slogan scanditi, idranti, boatos sui media. Tutto ciò nelle scene che ci sono pervenute da Oltralpe. Che abbiamo osservato quasi increduli nel conoscerne la ragione: la riforma previdenziale. Qualcosa che per i nostri vicini di casa pare essere un dramma nazionale: un graduale innalzamento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni a partire dal prossimo settembre. «Noi non faremo la fine dell’Italia», recitava uno degli striscioni della manifestazione di martedì 8 marzo a Parigi contro una riforma che ricorda quelle italiane, che hanno scaricato il peso della sostenibilità dei conti pubblici sulle fasce medio-basse della popolazione. La Francia ha sotto gli occhi i fatti di casa nostra, gli abborracciamenti dei nostri politicanti. Le parole e i pochi fatti: al momento la riforma delle pensioni promessa durante la campagna elettorale non arriva. Quota 41 slitta ancora, resta solo quota 103? Ma no, ragazzi, nuovo stop per quota 41, il governo pensa a prorogare quota 103 e aspetta il 2024 per la riforma. Tutta roba del genere al tiggì della sera.
Allo stato, in effetti, sono davvero brutte notizie sul fronte della riforma delle pensioni. Un provvedimento da più parti ritenuto necessario per superare quella malefica legge Fornero, che con le sue ripercussioni sull’aumento dell’età, sugli esodati, sulle condizioni di vita reale dei lavoratori, ha determinato divorzio tra la sinistra italiana e quella che un tempo si chiamava la classe operaia.
Poi c’è il paradosso che le ipotesi di riforma previdenziale sono ultimamente giunte più che altro non da sinistra. Così nasce la frattura tra la sinistra e ceti popolari che non la votano più o nemmeno vanno più a votare. Non più i partiti della tradizione socialcomunista. Come si spiega tutto ciò?
Ci sono più fattori da considerare: le trasformazioni tecnologiche, la scomposizione della “mitica” classe operaia, il processo di individualizzazione della società, l’allentamento delle reti sociali. Ecco ciò che ha reso più fragile, intaccandolo profondamente, il vecchio rapporto tra la classe lavoratrice in tutte le sue forme e i partiti della sinistra storica. Le ultime elezioni rappresentano lo spaccato più fedele di questa realtà con la sconfitta più netta che la sinistra abbia mai subito.
Il governo guidato da Giorgia Meloni sta ora posticipando ogni decisione in merito. Che allegria? Attualmente, l’unica questione all’ordine del giorno è la proroga per un anno della Quota 103, che consente il pensionamento con 41 anni di contributi e 62 anni di età. Parliamo della pezza alla Legge Fornero, chiamata Quota 103, che è stata introdotta dal precedente governo Draghi e, secondo i giornali, il governo Meloni starebbe prendendo tempo per decidere se prorogarla o meno. Come sempre – per dirlo alla francese – c’est l’argent qui fait la guerre.
Che ci pensino con comodo, tanto da noi, per via di una sinistra liberal prona alla finanza, probabilmente non si scatenerebbe mai una reazione così esacerbata come in quel che fu il Paese dei Lumi (Pays des Lumières), dove oggi il governo accusa LFI di essere responsabile degli eccessi durante le manifestazioni.
In buona sostanza, mentre il primo ministro, Elisabeth Borne, punta il dito contro i “ribelli” di fomentare la rabbia, Jean-Luc Mélenchon ei suoi sostenitori si difendono dal “promuovere la violenza”, usando un vocabolario bellicoso. E si sviluppa tra le parti quella dialettica che si pone come confronto acceso, perché la distanza fra le stesse è enorme, nella misura in cui un “gioco fra le parti” non sussiste. Ed è financo una politica più chiara, condivisibile o meno in dipendenza dal punto di vista personale.
Qui c’è una sinistra che, di fronte a proprie ragioni di giustizia sociale, non molla innanzi agli strali della Borne, con Mélenchon non si arrende. Che sia demagogia o meno, mera difesa di tradizionali spazi o meno, il leader gauchista invita ad oltranza i cittadini ad “amplificare la lotta” scendendo in piazza, per “continuare” la battaglia contro la riforma delle pensioni del governo. In particolare, lo scorso lunedì, in seguito alla bocciatura all’Assemblea Nazionale delle mozioni di sfiducia presentate contro il governo per la riforma delle pensioni, che avrebbe potuto far cadere lo stesso, il capo indiscusso di LFI ha compiuto un nuovo passo, invocando la “censura popolare”, che da tempo è nucleo centrale del suo verbo. L’evocazione di una massiccia e capillare protesta popolare direttamente dai banchi dell’Assemblea nazionale? A confermarlo, la stessa sera, in tutta la Francia sono sorte molteplici manifestazioni spontanee. Sono stati appiccati innumerevoli incendi nella capitale, non soltanto cassonetti stracarichi di immondizia, ma anche panchine, motorini, pensiline, materiale da cantiere e i titolari della municipalità strillano impauriti. Sul fronte degli scioperi – mentre si prepara una nuova giornata di mobilitazione per la settimana prossima -, nettezza urbana ed energia sono sempre i settori in prima fila e i disagi sono enormi. Alle pompe di benzina la penuria ha cominciato a farsi sentire, anche se grazie a un intervento della polizia che ha sbloccato i rifornimenti dalla raffineria di Normandia – che serve Parigi – la situazione è migliorata. Gli straripamenti di rabbia a volte sono stati esagerati, incarnati da impressionanti immagini di bidoni della spazzatura bruciati girate sui canali di informazione. È salito fino a 457 persone fermate e 441 agenti feriti tra poliziotti e gendarmi il bilancio aggiornato a venerdì scorso dei disordini. La grandeur francese si è infilata così nel tunnel perverso di una settimana di guerra di strada, secondo i dati del ministero dell’Interno, più di un milione di persone sono scese in piazza giovedì in tutta la Francia, di cui 119mila solo a Parigi. Nonostante la donna a capo dell’esecutivo abbia denunciato “violenze, odio e brutalità”, si sono addirittura per due giorni fermati i controllori di volo a Parigi-Orly e Marsiglia, gettando il paese nella paralisi dei collegamenti nazionali ed internazionali. Grave il danno economico e di immagine, sul banco degli imputati ancora una volta di più Jean-Luc Mélenchon e i suoi sostenitori, accusati dal campo presidenziale di fomentare l’ira dei manifestanti. L’Eliseo ha annunciato che, visto il clima di tensione, dopo che le manifestazioni sono degenerate in scontri in tutto il Paese, la visita di re Carlo III è stata rinviata.
Così arringare la folla, mestiere dei vecchi comizianti: pare riesca bene agli esponenti del partito che si dichiara votato alla gente e specialmente agli ultimi. Anche quando sono le sue donne a parlare. E qui la contrapposizione politica sinistra-destra si declina al femminile. Il primo ministro Elisabeth Borne ha tacciato la leader dei deputati della LFI, Mathilde Panot, di una violenza verbale che si è riversata nelle strade. Le due non se le sono mandate a dire, martedì scorso, all’Assemblea nazionale. Per tutta risposta, la Panot ha infatti paragonato Emmanuel Macron a Caligola, sanguinario tiranno dell’antica Roma. C’è anche chi allude ad una “situazione quasi insurrezionale” e suggerisce di “non promulgare la legge e riavviare negoziati con i sindacati”, così potrebbero entrare pesantemente in gioco due sindacalisti, Mathieu Obry della Cgt e Yvan Fort di Force Ouvriere.
Ecco gli effetti dello slogan “Censura popolare”, che anima le parole di Jean-Luc Mélenchon, il quale arriva a chiedere una rivolta contro il Parlamento, contro un esecutivo che, a suo avviso, non rispetta i risultati delle urne e delle votazioni in Parlamento, non rispetta le istituzioni nazionali, e infine non rispetta la stessa democrazia.
Il dato politico, valido anche nel Belpaese, intanto è quello di un mondo cambiato, dove c’è più consapevolezza delle disuguaglianze e nessuna voglia di subire le conseguenze dei tagli alla spesa. I sindacati e i partiti della sinistra italiana potrebbero imparare dalla Francia e costruire una concreta piattaforma comune per imporre un’agenda di temi sociali?
Il pensiero va soprattutto al Pd il quale, dopo un clamoroso flop elettorale, ci propone una donna al suo vertice. Non basta, non basta che Elly Schlein invochi i diritti delle famiglie arcobaleno, la frontiera è ben altra e sta nelle periferie sociali. Vuol dire che il suo partito crede insensatamente ancora di raccogliere il voto ideale ma non sa percepire il disagio delle condizioni sociali. E speriamo che qualcosa cambi a sinistra, perché ciò serve anche affinché la parte conservatrice si metta davvero a fare il proprio mestiere.