Quando la cura è peggiore del male


“Oggi nel mondo le disarmonie sono diventate vere e proprie divisioni: c’è chi ha troppo e chi nulla, c’è chi cerca di vivere cent’anni e chi non può venire alla luce. Nell’era dei computer si sta a distanza: solo contatti, più ‘social’ ma meno sociali”.
Ed ancora: “Sempre c’è la tentazione – ha sottolineato il pontefice – di costruire ‘nidi’: di raccogliersi attorno al proprio gruppo, alle proprie preferenze, il simile col simile, allergici a ogni contaminazione. Dal nido alla setta il passo è breve: quante volte si definisce la propria identità contro qualcuno o contro qualcosa!”.
Queste le parole tratte da due passaggi del Papa nell’omelia della messa di Pentecoste a piazza San Pietro.
Non è difficile leggere tra le righe l’appello a un modello di accoglienza senza regole e senza limiti, francamente insostenibile per qualunque nazione.
Non vede il Papa che fine fanno buona parte dei migranti che illusi vengono in Italia essendo indotti a credere che vi trovano l’eldorado? Se uomini finiscono nelle piantagioni di pomodori, sfruttati da caporali senza scrupoli. Se donne, spesso, i loro sogni s’infrangono sul bordo di qualche stradone provinciale, costrette ad esercitare la professione più vecchia del mondo.
Si comprende bene che alla base c’è la flessione delle vocazioni e del numero di fedeli praticanti, un gregge sempre meno numeroso di pecorelle è sempre più vecchio, ma non si può illudere la gente il messaggio corretto può non prescindere dal rispetto di una sostenibilità d’immigrazione tale che chi viene da noi trova poi effettivamente un lavoro e una casa.
Se, quindi, c’è del vero in linea puramente teorica nell’omelia papale, l’applicazione pratica della ‘cura’ prescritta dal Pontefice alla nostra società sembra, tuttavia, peggiore del male di apparire insensibili.