Chitarra Classica – Intervista al M° Oscar Ghiglia


Il M° Oscar Ghiglia – (1938) ¬¬¬- rappresenta uno dei massimi esponenti della scuola chitarristica italiana – Il prestigioso New Grove Dictionary of Music and Musicians dice di lui: “Musicista raffinato e attento con una tecnica formidabile.” È anche riconosciuto come uno dei più eminenti insegnanti della sua generazione.

Dopo essersi diplomato brillantemente presso il Conservatorio di Roma “Santa Cecilia” nel 1962, sotto la guida del M° Benedetto Di Ponio, proseguì i propri studi con il grande Maestro andaluso Andrès Segovia tra gli anni 1958/1963 presso l’Accademia Chigiana di Siena e a Santiago de Compostela; inoltre, arricchì la sua formazione studiando musicologia con il M° Jacques Chailley.

Tra il 1961 e il 1963 ha vinto diversi premi internazionali, a Orense, a Santiago de Compostela e a Parigi.

Segovia nel 1964 lo scelse come suo assistente ai corsi estivi che teneva a Berkeley, in California.

Nel 1976 ebbe la docenza presso l’Accademia Chigiana succedendo proprio al suo maestro spagnolo.

Tra i “Chigianisti storici “e tutti vincitori a Gargnano, ricordiamo Elena Càsoli, docente all’Universita di Berna; Eliot Fisk, al Mozarteum di Salisburgo; Stefano Grondona al Conservatorio di Vicenza, Shinichi Fukuda concertista e professore in Giappone e in altre parti dell’Oriente, Hubert Kappel, a Stoccarda; Elena Papandreou, all’Università della Macedonia a Salonicco.

Inoltre, Oscar Ghiglia ha fondato il Reparto di Chitarra al Festival di Musica di Aspen (Colorado, USA) attualmente diretto dall’ allieva di quegli anni Sharon Isbin, così come il Festival de Musique des Arcs e “Incontri Chitarristici di Gargnano” (1973) a cui fu annesso nel 1976 il Concorso internazionale tuttora in essere.

Tra i più illustri allievi avuti nel mondo, ama ricordare Eliot Fisk, Marcin Dylla, Shin-Ichi Fukuda, Stefano Grondona, Letizia Guerra, Sharon Isbin e Elena Papandreou (ora sua sposa).

Marco Cappelli, Nando Di Modugno, Massimo Felici e Maurizio Grandinetti, che sono stati a loro volta allievi a Basilea.

Oscar Ghiglia è considerato idealmente il continuatore della scuola chitarristica di Andrés Segovia presso l’Accademia Musicale Chigiana, il luogo ove, a giudizio di molti, l’insegnamento della musica tocca l’apice della qualità.

Della sua attività concertistica in giro per il mondo e dei riconoscimenti ricevuti non basterebbero poche pagine, per cui invito gli amici lettori ad approfondire le ricerche in rete.

Prima di avviare l’intervista, mi è doveroso ringraziare il M° Antonio Grande che ha reso possibile quello che era un mio sogno


W.M.: Grazie Maestro Ghiglia per il tempo che vorrà dedicare a questa mia intervista per il settimanale online “WeeklyMagazine”.

Diversamente dal solito, anziché porLe domande sulla Sua formazione e sulla Sua carriera, che ormai un vasto pubblico già conosce, avrei piacere che ci raccontasse a ruota libera, qualche episodio di vita vissuta che ha particolarmente influito sulla Sua crescita artistico-musicale, insomma qualcosa che ci rendesse partecipi del Suo mondo interiore, al di fuori dei consueti, schematici protocolli di un’intervista.

O.G.: Un episodio chiave del mio lontano passato, ma ancora aperto ad ulteriori sviluppi, avvenne nei giorni in cui gli astronauti americani atterrarono sulla superficie lunare, e fu per me l’inizio di un nuovo orientamento psicologico, mai contraddetto da alcuna evidenza contraria, tra una lunga tournée nel paese del Sol Levante e l’inizio di un importantissimo periodo professionale negli Stati Uniti d’America.

Mi trovavo a Tokyo, alla fine di una lunga serie di concerti, accompagnata da un periodo di insegnamento, nel quale, assieme a un gruppo di numerosi giovani allievi, condivisi il lussuoso comfort della Yamaha Hall e del Takanawa Prince Hotel.

Tra le lunghe ore di lezioni pomeridiane, nella Yamaha Hall al centro della città, le interviste con gli inviati dell’ NHK TV o dei periodici dedicati alla musica per chitarra, molti, tra gli iscritti al mio masterclass e tutti residenti nello stesso hotel, non esitavano di fronte alla scelta tra la possibilità di lasciarmi in pace nelle mie poche ore libere e l’opportunità di ottenere risposte alle loro numerose domande e incertezze, causate dal contrasto tra la relativa novità di ciò che stavano assorbendo dalle mie idee sul modo di interpretare la musica occidentale e la loro educazione musicale, fondata sul punto d’incontro di due culture differenti e spesso diametralmente opposte.

L’eterna differenza tra Oriente e Occidente si profilava di fronte ai neofiti di uno strumento a corda, diverso dai loro tradizionali Koto, Shamisen, Pipa… le cui antichissime, forse comuni, origini avevano mantenuto un corso e uno scopo espressivo lungi da quello seguito dalla musica europea.

Nei giorni della prima conquista del vicino spazio astrale, la chitarra classica era, per molti giapponesi, ancora una novità, ispirata dall’ascolto dei numerosissimi dischi alla loro portata, nonché dai pochi pionieristici viaggi di studio di valorosi giovani nipponici verso le capitali come Roma, New York, Parigi o, maggiormente, nei centri musicali di Siena e Santiago di Compostella dove fiorivano istituti didattici di notevolissima importanza.

I pochi beneficiari orientali, di ritorno da queste istituzioni nelle quali il grande nome di Segovia rappresentava la più brillante stella del firmamento artistico mondiale relativo alla chitarra, trovarono un terreno più che fertile nei loro paesi d’origine, dove, assieme alle conquiste della scienza, la scoperta delle arti, e la musica in particolare, avevano aperto un nuovo orizzonte ai giovani nipponici, eredi di un mondo che lasciavano volentieri alle spalle, mirando ad eccellere nelle discipline improvvisamente apertesi di fronte a loro.

Questo strumento, pur vicino a quelli che arricchivano il loro palcoscenico artistico, ma che per loro era ormai il “Passato” ebbe presto ragione delle sue antiche eredità, conquistando le energie creative di un crescente numero di giovani, aspiranti alla gloria esistenziale offerta loro dal “Presente”, dove la chitarra fu la “novità”, sebbene questo affascinante strumento cadesse in mano a chi aveva a disposizione molti vantaggi naturali, ma anche alcuni, tradizionali svantaggi, riguardo alla sua reale conquista artistica.

Per questo popolo, allora emergente in quasi tutte le discipline, io, giovane concertista il cui nome primeggiava tra gli Allievi di Segovia, ero uno dei pochissimi eredi diretti del maggior profeta vivente del loro “nuovo strumento” e, per di più provenivo da un paese che si era fatto il più grande onore nei principali capitoli della Storia dell’Arte e della Musica in particolare.

Senza dubbio, ero da essi considerato quasi una “Bocca della Verità” alla quale riferirsi, durante l’intera sua presenza fisica nel loro paese.

Era quindi normale che, durante i miei ultimi giorni nel Takanawa Prince Hotel (tra una breve passeggiata sulla stradina di ghiaia bianchissima, bordata da rigagnoli, dove carpe multicolori si lasciavano accarezzare, rispondendo con dolci torsioni del corpo… nel suo bellissimo parco, e un breve tentativo di mettermi al lavoro, per ripassare i tre programmi che mi ero impegnato a eseguire alla Stanford University di San Francisco, appena due giorni dopo la mia partenza da Tokyo), i miei allievi della Yamaha Hall, e miei vicini nello splendido albergo, si affrettassero ad utilizzare al massimo il tempo a loro disposizione per soddisfare le richieste di utili informazioni sul modo di studiare e portare avanti gli intenti costruttivi per la conquista del nuovo ideale artistico!

Ed era dunque inevitabile che una giornata di pur duro lavoro, cercando di assecondare la loro eccezionale tendenza ad assimilare nuove discipline, in cui il controllo dei movimenti tipico del Tai Chi, del Ju Do maturati nel loro essere, magistralmente trasferito nella tecnica strumentale chitarristica, si accompagnasse al desiderio di sviluppare in loro la capacità di dare ad ogni nota un colore espressivo che agisse per descrivere il corso emotivo delle musiche eseguite volgesse fino a sera senza che uno o più d’uno di essi richiamasse la mia attenzione, per ulteriori suggerimenti, suonando il campanello della suite del Takanawa, mentre cercavo di rivedere qualche punto dei programmi da eseguire in California immediatamente dopo l’impegno col Giappone.

Ma il peggio mi aspettava al varco!

Finito il masterclass mi incamminai verso l’avventura forse più significativa di tutta la mia vita professionale.

Dopo le preziose ore di auto perdute nel raggiungere il lontanissimo Haneda airport, destinato ai voli intercontinentali, appena raggiunto il cancello dell’American Airlines, ebbi la triste notizia che il mio volo per San Francisco era stato annullato ed ero stato trasferito in quello del giorno successivo!

Non essendo previsti altri voli per gli Stati Uniti fui obbligato a tornare a Tokyo.

Ancora non esisteva l’Internet, né il telefono cellulare, per poter informare i viaggiatori sui ritardi o gli annullamenti operati dalle linee aeree, che non sempre richiedevano il recapito di coloro che si servivano di esse, per cui, anche se avessero voluto farlo non c’era alcun modo di avvisarmi del cambiamento di data del mio volo.

Nell’autobus che mi fu offerto per raggiungere il piccolo hotel della capitale, in attesa del ritorno all’aeroporto, allora incapace di ospitare viaggiatori nelle sue vicinanze, mi trovai di fronte all’immagine delle peggiori e più catastrofiche immaginabili conseguenze che quest’imprevisto avrebbe potuto causare…

I due giorni interi, oltre il giorno e la notte di viaggio verso San Francisco erano scomparsi e non mi restava più che un solo giorno oltre i due giorni e due notti tra Tokyo, Haneda, Tokyo e l’arrivo previsto per la California.

In quel ritorno a Tokyo, la giornata del sabato 19 luglio del 1969 che avrebbe potuto essere preziosa per riparare alla mancanza di studio imposta dalle due settimane di masterclasses, volgeva già alla fine…

W.M.: Quello che Lei sta raccontando, riguarda la solitudine di ogni concertista, assillato dal bisogno (sempre minacciato da ogni sorta di imprevisto) di rispettare i programmi di studio, di raggiungere gradualmente la concentrazione necessaria e finalizzarla all’ora X del concerto, di tenere a bada l’ansia da prestazione e il timore del giudizio negativo, soprattutto di alcune categorie di spettatori: colleghi, impresari e critici.

O.G.: La prima orrenda immagine di ciò che mi attendeva fu quella di un “vergognoso fallimento della mia carriera di concertista”.

Niente di peggiore poteva venirmi incontro!

Nella posizione in cui mi trovavo: su e giù per le strade giapponesi… invece di utilizzare ogni ora che mi separava dal primo dei tre concerti in California, nel modo migliore, ossia concentrandomi sullo studio dei programmi da eseguire o riposando la mente e le dita tra un momento e l’altro.

La realtà era che più di un terzo di queste ore sarebbe stato impiegato solo per raggiungere il Campus dell’Università di Stanford, e che mi sarebbe rimasto a disposizione pochissimo tempo per resuscitare le tre ore di musica, lasciate nel dimenticatoio per le due intere settimane che, viste retrospettivamente, furono impiegate insegnando, tra l’ultima lezione impartita nella Yamaha Hall e gli applausi del pubblico del mio concerto di chiusura della tournée compiuta tra l’oceano Indiano e il Mar giallo!

Quei battimani, quasi mai ispirati da un entusiasmo provato per la musica occidentale che porgevo loro, ma più dal suo aspetto tecnico, mi avevano incitato a compiere ogni sforzo verso la possibilità di indurre i giovani allievi a tradurre i loro stimoli apparentemente volti a dimostrare un’eccezionale capacità tecnica più che all’espressione dei sentimenti inerenti al significato della musica europea, nata essenzialmente allo scopo di descrivere in un linguaggio emotivo diretto quell’aspetto dell’eredità storica occidentale che alla lingua parlata non sarebbe mai stato possibile di esprimere da sola…

Storia diversa = musica diversa. E la storia dell’oriente era stata ben diversa dalla nostra.

Ma, in fondo, ogni storia racconta le stesse emozioni umane… e queste potevano passare i confini etnici liberamente e con successo, come si è visto successivamente dal successo di strumentisti e direttori d’orchestra orientali, perfettamente in linea collo spirito di Bach, Beethoven, Verdi o Puccini!

Ma l’abilità digitale ancora non si trasmetteva alla variabilità espressiva dello spirito, visibile nell’espressione del viso oltre che imposta dalla forza del suono prodotto dallo strumento musicale.

Immediatamente dopo l’ultima uscita dal palcoscenico era iniziato il mio lungo “tour de force” didattico, ascoltando il frutto del loro talento e condividendo i miei “segreti” con la folla di giovanissimi giapponesi, eredi delle grandi qualità dei Samurai… Capaci di atti al limite della comprensione umana e tuttavia per me ancora inaccettabilmente incapaci di reagire col cuore ai valori musicali della nostra musica, anche se dovevo ammettere che poco o niente essa aveva in comune con quella da essi tradizionalmente praticata.

Preso com’ero da questo dilemma etnico-estetico, durante tutta la permanenza al Takanawa Prince Hotel non ero riuscito a tenere in mano la mia chitarra che per pochi minuti al giorno.

Ma il pubblico di Stanford meritava ben altro!

L’invito alla prestigiosa università era iniziato contemplando un solo concerto. Tuttavia questo concerto suscitò più interesse del previsto e mi fu chiesto di offrir loro un secondo programma da eseguire due giorni dopo e, per mia sorpresa, l’avvenimento suscitò un tale crescente interesse che mi fu richiesto un ulteriore programma, da eseguire alla fine della settimana.

In Giappone avrei già portato due programmi, così decisi di accettare anche il terzo concerto richiestomi per quest’occasione e di comporne il grosso del programma col repertorio dei due precedenti.

Ora avrei pagato per questa decisione, nata dall’orgoglio più che dall’ambizione.

Fu proprio la tradizione filosofica orientale a venirmi incontro in questo momento di profondo sconforto.

Ero a conoscenza di alcuni testi sullo Zen, e della saggezza di Lao Tsu, il quale disse: “ Se non ci fosse il Male, il Bene non esisterebbe!”

Non esitai a prendere la palla al balzo!

Niente “male”=“bene” !

Quindi: una soluzione era possibile !

E, di conseguenza: “No!” al fallimento di una carriera concertistica…

Un’ allettante possibilità ???

Potevo forse credere che, oltre il male, il bene sarebbe risorto… nel cielo plumbeo che avevo innanzi a me!?!?!?

No! Non andava!

Ma sì! Andava a pennello!

Niente “carriera perduta”, tale come tra due giorni sarebbe potuto accadere… e…

Era giusto!

In verità, così come la consideravo io allora, la carriera era un qualcosa di cui potevo dichiarare il possesso…

Un oggetto prezioso che avrei perduto per sempre!

Ma era davvero così?

Agli occhi che, oggi potrei dire, mi si apersero allora, niente poteva assicurarmi che il risultato della sua malaugurata perdita sarebbe stato irrimediabile, né tanto meno, credibilmente ammissibile!

Era solo un preconcetto! Una “facciata” senza fondamenta né contenuto reale!

Ciò che avevo raggiunto non mi apparteneva materialmente… Forse avrei potuto rinunciarvi senza che ciò causasse seri problemi…

Ma l’opposto era insito nel modo di considerare la responsabilità etica e professionale che ciascuno deve assolutamente rispettare dentro di sé, se vuole essere considerato un vero artista….

Altro preconcetto.

Credibile quanto volevo, ma basato su idee indipendenti dalla sensazione provata nel trovarsi di fronte a un numeroso pubblico!

Gente sconosciuta, ma che aveva il diritto di applaudirmi o fischiarmi, secondo la sua reazione collettiva alla mia individuale esecuzione…

Altro preconcetto?

Nessuno mi aveva mai fischiato… perché ciò che davo loro era frutto della mia profondamente radicata volontà di compartire la bellezza che istintivamente avevo trovata nella musica e nella chitarra!

Giusto!

Tuttavia l’Arte significava Lavoro! Non bastavano l’intenzione e l’istinto…

Senza le lunghe ore di applicazione e di ricerca passate negli anni, dal giorno in cui mi sorpresi a piangere di commozione mentre, dodicenne, camminavo verso casa, tornando dalla pesca, all’Ardenza, canticchiando un’aria di Puccini.

Un’enorme quantità di ore di studio era trascorsa tra quel “me stesso”, emergente da un indubbiamente fertile infanzia, dove la musica materna aveva scavato un profondo solco, colmatosi dell’inviolabilità della tradizione pittorica paterna che assieme avevano creato in me la necessità di una disciplina al di sopra di tutto, senza la quale..

W.M. Si, la carriera solistica richiede un’abnegazione , forse più che una disciplina un’obbedienza…

O.G: E questo mi era recentemente mancato… Era dunque un senso di colpa…

altri preconcetti?

Peggio ancora: pregiudizi!

Considerata la assoluta mancanza di tempo per affrontare il problema con calma, cercando di minimizzarne gli effetti devastanti, cedetti al panico interno nel drastico modo che si rivelò poi il migliore.

Poco a poco eliminai dalle mie “tasche” ogni presenza alla quale non avevo alcun modo di credere senza dubbi di sorta!

Non fu uno scherzo… Tutta la mia conoscenza mi parve fondata su preconcetti privi di fondamento reale… E tra tutto e tutti dovetti disfarmi di tutti coloro che erano stati alla base della mia crescita: genitori, maestri, profeti…

Via tutto!

E anche il resto: il mondo, la sua reale esistenza… il giudizio, il pregiudizio… i fatti storici, la religione, poesia, musica, arte, dovere, potere, fare, avere, dare, pazzia tutto il possibile, l’impossibile…. essere… non essere, conoscenza, pazzia… fin oltre l’assurdo!!!

Era ormai quasi un gioco: le parole si presentavano alla mia mente e, una volta eliminate, cancellate con un “NO!”, lasciavano il loro spazio perduto ai loro significati contrari, anch’essi rapidamente scacciati con lo stesso intento perentorio…

No!”

Talvolta mi apparivano idee troppo difficili da annientare con un semplice “no”, ma credetti di notare che molte di esse, una volta eliminate… perdevano il carattere d’inevitabilità, rimanendo apparentemente quasi innocue…

Chiunque, trovandosi di fronte a tale fenomeno avrebbe potuto essere tentato di fare una cernita di ciò che gli conveniva, mantenendo il buono in un “cassetto” segreto o specialmente adibito a valori irrinunciabili…

La “vita”… L’amore…?

Ma era possibile circoscrivere questi significati così universali senza incorrere in termini troppo frettolosamente trovati dentro di me?

Non mi era possibile…

E poi, il “gioco” avrebbe perduto il suo stesso scopo fondamentale perché sarebbe stato corrotto dalla convenienza personale … Mentre ciò che doveva accadere era una assoluta purificazione, senza eccezioni! Per cui questa eventualità finì per essere rifiutata…

Finché il “niente” il “Nada!” Si presentò in un campo oscuro e senza altre possibilità al di là…

Tutto” era stato così annientato… rimosso dalla coscienza… e dalla parte dell’inconscio da me allora percepibile

in quel preciso istante un raggio di sole mi fece guardare fuori dal finestrino dell’autobus…

Rimasi ad ammirare uno dei più bei tramonti che potessi ricordare…

Là, mi accorsi che una voce, ormai lontana e senza autorità mi diceva : “ Hai appena distrutto la tua esistenza e ti metti a guardare i tramonti???”

Cancellai anche questa voce assieme alla visione primordialmente splendida del sole che tramonta e, poco a poco, iniziarono ad apparire le prime immagini della città…

Ma come credere ormai ai propri occhi?

I passanti per le strade… gli edifici… erano chiaramente persone e case… Ma che cosa mi assicurava che in ciò che avvertivo di fronte a me esistesse un qualcosa dal significato trascendentale?

I miei simili… la gente… le persone… gli “altri”…

Che cos’erano oltre il nome che davo loro?

Esseri che si muovevano, stando ritti su due “steccoli” chiamati gambe….Persone… ma che vuol dire?

Grandi oggetti cubici pieni di buchi…

Case? E poi….?

Tuttora mi è impossibile trovare un significato che non sia essenzialmente abituale o linguistico a queste immagini…

È evidente che la parola… il nome… sono nati milioni di anni dopo l’occhio che ne distingue i portatori.

Fino ad allora avevo accettato il mondo senza conoscerne il significato oltre quello che mi appariva ovvio, ma che non andava oltre l’abitudine!

Ora sapevo che, come disse Socrate: sapevo solo di non sapere…

Ma non me ne crucciavo affatto. Al contrario, fui felice di ri-conoscere l’albero, e le sue grandi foglie… Le forme verdi che prima avrei avuto la tentazione di staccare per assaggiarle… Ora ne carezzai una con tenerezza, passando oltre, e perché no, con innato rispetto, lasciandola al suo destino, appesa al ramo…

Ero affamato… questo era vero. Andai al ristorante dell’alberguccio offertomi dall’ American Airlines.

Dopo una calma cena, salii in camera e mi misi a studiare il Bach che era in programma.

Finché, stanco, andai a dormire e riposai tutta la notte

Durante il tragitto verso l’aeroporto il pensiero che tutto si stesse avviando verso una inevitabile conclusione alleggerì il peso che portavo in me, rendendolo meno gravoso, anche perché mi parve che, dopo una notte di necessario riposo, la mia nuova tecnica di far piazza pulita su tutto ciò che, in quel momento di apparente criticità minacciava di distruggermi non era del tutto distruttiva… Infatti, dopo essere state scacciate dal mio intimo, le stesse cose, apparentemente solo archiviate, parevano rifarsi avanti non più vestite di minacciosa inevitabilità ma mostrando qua e là volti obiettivamente quasi positivi… fino allora ignoti.

Credetti di comprendere che il loro aspetto catastrofico veniva appesantito da una parte di me stesso che, di fronte ad avvenimenti ancora del tutto ignoti, giudicati secondo un metro usato fino a ieri, avrebbe potuto essere deleteria.

In fondo, se niente era mai stato altrettanto spaventoso nella mia intera vita artistica, come potevo giudicare, senza esempi preesistenti?

Chissà… la realtà sarebbe forse stata meno vendicativa verso la mancanza di studio durante le precedenti due settimane, passate aiutando giovani chitarristi a scoprire in sé stessi la scintilla artistica che avevano precedentemente ignorato … La speranza… “ultima a morire”, sembrava far capolino dalle macerie del mio mondo interiore.

W.M.: Si dice sempre che la speranza sia l’ultima a morire, molto di rado che è la prima a nascere…

O.G.: Tuttavia, l’indomani era ancora oscuro e minaccioso, anche se non come mi era apparso all’inizio del lungo viaggio verso la California.

La giornata passò rapidamente…

Il volo verso Est a più di 600 km/h ne stava scorciando la durata visibilmente e l’oscurità arrivò in un batter d’occhio.

In mezzo alla breve notte estiva che seguì atterrammo al primo avamposto statunitense, Honolulu, nelle isole Hawaii, per passare i controlli doganali.

L’arrivo a SFO fu preceduto dal piacevole annuncio che il primo uomo era appena atterrato sulla luna! Fuori dall’oblò il satellite appariva non proprio disturbato dall’invasione Terrestre e la generale allegria dei viaggiatori, incoraggiata dallo champagne loro offerto dallo staff di bordo cambiò il mio stato d’animo fino all’atterraggio che, per effetto della traversata del date-line, avvenne sei ore prima del decollo!

W.M.: E cosa accadde dopo l’arrivo in California?

O.G.: Il mio amico ed allievo di lunga data Phil, assieme al suo cane mi attendevano fuori da l’aeroporto ed andammo a casa loro per un abbondante breakfast e una passeggiata sulla spiaggia nelle vicinanze, dove Salvatore si azzardò ad abbaiare in faccia a un enorme “sea elephant” che si rizzò sulla coda pinnuta emettendo un ruggito che fece cambiare idea al cagnolino… Dissi a Phil che l’alba californiana era passata e era ormai giunta l’ora di recarsi al campus della vicina Stanford University dove qualcuno mi avrebbe sicuramente atteso.

La persona che mi ricevette, felice che l’American Airlines mi avesse finalmente “convolato“ a San Francisco si affrettò a riconfermarmi l’invito a cena per la sera stessa, coi dirigenti e alcuni professori del posto, interessati a conoscermi personalmente prima di ascoltarmi ai prossimi concerti nella sala del campus. Risposi che tutto ciò sarebbe stato grandioso se io non avessi perduto due giorni interi per quel viaggio e che solo avrei avuto bisogno di riposo e tranquillità per cercare di rimediare alla perdita di tempo. Così ebbi in dotazione uno dei cottages a disposizione per gli ospiti dell’Università e mi scaraventai nel mio comodo letto, dove passai tre ore tra incubi e sonno profondo.

Appena sveglio, senza alzarmi dal comodo giaciglio, mi misi a meditare sui pezzi più impegnativi dei programmi che mi attendevano, dall’indomani in poi, per il resto della settimana.

Il jet-lag si fece sentire quasi subito.

L’arrivo dal Giappone, oltre l’oceano Pacifico, comportava una perdita di 7 ore, sebbene, secondo il calendario, si guadagnasse un giorno intero…

intorno a me si era in mezzo a una giornata di sole, ma il mio organismo era ancora al Takanawa Prince Hotel, dove il “sol levante” si era da poco levato ed era per me l’ora di entrare nella sontuosa sala adibita al pasto mattutino, dove mi ero abituato a usare le bacchettine colorate e gioire dalla mia facilità di adattamento ai cibi lontani dalla dieta Mediterranea. Ma le pancakes di Phil erano arrivate nel più bello della notte, che avrei dovuto passare nel sonno e solo per mia ingordigia erano state accolte con gioia e spensieratezza nell’intimità amichevole di vecchi ricordi californiani.

Bisognava reagire al jet-lag, impedendogli di rovinare ulteriormente la situazione!

Non potevo chiudere le imposte e cercare di dormire ancora. Anche riuscendoci, poi sarebbe venuta la sera e mi sarei sentito sveglio come un grillo… Bisognava utilizzare tutto il tempo a disposizione per resuscitare il fisico che avrebbe poi a sua volta resuscitato il repertorio dormiente da due settimane! Quindi: riposo, lavoro, riposo, lavoro…. senza lunghe soste tra l’uno e l’altro.

A quei tempi praticavo un rilassamento il più totale possibile. Si trattava di dare al corpo e alla mente il riposo che ogni loro parte necessitasse, da un estremo all’altro. Partendo dai piedi, mi rilassavo passo passo fino alla sommità del cranio e sempre fissando lo sguardo sull’insieme corporale e degli arti, partendo dal “punto in mezzo agli occhi”, che tenevo chiusi per evitare di essere distratto da qualsiasi dettaglio esterno a me durante il percorso da un estremo all’altro.

Avevo letto un libro intitolato “Il terzo occhio” dove credo si descrivesse qualcosa di simile, ed ero grato a questa meditazione, benché essa fosse basata solo sull’attenzione e la consapevolezza di me stesso, anziché dividendomi tra me e un mantra, come alcuni amici erano usi a osservare, con grande effettο spirituale ed intellettuale, e che attribuivano alla supernaturalità attribuita al suono della parola stessa pronunciata ripetutamente per un certo tempo della giornata.

Il 1968 aveva aperto una parte dell’attenzione occidentale sui riti praticati in India e altri paesi d’Oriente e questo stava dando frutti che, apparsi in quegli anni “socialmente rivoluzionari” avrebbero contagiato una gran parte della popolazione mondiale, soprattutto negli Stati Uniti. Anche se in molti casi, giunti al dunque la maggior parte di questi nuovi americani erano tornati sui propri passi, una volta trovatisi di fronte alla scelta di vita tra spirito e materia...

W.M.: sicuramente la pubblicità che i Beatles, con il loro soggiorno indiano del 1968, resero alla meditazione trascendentale di Maharishi Mahesh Yogi, diede a questa pratica (ed altre similari) una diffusione planetaria, ma per molti si trattò di una moda come tante, pochi sono poi rimasti veramente assidui … tra essi diversi artisti di palcoscenico, alla spasmodica ricerca del modo migliore per sgombrare la mente da pensieri e sentimenti nocivi per il loro cimento.

O.G.: A Stanford ero io stesso di fronte a un pubblico di giovani che, visto che ero italiano e proveniente dall’Oriente, potevo forse dar loro un qualche barlume su ciò che discutevano tra una fumata di marijuana e l’altra…

La meditazione di quel giorno mi restituì una certa energia assieme alla fiducia in alcuni pezzi di fondamentale importanza nei programmi da osservare tra breve…

Ma la fatica mentale dovuta alla concentrazione sullo strumento e a tutti gli annessi e connessi artistici che accompagnano quest’attività mi portò a una scelta: continuare o prendere una pausa pranzo… evidentemente scelsi la seconda e mi diressi verso la cafeteria dove si servivano i pasti a tutti gli iscritti all’istituto, che sorge tra una falda e l’altra della California, divisa dalla San Andreas Fault che sta allontanando la lunga penisola dallo zoccolo continentale portandola verso oriente, dove un giorno lontano potrà essere diversamente considerata dai futuri geografi!

All’ingresso dell’enorme cafeteria, circondata da lunghe vetrate, oltre le quali si potevano riconoscere gli amici presenti ai lunghi tavoli coi quali decidere di condividere l’ora dedicata al nutrimento del corpo, dopo essere stati istruiti spiritualmente nelle grandi aule delle varie facoltà, mi resi conto dell’attesa che il mio arrivo stava provocando tra i presenti nel campus!

Un cartellone su un cilindro pubblicitario posto di fronte all’ingresso mostrava un qualche “extraterrestre” che viaggiava nel cosmo su un bolide volante, munito di barba e capelli lunghi, e che si avvicinava tenendo tra le braccia una chitarra… Uno slogan lo descriveva: … “GUITAR GENIUS ON HIS WAY TO STANFORD”….

Mi sentii raggelare! La calma trovata nei momenti passati studiando attentamente e riposando le meningi e i muscoli, fino alla meritata pausa, scomparve del tutto e l’ansia vissuta durante il ritorno a Tokyo dall’aeroporto tornò a impadronirsi del presente..

Ebbi una reazione violenta a questa immagine e la cancellai assieme allo slogan, all’università, la California, l’America, la carriera, la professione… VIA TUTTO!!!

W.M.: ecco che comincia ad emergere l’essenza della Sua esperienza: un NADA che diventa TODO!

Ma invece di correre a studiare colla coda tra le gambe, uscendo dopo aver pranzato, vidi alcune biciclette offerte a noleggio. Ne presi una e mi aggirai per il vasto parco, tra alti alberi e viuzze finché giunsi alla biblioteca dell’Università. Entrai e passai in rivista i titoli e gli argomenti esposti… Lessi una o due frasi che trovai d’ispirazione allo mio scopo nel luogo e pedalai fino al cottage, dove ripresi a studiare… lentissimamente e senza dare spazio alcuno ai momenti di ansia e stanchezza fisica o mentale, se non tornando a sdraiarmi sul dorso, chiudere gli occhi e meditare creando uno spazio-tempo che non ammettesse reazioni critiche, negative o positive sull’operato, che mi distraessero dal suo utilizzo totale.

Giunsi così a eseguire ogni pezzo del programma dell’indomani, provandone interesse e piacevole complicità colla situazione che stava evolvendosi rapidamente… Verso le tre di notte, dopo aver eseguita a tocco di studio la “Fantasia 7 di J. Dowland, andai a dormire e riposai il resto della nottata.

Al risveglio il sole era già alto. Tornai alla cafeteria, salutai l’extraterrestre, e pedalai verso il residence, grato all’esercizio fisico e alla purezza dell’aria estiva all’ombra degli alti olmi californiani.

Continuai la preparazione, finché, giunta l’ora di prepararmi, per apparire come il chitarrista che ero, mi vestii con calma senza chiedermi se chissà chi mi attendeva, avesse chissà quali aspettative…

Uscii e mi avviai a piedi verso l’auditorio. Lo spazio da percorrere era abbastanza breve e attraversai un vasto parking quasi vuoto dove per terra qualcosa attrasse la mia attenzione…

Era un dollaro, ripiegato, che raccolsi e, visto che nessuno era in vista che potesse averlo perduto, lo intascai considerandolo un qualche “anticipo” di sorta…

Fuori dall’ingresso dell’auditorium trovai molti vecchi amici e ex-allievi che mi attendevano sotto la breve scalinata che conduceva alla sala dove avrei concluso il mio “calvario…” Salutai tutti con gioia e mi diressi verso il dressing room…

Accordai bene la mia Ramirez e appena fui avvertito che il pubblico era in sala e mi attendeva, uscii verso il palcoscenico.

Da quel momento tutto avvenne come non avrei potuto sperare…

L’empatia si fece subito sentire tra me e il pubblico, dandomi forza ed energia creativa in modo che potrei definire miracoloso…

Non un momento del programma tradì l’ansia provata nelle ore passate tra il terrore del fallimento professionale e il senso di colpa che provai in mancanza della seria applicazione alla preparazione dell’avvenimento, che avrei dovuto osservare durante tutto il tempo delle due settimane precedenti…

Colmo della soddisfazione fu l’ottima critica apparsa l’indomani sullo Stanford News…

Il dado era tratto!

Il resto della settimana fu all’ombra della prima serata, ma soddisfacente!

EVVIVA il “NADA”! Dietro al quale si può nascondere tutto e soprattutto ciò che il nostro “io”, liberato dalle briglie che lo condizionano nei casi di inattesa difficoltà, può dirsi il solo protagonista della scena formataglisi attorno, sin dai primi approcci verso il campo prescelto istintivamente e perseguito con la massima assiduità e con sincera devozione…

The End.

P.S. Mi pare che la mente abbia un buon mezzo per riconoscersi, un “occhio”, se vogliamo; e quale punto è più profondamente indicato allo scopo se non quella parte che chiamiamo “io”?

Forse mi sto contraddicendo, ma non ho altri argomenti, salvo il fatto che l’unico che può distinguere il proprio “essere”, può in quanto il suo “io”, spinto dalla sua volontà di farlo, scende all’interno di ciò che crede di vedere in sé e che, grazie alla propria perspicacia, interpreta in modo tanto obiettivo quanto la sua esperienza di vita lo abilita a credere.

W.M.: Nel ringraziarla ancora per la disponibilità, mi è doveroso portare a conoscenza dei lettori che le mie domande traggono spunto dal suo raccontarsi.