La mediocrità


Spesso le parole, nel tempo e nella comune opinione, assumono significati disparati; a volte addirittura opposti. Oggi il sostantivo mediocrità vale un’offesa; ma il suo senso originario è ben altro. Di derivazione latina, mediocrità indica la condizione media, lo stato di chi è o si tiene ugualmente distante dai due limiti estremi. Esprime un principio morale della classicità ben esaltato dal poeta latino Orazio, propugnatore di un’etica di vita di giusta moderazione ed equilibrio, lontana da passioni o ambizioni eccessive, piuttosto alla ricerca di una imperturbabilità d’animo che induca serenità e ragionevolezza nelle varie occasioni della vita comune.
È singolare, dunque, come nel tempo il termine mediocrità abbia assunto il senso ironico cui siamo ormai abituati, riferendolo a chi si contenta passivamente della propria condizione, senza impegnarsi nel tentativo di migliorarla; oppure a chi pur non avendo particolari capacità o apprezzabili doti intellettuali, occupa ugualmente un posto di responsabilità. Un senso ironico che peraltro mal si concilia con l’utilizzo altrettanto comune della locuzione latina In medio stat virtus, risalente ai filosofi scolastici medioevali, che costituisce un invito a ricercare un punto d’equilibrio tra due estremi, fuori da ogni esagerazione, locuzione che l’uso comune ha reso quasi banale. Ma se Orazio della mediocrità nè fa un vanto ai nostri giorni è il nuovo tormentone dell’elite globaliste, l’ultima trovata in realtà per niente originale per far fronte all’irrompere dei populismi e sovranismi, tanto temuti dall’attuale e tenace compagine di potere: l’apologia della “competenza”. Per salvare il sistema da temibili e minacciosi sovvertimenti occorre che il potere consultivo e decisionale su ogni ambito della vita individuale e collettiva venga demandato a una cerchia ben selezionata di “competenti”.
Ma chi sono questi individui eletti? In teoria, persone la cui elevata conoscenza tecnica in materie specifiche li eleva a massimi esperti, e dunque portatori indiscussi di verità assolute e inconfutabili, sottratte a ogni critica. In pratica, gli stessi che hanno già ricoperto ruoli di prestigio in istituzioni che ci hanno governato finora, con i risultati più o meno disastrosi che sono sotto gli occhi di tutti.
Il concetto di competenza, tanto in voga tra gli economisti, perde così ogni riferimento alla misurazione dei risultati raggiunti dalle azioni e dagli strumenti messi in atto: l’efficacia delle politiche adottate non ha alcuna rilevanza. Ciò che conta è la legittimità delle azioni e degli attori, l’autorevolezza che gli viene tributata da enti e istituzioni universalmente riconosciuti.
Secondo un meccanismo autoreferenziale e capace di autoriprodurre il proprio pensiero senza interruzione critica, nell’ambito della ricerca scientifica vengono premiati e incentivati coloro che sono in grado di portare prove a sostegno di un modello universalmente riconosciuto. Una sorta di esaltazione della “mediocrità”, dove per mediocre intendiamo quell’ individuo che annulla il proprio spirito critico, in virtù di un’adesione e un sostegno preconcetti a un modello già esistente.
In un simile contesto, il lavoro di analisi e confutazione di teorie già esistenti e acclamate viene scoraggiato e marginalizzato. Pensiamo al clamoroso errore nel 2010 di Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff, due docenti della prestigiosa Università di Harvard e con ruoli nel FMI, che con la loro pubblicazione “Growth in a Time of Debt”, forniscono la prova “scientifica” che qualora il debito pubblico di una nazione raggiunga la soglia del 90% del Pil diventerebbe un ostacolo insuperabile alla crescita. Il paper diventa la Bibbia dei paladini dell’austerity: quel 90% fornisce una cifra precisa, capace di esercitare quella fascinazione sull’ opinione pubblica che la “scienza esatta” è in grado di suscitare. Tre anni dopo accade che dei professori dell’università di Amherst affidano a uno studente il compito di scegliere una ricerca e replicarne il risultato. La scelta del giovane Herndon ricade proprio sull’osannato paper di Reinhart e Rogoff e l’esito della sua analisi è sconvolgente: lo studio è compromesso da gravi problemi metodologici e addirittura da un banale errore nel foglio Excel, alcuni calcoli sono sbagliati e viene omesso di includere tra le nazioni esaminate tre casi rilevanti. Gli stessi economisti di Harvard sono costretti a riconoscere l’errore, sebbene cercando di sminuirne la portata. Ma la credenza che l’aumento del debito pubblico sia dannoso alla crescita non solo non viene scalfita, ma anzi si rafforza e le politiche dell’austerity continuano a seminare sempre più vittime, in Europa come nel resto del mondo.
Intanto Reinhart e Rogoff hanno continuato a essere protetti dalla loro aura sacrale conferitagli dalla “competenza”, sono stati insigniti di importanti premi e riconoscimenti, e a collaborare con organizzazioni che esercitano la governance mondiale. Gli errori sono umani e non si possono certo stigmatizzare due economisti che sicuramente hanno dedicato la loro vita agli studi, ma di ridimensionare il potere assoluto e dispotico della scienza, di riportarla al suo ruolo di strumento funzionale al benessere e allo sviluppo. Una «rivoluzione anestetizzante» si è compiuta silenziosamente sotto i nostri occhi ma noi non ce ne siamo quasi accorti: la “mediocrazia” ci ha travolti. I mediocri sono entrati nella stanza dei bottoni e ci spingono a essere come loro. Essere mediocri, non vuol dire essere incompetenti. Anzi, è vero il contrario. Il sistema incoraggia l’ascesa di individui mediamente competenti a discapito dei supercompetenti e degli incompetenti. Questi ultimi per ovvi motivi (sono inefficienti), i primi perché rischiano di mettere in discussione il sistema e le sue convenzioni. Ma comunque, il mediocre deve essere un esperto. Deve avere una competenza utile ma che non rimetta in discussione i fondamenti ideologici del sistema.Lo spirito critico deve essere limitato e ristretto all’interno di specifici confini perché se così non fosse potrebbe rappresentare un pericolo. Il mediocre, insomma, deve fare il gioco degli altri. Ma cosa significa? vuol dire accettare i comportamenti informali, piccoli compromessi che servono a raggiungere obiettivi di breve termine, significa sottomettersi a regole sottaciute, spesso chiudendo gli occhi. Giocare il gioco loro, vuol dire acconsentire a non citare un determinato nome in un rapporto, a essere generici su uno specifico aspetto, a non menzionarne altri. Si tratta, in definitiva, di attuare dei comportamenti che non sono obbligatori ma che marcano un rapporto di lealtà verso qualcuno o verso una rete o una specifica cordata.
È in questo modo che si saldano le relazioni informali, che si fornisce la prova di essere “affidabili”, di collocarsi sempre su quella linea mediana che non genera rischi destabilizzanti. Piegarsi in maniera ossequiosa a delle regole stabilite al solo fine di un posizionamento sullo scacchiere sociale è l’obiettivo del mediocre. All’origine della mediocrità c’è la morte stessa della politica, sostituita dalla “governance”. Un successo costruito da Margaret Thatcher negli anni ‘80 e sviluppato via via negli anni successivi fino a oggi. In un sistema caratterizzato dalla governance l’azione politica è ridotta alla gestione, a ciò che nei manuali di management viene chiamato “problem solving”. Cioé alla ricerca di una soluzione immediata a un problema immediato, cosa che esclude alla base qualsiasi riflessione di lungo termine fondata su principi e su una visione politica discussa e condivisa pubblicamente. In un regime di governance siamo ridotti a piccoli osservatori obbedienti,incatenati a una identica visione del mondo con un’unica prospettiva, quella del liberismo.
La governance è in definitiva una forma di gestione neoliberale dello stato, caratterizzata dalla deregolamentazione, dalle privatizzazioni dei servizi pubblici e dall’adattamento delle istituzioni ai bisogni delle imprese.Dalla politica siamo scivolati verso un sistema (quello della governance) che tendiamo a confondere con la democrazia.
Anche la terminologia cambia: i pazienti di un ospedale non si chiamano più pazienti, i lettori di una biblioteca non sono più lettori. Tutti diventato “clienti”, tutti sono consumatori.
E dunque non c’è da stupirsi se il centro domina il pensiero politico. Le differenze tra i candidati a una carica elettiva tendono a scomparire, anche se all’apparenza si cerca di differenziarle. Anche la semantica viene piegata alla mediocrità: misure equilibrate, giuste misure, compromesso. Il mediocre è inteso come un debole che si lascia usare dal sistema, che rinuncia a pensare, che rinuncia alla propria dignità e che, in definitiva, rinuncia soprattutto a se stesso. E vi rinuncia per un lucro risibile come l’effimera buona considerazione del proprio superiore o per il piccolo premio di Natale. O magari per qualcosa di obiettivamente più sostanzioso come una poltrona o un ruolo ma che le modalità di assegnazione privano totalmente di valore assoluto.
Non mi si dica che la giustizia sia uguale per tutti; non mi si dica che la tutela della salute sia uguale per tutti, o l’accesso al credito, o alle posizioni di potere. Non mi si racconti che il nostro sia un sistema meritocratico, o che la politica degli ultimi anni abbia tutelato la classe media o le fasce deboli della popolazione. Né che la nostra scuola, dalle elementari all’università, sia capace di formare le nuove generazioni alla complessità che ci aspetta. Quella creata è una vera piramide, al cui vertice non ci sono i migliori, i più competenti, ma i fedeli, gli appartenenti, ognuno di essi in difesa degli altri e difeso dagli altri. Qualcuno sa nominarmi un vero statista che abbia calcato il Transatlantico negli ultimi, diciamo, quarant’anni? Un’università che spicchi e sia tra le prime cento nel mondo? Una disciplina industriale o un sistema culturale che ci veda all’avanguardia? chiudo l’articolo con una affermazione giusta ed intelligente tratta dal discorso del Presidente del Consiglio Comunale di napoli Marco Nonno: “Cio’ che serve in politica, come nella vita, è il pragmatismo, riconoscere la realtà per quella che è. Questo vuol dire essere competente”.