Il “Ghetto-paradiso” (2a parte)


La segretezza del tempo di guerra rese possibile nascondere la uccisioni. Nessun giornalista riuscì mai a viaggiare al seguito delle “Einsatzgruppen” (Unità Operative), nei loro sopralluoghi ai campi. Bisognava eludere e, se necessario, contrastare il crescente dilagare di rivelazioni e di voci sui massacri, sbarazzandosi delle prove.
Il ghetto-paradiso di Terezin doveva dimostrare che lo sterminio non stava avendo luogo. Le squadre incaricate di bruciare i cadaveri dovevano cancellare ogni traccia del fatto che fosse mai avvenuto. L’aspetto più trionfante della mistificazione, perché di sola mistificazione si trattava, riguardava le stesse vittime. Nel corso di tutti e quattro gli anni dell’immane olocausto, la maggior parte di loro non seppe mai che i treni li stavano portando alla morte, in quelli che venivano chiamati “i campi per gli ebrei all’est”. I tedeschi li placavano con le più diverse ed elaborate menzogne sulle località dove erano diretti e su ciò che avrebbero fatto una volta giunti a destinazione. Quella finzione si protraeva fino ai loro ultimissimi attimi di vita, quando venivano condotti, nudi, nei locali costruiti per asfissiarli, che conoscevano come “docce di disinfestazione”.
Certo, sembra inverosimile che milioni di ebrei abbiano bevuto ingenuamente quelle falsità e siano andati, come buoi, verso il macello. Ma, come un malato terminale si rifiuta di credere di dover morire e si afferra ad ogni pagliuzza di speranza, così quei poveracci non vollero credere alla crescente marea di chiacchiere e di notizie, secondo cui i tedeschi si proponevano di sterminarli tutti. Per convincersene, in fin dei conti, avrebbero dovuto credere che il “governo legale” della Germania stesse sistematicamente ed ufficialmente perpetrando una truffa omicida, gigantesca, al di là di ogni immaginazione. Avrebbero dovuto credere che la funzione stessa dello Stato, creato da ogni collettività umana per scopi di autodifesa, si fosse trasformata in una subdola nazione occidentale, capace di giustiziare, in segreto, moltitudini di uomini, donne e fanciulli innocenti, senza alcun preavviso, alcuna accusa ed alcun processo. Si dava il caso che quella fosse la verità. Eppure, fino all’ultimo, quasi tutti quelli che morirono non riuscirono a rendersene conto.
Theresienstadt non era altro che un campo di transito, una stazione intermedia del viaggio all’est, una “schleuse”, chiusa o saracinesca. Erano privilegiati, dopotutto. Al loro arrivo venivano accolti cordialmente, con l’offerta di un pasto e con l’invito a compilare dei moduli, specificando quale genere di alloggi, sia in albergo che in appartamento, preferissero e quali beni, in gioielli ed in valuta, avessero portato con sé. Poi, venivano sistematicamente derubati, fino alla nuda pelle e perquisiti anche negli orifizi più intimi, in cerca di oggetti preziosi. Naturalmente, il preludio cordiale facilitava il saccheggio. Dopo di che, ricevevano il trattamento previsto per i comuni giudei. Ma non era sempre così. A volte, quando giungevano grandi convogli, la farsa delle accoglienze veniva omessa. I nuovi arrivati, condotti in uno stanzone e depredati, in massa, di tutto ciò che possedevano, ricevuti capi di vestiario usati, venivano avviati nella ”piccola fortezza”, divenuta una sorta di cittadina, gremita e pestilenziale, infestata da malattie. Trovavano riparo su giacigli sovrapposti, a quattro livelli, in soffitte percorse da gelide correnti d’aria e già assiepate di persone malate ed affamate o in un stanze, dalla capienza di quattro persone, che ne ospitavano quaranta. I nuovi venuti non andavano incontro all’immediata “asfissia”. Il questo senso si trattava, per l’appunto, di un “ghetto-paradiso”. Circostanze forzate dalla convenienza, non predisposte dai tedeschi ed accettate controvoglia, ne accentuavano la parvenza paradisiaca.
All’inizio, gli inconsapevoli ospiti, ben organizzati, avevano persuaso le SS a consentire loro di istituire un municipio ebraico nella città-fortezza, una specie di governo parallelo, in parte fittizio ed in parte reale. Fittizio perché doveva limitarsi a fare qualsiasi cosa i tedeschi ordinassero, compresa la compilazione degli elenchi dei “partenti”; reale perché i suoi vari uffici provvedevano all’igiene, al lavoro, alla distribuzione dei viveri, agli alloggi ed alla cultura. Ai tedeschi premevano, soltanto, le più severe norme di sicurezza, i loro agi ed i loro piaceri, le quote di produzione delle fabbriche e la consegna dei corpi vivi per riempire i treni. Per tutto il resto, quei predestinati potevano provvedere a loro stessi. Esisteva perfino una banca, che stampava una speciale e decorativa valuta, emessa da un Consiglio degli Anziani (Judenrat), con incisioni stupefacenti su tutte le banconote, eseguite da qualche anonimo artista, che raffiguravano un Mosè sofferente, nell’atto di reggere le tavole della legge. Erano, più che altro, delle ricevute per i beni requisiti e non avevano alcun potere di conversione in merci, come compariva dalla scritta (a fianco di Mosè), “Quittung Über”…ricevuta per. Con quelle banconote, ovviamente, non si poteva acquistare nulla, ma i nazisti obbligavano i banchieri ed i lavoratori a tenere costantemente aggiornati complessi registri contabili, dei salari, dei conti correnti e dei prelievi. Ma quell’organizzazione non arrivò mai ad aumentare le razioni viveri, al di sopra della morte per fame, né a fornire medicinali o a diminuire il continuo e torrenziale afflusso di esseri umani.
Terezin era una graziosa cittadina, non una distesa di stalle per cavalli, su di un terreno sabbioso e paludoso. Le case di pietra e le lunghe caserme del XIX Secolo, costruite ai lati delle vie rettilinee, piacevano all’occhio, purché non si guardasse all’interno. Del resto, quelle turbe di abitanti malati ed affamati, venivano fatti sparire ogniqualvolta arrivavano i visitatori. Prima della guerra, compresi i soldati cecoslovacchi di stanza in una grande caserma, non superava i cinquemila abitanti. In quegli anni, era come una cittadina ai margini di una zona alluvionata o terremotata, invasa dai superstiti del disastro. Solo che il disastro continuava ad infierire ed i superstiti continuavano a pigiarsi, arrivando a cinquanta o sessantamila unità.
Le conferenze, i concerti, le commedie, le opere liriche avevano realmente luogo e venivano effettivamente rappresentate. I tedeschi acconsentivano agli ebrei ricchi o di talento, di dimenticare la fame, le malattie, l’affollamento, la paura, con attività che apparivano, e forse per quei poveretti lo erano, del tutto incantevoli. Esistevano caffetterie, ristoranti e club notturni. Non c’era niente da mangiare o da bere, ma i musicisti abbondavano e si poteva godere di quei piaceri, divenuti inconsapevoli spettri, fino al momento della partenza per l’est. Esistevano negozi fasulli, con vetrine piene di mercanzie rubate ai prigionieri, che ovviamente non erano in vendita.
Inizialmente, soltanto ai commissari della Croce Rossa tedesca veniva consentito di entrare a Theresienstadt. Le SS non dovevano faticare molto per ottenere da loro rapporti favorevoli. Poi, il successo stesso della mistificazione mise in impreviste difficoltà i tedeschi. Vi furono richieste molto insistenti affinché il campo potesse essere visitato da osservatori di Paesi neutrali al conflitto. Richieste che dovevano “necessariamente” essere concesse e che condussero all’evento più bizzarro della bizzarra storia di quel luogo, la “Verschönerungsaktion”, ovvero una “Azione di Abbellimento”, l’apoteosi della finzione.
Ma nessuno, all’interno del “Ghetto-paradiso”, riuscì veramente a capire o ne ebbe il tempo. All’esterno, forse, nessuno ebbe mai la volontà di capire.