Il sacrificio di Isacco


Orazio Gentileschi (1563 – 1639) – Olio su tela – Genova, Galleria Nazionale della Liguria di Palazzo Spinola.

Questo dipinto faceva parte della quadreria genovese di Pietro Maria Gentile, ma fu forse eseguito da Gentileschi ad una data precedente al suo soggiorno nel capoluogo ligure (1621-24), secondo alcuni nel 1615.  Nell’800 il quadro passò a Palazzo Cattaneo Adorno di Strada Nuova e attualmente si trova nella collezione di Palazzo Spinola, al n° 1 di Piazza Pelliccceria.
Orazio Gentileschi fu un seguace di Caravaggio, da cui prese lo stile e l’abilità di giocare con la luce e l’ombra. Come si può notare al primo sguardo, il corpo di Abramo si staglia su un bosco oscuro ed è al tempo stesso avvolto da una calda luce, in un singolare equilibrio tra chiari e scuri. Nella ricerca della luce così come nella descrizione della scena, il dipinto manifesta l’ispirazione del Gentileschi alla celebre tela di Caravaggio con San Matteo e l’Angelo. Il Pesenti nell’analizzarne le componenti stilistiche vi ha riscontrato addirittura una “suggestione veneta, anzi tizianesca”.
La testa di Abramo, col cranio calvo e lucido, diventa fulcro di irradiazione luminosa, la barba un capolavoro di chiaroscuri. Colpisce anche lo sguardo estatico e intenso di questo vecchio che esprime efficacemente la pacata meditazione del santo, la travagliata ma serena rassegnazione del patriarca biblico a sacrificare a Dio anche il proprio figlio. La venerabile vecchiaia di Abramo si bilancia perfettamente con la fanciullezza dell’angelo, che con delicatezza gli trattiene il braccio, e di Isacco, con la testa china offerta al sacrificio, mentre la figura poco visibile di un capro sotto il ragazzo (per mancanza della pellicola pittorica deterioratasi nel tempo) allude al sacrificio del medesimo dopo l’intervento divino che salva il figlio del patriarca biblico. Il pittore non mancava però di senso pratico: il braccio di Abramo, giovane e muscoloso, contrasta con le rughe del collo, il volto appassito: Gentileschi si servì evidentemente di un modello giovane per il corpo di Abramo per fissare il gesto con cui si protende a recidere la giugulare del figlio.
La precisa e accuratissima scelta delle cromie e il magistrale impiego della luce, tipici della lezione di Michelangelo Merisi, danno all’opera un valore ancor maggiore di quello che le si può attribuire a prima vista.
Così come a prima vista parrebbe che il dialogo tra l’angelo e Abramo sia ottico e fisico, non verbale. La bocca dell’angelo pare chiusa mentre quella del padre di Isacco è nascosta dalla barba.
Ci viene in aiuto, fortunatamente, una critica ritrovata tra gli appunti di Storia dell’Arte del figlio del mi’ cognato Oreste, il quale – contrariamente a quel brodo del padre – è stato uno degli scolari più diligenti ai tempi della scuola. I suoi appunti ci raccontano l’esegesi che dell’opera ha dettato il suo professore (ahimè, rimasto ignoto), il quale sosteneva che tra i due personaggi il dialogo ci fu eccome. Secondo il dotto studioso, infatti, l’angelo ferma con mossa repentina il braccio armato di coltello mentre grida al vecchio padre: «Abra’ ma che cazzo fai? Dio ha detto “Ammazza tuo figlio Isacco, quant’è cresciuto!” Ogni tanto fallo fini’ de parla’, li mortaci tua!»