La storia dovrebbe insegnare


Oggi non pubblicherò nessun pensiero, nessuna statistica che potrebbe urtare i pensieri più puri, vorrei solo ricordare un piccolo grande momento di storia patria. Il 18 0ttobre ricorreva l’anniversario della battaglia di Zama o Maggarra, un lembo d Africa tra Tunisia e Algeria, il geniale Annibale contro l’ancor più geniale Publio Cornelio Scipione detto Africano. Mi domanderete ma perché proprio Zama? Ho la fortuna di avere una figlia che sta cominciando il suo percorso scolastico e insieme a lei sto riscoprendo cose che la mia mente aveva accantonato, riposte in un cassetto colmo di ricordi di storia patria traditi da un manipolo di manigoldi truffatori affaristi da quattro soldi, e in uno di questi incontri culturali in famiglia ho riscoperto questa fondamentale battaglia per la supremazia del Mediterraneo. Nel documentarmi sui fatti, cosa non tanto semplice, ciò che più mi ha colpito è stata la caparbietà romana, la volontà di un popolo di non arrendersi dinnanzi alle difficoltà, dopo le disastrose campagne militari su suolo italico, dove il mondo ha conosciuto il genio di Annibale Barca, che costarono la perdita di diverse legioni, e con i cartaginesi alle porte, nessun altro popolo avrebbe resistito come ha fatto Roma stesso popolo che impose al Senato di proclamare Scipione Console.
Questo grande stratega a volte un po’ sottovalutato, anzi offuscato dalla figura di Annibale, ma che durante la battaglia ha dimostrato di essere più geniale del suo avversario.
Ecco vorrei che i figli di quel popolo facessero fronte comune contro le avversità del momento e non dividersi o meglio farsi dividere da questi quattro politicucci in stupide fazioni che fanno male alla libertà. Prendiamo esempio da noi stessi voltiamoci dietro guardiamo alla nostra storia lì troveremo la soluzione ai mali che affliggono il popolo. Non affidiamoci a ricette che somigliano ad minestrone con un pizzico di buonismo, un cucchiaio di marxismo e due mestoli di sacrifici.
Con la vittoriosa battaglia di Zama, combattuta nel 202 a.C. un centinaio di chilometri a sud-ovest di Tunisi, Roma aveva chiuso la seconda guerra punica con una vittoria decisiva e definitiva. Cartagine, la grande città di origine fenicia, che col suo impero commerciale aveva per sessant’anni conteso a Roma il predominio sul Mediterraneo occidentale, era battuta, umiliata. Un trattato pesantissimo le imponeva di distruggere la flotta da guerra, rendeva soggetta alle decisioni del senato romano la sua politica estera e la obbligava al pagamento di un pesantissimo tributo che per cinquant’anni avrebbe gravato sulla sua economia. Mezzo secolo dopo ci sarebbe stata una terza guerra punica, culminata con la distruzione di Cartagine, ma si trattò più di una vendetta postuma da parte di Roma che di una conseguenza di un risorto pericolo cartaginese, che dopo Zama era definitivamente tramontato. Nei sessant’anni che era durato lo scontro con Cartagine tutto era cambiato. Il Mediterraneo, la Repubblica romana, lo stesso esercito di Roma non erano più quelli che avevano visto scoppiare le ostilità tra le due città per questioni di egemonia in Sicilia. Alcuni storici arrivano a sostenere, e non senza qualche ragione, che Roma, la Roma dell’impero, non sarebbe stata la stessa se non avesse avuto Cartagine contro cui lottare. Gli interessi della Repubblica nel corso delle guerre puniche si erano spostati; non più una politica limitata al controllo della penisola italica, partendo da una solida presenza nel Lazio e nell’Italia centrale, ma una vera e propria politica di potenza, col Mediterraneo come centro, l’Iberia come teatro e presto, molto presto, il Vicino Oriente dei regni ellenistici come obiettivo. La stessa classe dirigente romana era evoluta nel corso della guerra, era cambiata in profondità. Imbevuti di cultura greca e ellenistica, i leader di quella che sarebbe stata la nuova fase espansiva della Repubblica mal sopportavano le limitazioni imposte in patria dal mos maiorum, i costumi dei padri, e assieme al cosmopolitismo politico, di stampo ellenistico, aspiravano ad uno stile di vita più ricco, più internazionale ed elegante. Anche l’esercito era mutato, forse soprattutto l’esercito. Quello che Publio Cornelio Scipione portò alla vittoria sul campo di lama era solo in apparenza simile all’esercito che Annibale aveva duramente battuto a Canne. Le strutture organizzative erano rimaste le stesse: la legione manipolare, derivata dalle riforme camillane di più di un secolo prima, si articolava ancora sulle tre linee di bastati, principes e triarii, ma i soldati che la componevano non erano più gli stessi. Quello sconfitto a Canne era un esercito di cittadini, dilettanti della guerra, formato col nerbo dei piccoli proprietari terrieri di cittadinanza romana. Valorosi, certo, e avvezzi alle fatiche della guerra, ma utilizzabili solo per una singola campagna, stretti com’erano dalle necessità della vita quotidiana e impossibilitati a restare in campo per più di uno, massimo due anni. Quello di Scipione era, invece, un vero e proprio esercito di mestiere, formato da veterani induriti dalle campagne in Italia e in Spagna, anni di campagne che ne avevano fatto dei soldati e basta, disposti a restare nell’esercito per tutta la vita, non più legati al podere avito lasciato indietro nell’agro romano. Saranno uomini come questi, legati a Roma e ancora di più legati ai propri generali, da cui dipendevano per la vittoria e per la sopravvivenza medesima, che conquisteranno per Roma il controllo di tutto il Mediterraneo. Saranno uomini come questi a travolgere la potenza delle falangi ellenistiche, fino ad allora ritenute invincibili. Saranno, infine, uomini molto simili a questi che, nel turbine delle guerre civili di un secolo più tardi, segneranno la fine dell’antica Repubblica trasformata prima nel Principato poi nell’Impero. Con un po’ di forzatura storica, ma non troppa in ultima analisi, si può dire che il seme che conteneva la forma e l’ideologia di Roma imperiale era stato gettato in quell’anno 202 a.C., sul campo di Zama.
La battaglia di Zama di fatto, sancì la fine della potenza cartaginese nel Mediterraneo. Roma costrinse la città rivale ad una pace umiliante. La flotta da guerra doveva essere smantellata: solo poche decine di navi, infatti, erano consentite alla marina cartaginese dalle clausole del trattato; tutte le colonie cartaginesi in Spagna passavano sotto il controllo romano; la stessa politica estera di Cartagine doveva conformarsi a quella romana. Per paura della vendetta romana la città costrinse Annibale, il suo più grande figlio, ad andare in esilio presso il re di Siria Antioco III; dopo la sconfitta di quest’ultimo contro i Romani in Bitinia, Annibale si avvelenò per non essere consegnato a Roma. La sconfitta di Cartagine costituisce il primo elemento nella costruzione in quella egemonia romana, sul Mediterraneo dapprima, e molto oltre poi, che in qualche modo ancora segna la civiltà del nostro continente.