Il “Far West”, non solo un’epopea (1a parte)


Il lontano West ha rappresentato, sicuramente, per grandi e piccoli di generazioni un poco più “datate”, complice una cinematografia molto produttiva, la possibilità di potersi calare, anima e corpo, in realtà avventurose, eccitanti, al di fuori di ogni riflessione, dove buoni e cattivi, cow-boys e pellirossa, sceriffi e malfattori, si combattevano, senza risparmio di energie, lasciando libere le volontà di parteggiare per gli uni o per gli altri. Ma quel mondo così fantastico, così astrattamente affascinante, ha sofferto, lungo tutto il suo percorso storico, realtà tremende, crude, in una continua ricerca di sopravvivenza.
Partendo da un’epoca, relativamente recente, va detto che il trattato, negoziato nella città di Washington, il 9 agosto 1842, tra il Segretario di Stato americano Daniel Webster e il diplomatico britannico Lord Ashburton, e che prese il nome dai due firmatari, risolse pacificamente diversi problemi di vecchia data, ma lasciò insoluto, nella controversia anglo-americana, il punto che riguardava il confine settentrionale, rimasto congelato dal precedente patto del 1818. Entrambi i paesi reclamavano, come proprio, tutto l’Oregon, il quale comprendeva, all’epoca, anche i territori dell’attuale Stato di Washington, dell’Idaho, una parte del Montana e la Columbia Britannica. Con quel trattato, le due parti convennero di occuparlo congiuntamente, attendendo una risoluzione della questione sulla sovranità. Robert Stewart Castlereagh, Ministro per gli Affari Esteri del Commonwealth e dello sviluppo del Regno Unito, e successivamente il Premier inglese George Canning, rifiutarono le ripetute proposte di John Quincy Adams (divenuto poi 6° Presidente USA), di dividere, cioè, l’Oregon, seguendo il 49° parallelo. Con un secondo accordo trilaterale, firmato l’anno seguente in Florida, venne sancita l’acquisizione, da parte degli Stati Uniti, di tutti gli ex possedimenti spagnoli, a nord del 42° parallelo, e l’impegno della Russia, nei confronti dell’Inghilterra, di ritirare, in Alaska, i propri confini, fino al 14° di latitudine nord.
Tutto sembrava, almeno apparentemente, garantire una situazione di tranquillità. Ma le pretese della Hudson’s Bay Company (HBC), la corporazione commerciale più antica del Canada, nonché una delle più antiche del mondo, fondata nel 1670 e tutt’oggi ancora in attività, e dei sempre più numerosi pionieri americani, diedero in via ad una nuova violenta controversia tra Regno Unito e Stati Uniti. Aprendo una piccola parentesi sulle remote origini della società, va evidenziata la scherzosa interpretazione, che fin dall’inizio si diedero, della sigla “HBC”, come “Here Before Christ”, “Qui da prima di Cristo”. Tornando ai fatti, da quando, nel 1806, Meriwether Lewis e William Clark erano rientrati dalla loro spedizione esplorativa, la prima nella storia, per individuare una via transcontinentale fino all’Oceano Pacifico, il governo americano non aveva mai avuto un particolare interesse per il Far West. Le cose cambiarono nel momento in cui una nuova esplorazione, condotta dal Maggiore Stephen Harriman Long, un ingegnere militare, dimostrò che le grandi pianure erano “quasi completamente inadatte alla coltivazione”. L’ufficiale, tra l’altro, tracciò sulla carta topografica di quella regione, che oggi provvede con larghezza ai bisogni di una prospera popolazione di parecchi milioni di abitanti, la didascalia “Grande Deserto Americano”. Nel 1821, la Canadian North-West Company, che aveva acquistato l’emporio commerciale di Astoria, sul Columbia River, venne assorbita dalla Hudson’s Bay e, tre anni dopo, quest’ultima, costruì Fort Vancouver, quartier generale del consorzio, nonché avamposto britannico, sulla sponda settentrionale del fiume, che delimitava a nord i confini dell’Oregon. Il Forte divenne un emporio di pellicce, salmone, legname, un punto di ritrovo per cacciatori, sia bianchi che indiani, ed il centro di una piccola colonia agricola. L’agente John McLoughlin, governava la comunità con saggezza ed umanità, manteneva la pace tra bianchi e parte dei nativi, pretendendo che fossero rispettati i criteri civili della vita sociale ed accogliendo i missionari, con gentilezza ed ospitalità, cose che non estendeva però ai commercianti americani rivali. Incominciarono a concretizzarsi i presupposti per quella che fu la cosiddetta “febbre dell’Oregon”.
La lontananza, gli indiani e la poca informazione, erano gli ostacoli principali, che impedivano ai pionieri di andarsi a stabilire laggiù. Nel 1830, dopo due secoli di colonizzazione, la frontiera stabile degli Stati Uniti arrivava ad appena la metà dell’attuale continente. Il punto più lontano dall’Oceano Atlantico era Independence, nel Missouri. Da lì, la striscia di confine piegava verso Est, a circa duemila e cinquecento chilometri, in linea d’aria, dalla costa del Pacifico, mentre quella pattuita, nel 1830, tra Andrew Jackson, 7° Presidente, e gli indiani, passava, attraversando Independence da Nord a Sud, vicino all’odierna Kansas City. I pellerossa abitavano la zona, dove le praterie salivano verso le grandi pianure, che occupavano una zona altrettanto vasta, quanto quella della Russia europea. La loro superficie piana, o appena mossa, che si elevava gradualmente, con scarpate che formavano terrazzamenti, da un’altezza di seicento a circa duemila metri, era ricoperta, ad Est, da un tappeto di erba abbondante e spessa. Negli altopiani, arsi dal sole, l’erba cedeva il posto a ciuffi di quella, che veniva chiamata “bison grass” (erba del bisonte), molto corta, oppure a cespugli, detti “sage-brush” (pennello di salvia). Di tanto in tanto, una roccia a forma di cupola o una lunga catena di massi, formavano delle gradite interruzioni a quella piatta distesa. I fiumi Platte e Missouri, con i loro affluenti dal breve corso, scavavano profondi solchi nel terreno e permettevano la crescita di magre file di salici, pioppi e pruni selvatici. Ai lunghi inverni, caratterizzati da fortissime raffiche di vento, provenienti da Nord-Ovest, e da abbondanti nevicate, seguivano brevi estati dal clima torrido, intervallate da impetuosi temporali e frequenti cicloni. In tutta la zona, girovagavano le tribù indiane dei Kansa, Pawnee, Sioux, Cheyenne, Black-Foot, Crow e Arapao. Innumerevoli mandrie di bisonti pascolavano nelle lande e fornivano ai nativi tutto ciò che occorreva loro per vivere. Carne per il consumo immediato, oppure essiccata ed insaccata per la sussistenza invernale, pelli per indumenti, per scudi, per finimenti, per recipienti, per la copertura delle “tipis” (classiche tende) o da vendere ai mercanti; e ancora, i tendini come filo, cordaggio per archi e le ossa, per le punte delle frecce e la costruzione di utensili. Gli indiani avevano da tempo addomesticato i cavalli selvaggi delle praterie, discendenti da quelli abbandonati dai “conquistadores” spagnoli, ed erano abilissimi nell’arte di uccidere i bisonti con gli archi e le lance, montando a pelo, senza sella. Quelli delle pianure, si occupavano raramente di agricoltura e sapevano poco o nulla, sull’arte vasaia, cestaia o tessile. Erano abilissimi guerrieri, non temevano la morte e, con l’arrivo delle armi da fuoco, che gli yankees usavano come merce di scambio, divennero abilissimi anche nel maneggiare i fucili. Diversamente dai consanguinei dell’est, che avevano ceduto alla dominazione dell’uomo bianco, integrandosi con lui. Politicamente, non erano assolutamente evoluti. Le tribù guerreggiavano tra loro e non avevano lingue, interessi né progetti comuni. L’unico mezzo di comunicazione, quando la comunicazione esisteva, era un linguaggio a segni, molto sviluppato. I loro erano villaggi, sempre in movimento, erano costituiti da circa duecento anime, solitamente accampati nelle vicinanze di corsi d’acqua. Durante gli spostamenti, che potevano durare anche mesi, le donne ed i bambini conducevano cani e cavalli da soma, con le slitte cariche, mentre gli uomini, superbamente vestiti, cavalcavano allegramente in testa, su instancabili destrieri. Vivevano alla giornata, non riconoscevano diritti di proprietà, rubavano ed uccidevano per questo. Erano, effettivamente, di spietata crudeltà e sopportavano la tortura senza batter ciglio.
I soli uomini bianchi, penetrati in quella regione prima del 1830, furono esploratori, mercanti di pellicce e cacciatori. Appena Lewis e Clark raccontarono, che nel cuore del continente pascolavano, allo stato brado, mandrie sconfinate di animali da pelliccia, spuntarono, come funghi, compagnie “commerciali”, intenzionate a dare loro la caccia. Vennero reclutate bande di “engangés”, specializzate nel costruire trappole da disseminare lungo le vallate, ai piedi delle Montagne Rocciose o sulle Black Hills. Quegli uomini facevano ritorno, una volta all’anno, all’accampamento sul Platte superiore o suo Missouri, per consegnare le pellicce e godersi una settimana di vita allegra, con il denaro guadagnato.