Cogito ergo sum


Al centro della riflessione sui princìpi primi della realtà, vi fu, costante, la meditazione solitaria di un uomo, proprio su di sé. È la morale stoica del dominio sapiente delle passioni e l’invito, altrettanto stoico, all’introspezione. Diceva Seneca: “Illi moris gravis incubat, qui notus nimis omnibus, ignotus moritur sibi” (Dura morte incombe su colui che, troppo noto agli altri, muore sconosciuto a se stesso).
Sono versi, che Cartesio prese a proprio motto e che evidenziano la sua coscienza isolata, da aristocratico, in cerca di un criterio privilegiato, accessibile a pochi animi superiori, quelli che chiamò “generosi”, sapienti caritatevoli che riversavano sull’umanità, disinteressatamente, i vantaggi pratici del sapere e serbavano, per loro, la soddisfazione della saggezza. Cosa sa un uomo solo? Di cosa può essere certo? Le sensazioni si rivelano, molto spesso, ingannevoli. Solo la matematica sembra sicura, ma può accadere anche all’ingegno più acuto di sbagliare un calcolo. Potrebbe darsi che sia falso tutto ciò che si crede vero e vero tutto ciò che si reputa falso. Non potrebbero avere ragione gli scettici, che dal dubbio di ogni cosa, anche su ciò che appare più certo, arrivano alla conclusione di non sapere assolutamente nulla? Queste, sicuramente, dovevano essere le domande che Renè Descartes si poneva quando, ancora fanciullo, allievo del “Collège Royal Henri IV”, a La Fléche, da subito individuato dai docenti come studente di eccezione, per l’insolita bravura ed anche per la fragile salute, godendo del vantaggio di una stanza tutta per sé e del permesso di attardarsi al mattino, rifletteva nel tepore del letto. Questo matematico e filosofo francese, il cui nome venne latinizzato in Cartesius, nato, nel 1596, a La Haye, piccolissimo paese dell’antica provincia della Touraine (Turenna), in età adulta formulò, a titolo di mera astrazione, l’ipotesi del cosiddetto “dubbio iperbolico” e cioè, che tutto ciò che gli appariva e che credeva vero, fosse, al contrario, una finzione, prodotta da un genio maligno ingannatore. Si trattava, ovviamente, di un’ipotesi limite, ma l’aveva assunta come norma metodica, al fine di arrivare a scoprire, fra le proprie conoscenze, qualcosa che fosse esente da dubbio ed assolutamente evidente, tanto da respingere dal campo delle nozioni accettate come vere, non solo quelle palesemente false, ma anche quelle su cui vi fosse il minimo sospetto di incertezza. Soltanto un procedimento singolare di questo tipo, poteva autorizzare, per l’appunto, il “dubbio iperbolico”. Una verità, quindi, ed una sola, si imponeva con assoluta evidenza: per il solo fatto che un individuo pensa, altrimenti non potrebbe nemmeno essere ingannato, esiste. “Cogito ergo sum”, questo il legame necessario fra nozioni semplici, che non può essere messo in dubbio e da cui partire, per costruire tutto il sapere, sulla base della certezza e dell’evidenza. Da qui, Cartesio costruì il mondo fisico, secondo i criteri ipotetico-deduttivi ed il suo pensiero ricoprì, nella storia, un significato enorme. Eppure dovette spendere gli ultimi anni di vita, da un lato in polemiche e discussioni intorno al suo sistema, che espose chiaramente nella stesura definitiva dei “Princìpi”, e dall’altro in ricerche di medicina e di morale, discipline, per lui, intimamente collegate. Questi studi ebbero la propria espressione più completa nel trattato sulle “Passioni dell’anima”, l’ultimo scritto pubblicato che, per inciso, andrebbe letto, tenendo conto anche delle numerosissime lettere, sullo stesso tema, indirizzate a vari corrispondenti, e soprattutto ad Elisabetta, la Principessa del Palatinato germanico. Nelle discussioni di quel periodo, si trovò più volte costretto a cercare di dare chiarimenti maggiori sulle grosse questioni lasciate insolute o risolte in modo insoddisfacente, come quella, ad esempio, del rapporto tra la “sostanza pesante” e la “sostanza estesa”. Dopo un acceso contrasto, nell’anno 1641, con l’abate francese Pierre Gassend (1592-1655), detto Gassendi, filosofo, teologo, matematico, astronomo ed astrologo (cui sono stati intitolati sia l’asteroide 7179 Gassendi che il cratere lunare Gassendi), furono in molti a premere, perché spiegasse come potevano due elementi, del tutto eterogenei tra loro, influenzarsi a vicenda. Cartesio asseriva che “il corpo influisce sulla mente attraverso sensazioni, immagini e ricordi, mentre la mente, dal canto suo, influisce sul corpo nel determinare atti volontari [lett.]”. Bisogna dire che le sue ricerche, biologiche e mediche, furono scientificamente determinanti per la conoscenza degli esseri viventi, ma lasciarono, ai successori, ancora vivo il problema di quelle “sostanze”. Inoltre, dall’Università olandese di Leida, la più antica dei Paesi Bassi, gli vennero mosse pesanti accuse di pelagianesimo. Secondo questa dottrina eretica, professata dal monaco bretone Pelagio (354-427), il peccato originale fu colpa dei soli progenitori, non dei discendenti, e non macchiò affatto la natura umana che, pur tuttavia, ne subì le conseguenze. La volontà dell’uomo è, altresì, da sola in grado di scegliere ed attuare il bene, senza la necessità della grazia divina.
Un tale Henry More, professore di Cambridge, osservò che, col negare nel modo più assoluto, il pensiero all’estensione e l’estensione al pensiero, Cartesio non lasciava posto né allo spirito, né a Dio. Ed un velato sospetto di ateismo fu accolto, a quasi cinquant’anni dalla sua morte, sul finire del secolo, dal teologo Antoine Arnauld (1612-1694) e dal filosofo Nicolas Malebranche (1638-1715), rappresentanti delle due principali tendenze di sviluppo del cartesianesimo teologico, che si scontrarono in una lunga controversia, deleteria per quel poco che poteva ancora esserci di recuperabile, in Cartesio, ai fini dell’edificazione ortodossa. Il sistema in quanto tale, cioè l’organizzazione sistematica e finalizzata del sapere, non sopravvisse al suo momento storico. In una Francia uscita vittoriosa dalla Guerra dei Trent’anni, grazie all’organizzazione politica ed alla fattiva diplomazia, quel pensiero si collocò come progetto europeo di conquista culturale, conquista che si impose per tutto il XVIII Secolo. Renè Descartes aveva fatto suoi, il senso organizzativo e proprio della nascente civiltà borghese, l’individualismo, l’amore per l’isolamento, la considerazione strumentale del potere governativo, fino ad allora abiti mentali delle sole classi privilegiate. Si intravvidero, nella sua costruzione filosofica generale, e nella morale che vi era contenuta, un atteggiamento ben chiaro dinnanzi alla politica che, anche se non “spiegava” i ricchi contributi dati ai diversi rami delle scienze, era profondamente connessa a tutta la sua visione della realtà. In un periodo più lungo, se si guardano i frutti lasciati dalla filosofia cartesiana per il secolo successivo, va detto che essa diede una forte spinta al fluire del materialismo. Scrisse Carl Marx, nell’opera, scritta a quattro mani con Friedrich Engels, “Sacra Famiglia”: “La metafisica del Secolo XVII (si pensi a Descartes e a Leibniz) era ancora mescolata con un contenuto “positivo”, profano. Essa faceva scoperte nella matematica, nella fisica ed in altre scienze determinate, le quali parevano appartenerle. Questa parvenza era eliminata già dall’inizio del Secolo XVIII. Le scienze positive si erano separate dalla metafisica ed avevano costituito sfere autonome. Tutta la ricchezza della metafisica consisteva ormai solo in enti ideali ed in cose celesti, quando le cose terrene cominciavano a concentrare su di sé ogni interesse. La metafisica era diventata insipida. Nello stesso anno in cui sono morti gli ultimi grandi metafisici del Secolo XVII, Malebranche ed Arnauld, sono nati Helvétius e Condillac”.
In mezzo a cautele e ad un complesso sistema, Cartesio non portò avanti, positivamente, solo degli aiuti specifici a singole dottrine. Garantì una consapevolezza, sempre implicita, e talvolta del tutto esplicita, ad una scienza che visse e si sviluppò in un preciso ambiente storico, fra precisi indirizzi e precisi limiti, posti dal potere. Sostenere il sistema dell’astronomo-astrologo danese Tycho Brahe (1546-1601), anziché quello del collega polacco Mikołaj Kopernikel (italianizzato Niccolò Copernico, 1473-1543), fu una scelta impegnativa, sofferta, ma necessaria. Descartes amava fare delle scelte ed in questo, fu più avanti di ogni altro del suo secolo. Con una felice espressione, il citato Henry More, suo ammiratore e critico, lo chiamò “homo nasutissimus”, per la sua capacità di destreggiarsi nelle situazioni rischiose e per la sua attenzione, sia nell’esprimersi, sia nel tacere al momento giusto. Un’attenzione che andava ben oltre la mera prudenza e furbizia.
La decisione di accettare l’invito della Regina Cristina di Svezia, sua grande e fedelissima discepola, solo per corrispondenza, si rivelò per lui fatale. Il rigore dell’inverno svedese minò irrimediabilmente un fisico già precario. Morì, a Stoccolma, l’11 febbraio 1650, per una polmonite fulminante. Quasi subito, la Chiesa cattolica mise al bando tutte le sue opere, con la “benevola” clausola: “Sospendendos esse, donec corrigantur” (da sospendere, finché non siano state corrette). Benevola clausola, benevola diplomazia? Ancora una volta, “ai posteri l’ardua sentenza”.