Il “Primo Italiano”


È stato un nutrito stuolo di insigni studiosi, non certo chi scrive, a definirlo il primo vero italiano della storia.
Infatti, proprio allo scadere dell’Anno Mille era sembrato che, nel dialogo tra Papato ed Impero, dovesse inserirsi un terzo interlocutore, il Regno d’Italia. In verità, una sovranità così chiamata esisteva già, ma solo come assegnataria di un titolo, titolo che assumevano gli imperatori di Germania, quando andavano a Roma, per farsi consacrare, o delegavano persone di loro fiducia. Da Ottone I il Grande, essi avevano preso l’abitudine di fermarsi a Pavia, dove il Vescovo della città poneva loro sul capo quella stessa corona, che aveva cinto la testa di Teodorico e dei suoi successori longobardi. La “Corona Ferrea” era un pesante e rozzo monile, che si diceva essere stata costruita con la fusione dei chiodi della croce di Gesù. Ma di quali poteri fosse simbolo, non fu mai chiaro, anche perché variavano a seconda delle persone e delle circostanze. Del resto, solo quando un Imperatore era particolarmente autorevole, e scortato da un nutrito seguito in armi, i Signori della penisola accorrevano a rendergli omaggio. La cerimonia era solenne, questo sì, ma il tutto finiva lì. Ripartito per Roma o rientrato in Germania, della sua presenza non rimaneva traccia alcuna. Ogni Duca, Marchese o Conte restava il sovrano assoluto del proprio feudo. E le cose non cambiarono, nemmeno quando, negli ultimissimi anni del primo millennio, a Pavia si insediò stabilmente Adelaide di Borgogna, la vedova di Ottone, peraltro venerata come santa della Chiesa Cattolica. Essa esercitò sicuramente un forte ascendente morale sui feudatari italiani, ma per le sue indiscusse qualità di carattere, non certamente per il carisma politico istituzionale.
Quel Regno, dai confini del tutto incerti, che si snodavano dalle Alpi alla Ciociaria, non era nemmeno un’espressione geografica. Oltre quelle frontiere, nessuno lo riconosceva come tale. Non i Saraceni, ormai padroni della Sicilia, non i Bizantini che occupavano le Puglie e molte città delle coste calabresi e campane, non il vecchio Ducato longobardo di Benevento, che al Re d’Italia o Imperatore di Germania rendeva omaggio e faceva appello solamente quando aveva bisogno di aiuto, ma poi, passato il pericolo, riaffermava la propria completa autonomia. Gli stessi Stati della Chiesa, poi, avevano con il sovrano italico un rapporto, che non venne mai definito e che ognuna delle due parti interpretava a modo proprio. L’Imperatore considerava il Papa, al di là delle faccende spirituali, un semplice vassallo. Mentre il Pontefice considerava se stesso, un sovrano assoluto. Quanto alle masse popolari, esse non avevano voce in capitolo. E se ne avessero avuta, non l’avrebbero certo usata per articolare la parola “patria”. La patria, per quella gente, consisteva nel proprio villaggio, se non addirittura nel proprio casolare. Il loro monarca era il Conte o il Marchese, che esercitava il potere effettivo; in definitiva, la riscossione delle tasse, l’amministrazione della giustizia e, chi più ne ha più ne metta. Un barlume di concetto di patria si sviluppò molto più tardi, e non superava sicuramente, come avveniva nell’antica Grecia, le mura della città.
Gli Italiani dell’anno 1002 accolsero, quindi, con un certo stupore, la notizia che a Pavia era nato un Regno, con un Re tutto italiano, che non si identificava più con “despota” teutonico, né era da lui delegato. Del resto, in quel momento un regnante non c’era. Ottone III era morto, da un mese, senza eredi. E solo dopo alcune settimane, i grandi feudatari alemanni riuscirono a mettersi d’accordo sulla scelta di un successore. Alla fine, optarono per Enrico II, ultimo rampollo della dinastia di Sassonia.
Ma fecero i conti senza l’oste. In quel lasso di tempo, un signorotto piemontese si cinse la testa, senza chiedere il permesso a nessuno, con la ferrea corona di Re d’Italia e pretese darle un significato di indipendenza.
Quel “primo italiano”, come lo chiamò una folta schiera di storici, forse malati di irriducibile nazionalismo, era Arduino d’Ivrea. Era nato a Pombia, un comune del novarese, nel 955, da Dadone, Signore di quel marchesato, anche se, in fondo, di italiano non ne aveva il sangue. I due, padre e figlio, per la cronaca, sono sempre stati al centro di un secolare problema genealogico, un dilemma sfumato nel tempo e mai ufficialmente risolto. Arduino apparteneva ad una dinastia tedesca che, calata in Italia, forse con i longobardi o con i franchi, si era stabilita, da padrona, nel nord della penisola, vantando il diritto di conquista. Aveva ereditato dai suoi antenati guerrieri il coraggio, la rozzezza, la prepotenza e l’ambizione.
Nella lotta per il mantenimento, e l’estensione, dei suoi possedimenti, aveva dovuto vedersela con Pietro, Vescovo di Vercelli. Lo ammazzò, ne bruciò il corpo, ne distrusse la cattedrale e ne incamerò le terre che, al prelato, erano state donate da Adelaide. Ottone III, malato, ma ancora vivo a quel tempo, lo ammonì duramente ed il Papa, Silvestro II, al secolo Gerbert d’Aurillac, il primo di nazionalità francese ed il 139° della Chiesa Cattolica, lo minacciò di scomunica. Ma non si lasciò intimidire, né dall’uno né dall’altro. Spogliò di tutto anche il Presule di Ivrea e quando quello di Brescia si rifiutò di rendergli omaggio, lo prese per i capelli, lo sbatté a terra e lo riempì di calci. Erano i costumi e gli umori del tempo, anche nel mondo dei grandi signori.
Arduino non era affatto un patriota e non pensava minimamente all’Italia, quando si fece audacemente acclamare Re, da un’assemblea di feudatari piemontesi. Era un arrivista, che badava ad innalzare il proprio rango. Però non gli mancavano né l’audacia né l’accortezza. Per trovare proseliti, aizzò i piccoli vassalli contro i grandi latifondisti, il basso clero contro quello alto ed i sentimenti xenòfobi del popolino contro i tedeschi. In parte ci riuscì. Quella lotta su due fronti, contro la Chiesa da una parte e la nobiltà imperiale dall’altra, gli valse parecchie simpatie nel piccolo ceto medio, sia di città che di campagna.
Nel 1003, un anno dopo la sua elezione, batté un contingente germanico mandato da Enrico II a saggiare il terreno, e lo costrinse a ripassare le Alpi. Ma quando l’Imperatore calò di persona, alla testa di un forte esercito, Arduino si trovò da solo. Enrico venne a riprendersi la corona, a Pavia nel 1004. Però, una volta in città, le sue truppe furono assalite dalla popolazione e costrette a ritirarsi. Rientrarono, in forze, il giorno dopo, saccheggiarono, incendiarono ed uccisero.
Arduino, arroccatosi nel suo castello, sopra Ivrea, non rinunciò al suo titolo né alle sue pretese. Partito Enrico II, tornò a Pavia e seminò terrore, con le sue spedizioni punitive contro Vercelli, Novara e Como.
Solo la vecchiaia e gli acciacchi vennero a capo della sua ostinazione. Stanco e malato, l’ostinato mangiapreti bussò alla porta dell’abbazia di Fruttuaria (la prima pietra posta, nel 1003, su richiesta di Guglielmo da Volpiano, figura di rilievo per la Riforma Cluniacense), situata nell’attuale comune di San Benigno Canavese, a venti chilometri da Torino, che lo accolse caritatevolmente.
Morì sessantenne, nel 1015, dopo solo un mese di ritiro monastico, senza neanche lontanamente immaginare, quale mito avrebbe fatto di lui la storiografia nazionalista.