
Ma si facessero i fatti loro!
Il sito del magazine “New Yorker” ha recentemente pubblicato un articolo firmato da Ruth Ben-Ghiat, docente di Storia e Studi italiani presso la New York University, in cui si sottolinea come mentre in altri Paesi c’è stata una certa determinazione nel rimuovere i segni di un passato regime, in Italia molte di queste testimonianze sono state mantenute.
La giornalista si stupisce che in Italia siano rimasti e siano visibili diversi simboli di era fascista, da monumenti a scritte a opere architettoniche, e si chiede come mai non siano stati eliminati nel corso degli anni.
Questa ennesima provocazione va a confluire nel dibattito in corso negli Usa su statue e simboli del passato confederato, dibattito sul quale già ci esprimemmo a proposito della balzana idea di addossare a Cristoforo Colombo la colpa dello sterminio dei nativi americani, che ha portato molti dissennati a chiedere la rimozione delle sue statue e del suo nome da edifici e strade.
Ma il caso attuale ha sollevato numerose critiche anche da parte di chi non ama particolarmente il passato fascista dell’Italia ma che vede queste alzate d’ingegno di personaggetti arrabbiati come un’ingerenza indebita nella nostra storia e nella nostra cultura.
Forse le origini chiaramente semitiche dell’articolista l’hanno spinta a giudizi nei quali l’imparzialità non riesce certo a specchiarsi, vedendo nell’architettura del ventennio un’eco permanente delle leggi razziali. Forse la sua cultura – come quella di molti cittadini statunitensi – è ferma ai clichè tipo “pizza e mandolino” che spesso vedono gli italiani dipinti come dei somari un po’ sempliciotti pronti ad accettare la soma da qualsiasi padrone che gliela ponga sulla groppa. O forse, semplicemente, la visione della storia degli americani non può nemmeno confrontarsi con quella degli europei in generale né soprattutto degli italiani in particolare: un Paese la cui archeologia termina contemporaneamente alla defenestrazione di Praga non può nemmeno lontanamente concepire come le vestigia storiche siano per i popoli europei qualcosa che travalica sempre e comunque l’ideologia.
Altrimenti non si spiegherebbe nemmeno la sopravvivenza dell’Hermitage di San Pietroburgo alla furia bolscevica, dell’Alhambra di Granada al termine dell’epoca moresca o della torre di Kosovo Polje (costruita con le ossa di 77mila caduti serbi nella battaglia del 1389) durante l’invasione ottomana.
Ci sono poche eccezioni a questo: la distruzione della Bastiglia (un simbolo tra i simboli) o il progettato abbattimento della casa natale di Hitler, idiozia dettata più dal fastidio di patetici pellegrinaggi che da una reale necessità di ordine pubblico o di senso della giustizia riparatrice.
Invece l’autrice dell’articolo si perde dietro a domande retoriche e senza costrutto, del tipo: “Perché così tanti monumenti fascisti sono ancora in piedi in Italia?”.
In particolare, il riferimento al Palazzo della Civiltà Italiana all’EUR, noto come “il Colosseo quadrato”, suscita un senso di fastidio. La costruzione, universalmente riconosciuta come una mirabile opera architettonica degna rappresentante del periodo futurista che allora dominava la cultura italiana, viene descritta come “una reliquia di un’aberrante aggressione fascista”.
Ora, una domanda sorge spontanea: cosa ci vede di aggressivo la poveretta? Come può un edificio rappresentare un’aggressione? Capiremmo si trattasse di un monumento, ricco magari di simboli o di figure immortalate nell’atto di aggredire. Ma questo è un edificio, non un monumento: tant’è vero che nel 2015, dopo una costosa e per nulla distruttiva ristrutturazione, la casa di moda Fendi vi trasferì il suo quartier generale).
Ma la giornalista americana si lamenta che “lungi dal prendervi le distanze, in Italia viene celebrato come un’icona modernista” sebbene nel 2004 sia stato riconosciuto “sito di interesse culturale.
Curioso che non abbia lanciato anatemi sul monumento a Mussolini al Foro Italico, dove ancora oggi campeggia la scritta DUX, o sulla foresta del monte Giano, dove la stessa scritta fatta di arboree essenze è stata per metà cancellata dai furiosi incendî della scorsa estate (tranquilli: è monumento boschivo e verrà ripiantumata).
C’è da stupirsi che gli strali di questa signora non abbiano anche raggiunto l’arco eretto nel Foro Romano a memoria della guerra giudaica combattuta da Tito in Galilea!
Quel che ci chiediamo, al di là di considerazioni politiche, razziali o di costume, è semplicemente questo: quale ancestrale pulsione spinge gli americani a farsi sempre i fatti altrui? Da quando ci sono piombati in casa, ad Anzio e in Sicilia e poi su su fino a Milano, non ce li schiodiamo più. Tutto deve essere fatto sempre e solo con la loro approvazione e benedizione.
La costituzione italiana (come quella tedesca, d’altronde) è stata concordata con i nuovi padroni.
Abbiamo iniziato a vestire di rosso il nostro verde Babbo Natale perché così faceva comodo ai venditori di una famosa bibita, ci siamo fatti abbattere una funivia in Trentino e un funzionario dei servizi a Baghdad senza poter nemmeno portare alla sbarra i responsabili. L’unico statista dotato di attributi sufficienti a tener testa ad un presidente americano (leggi: crisi di Sigonella) è stato poco dopo fatto cadere in disgrazia e mandato a morire in esilio.
Non sarebbe ora di smetterla e di rispondere per le rime, almeno su questioni di piccolo cabotaggio come questa?
Dovrebbero capire, loro e tanti altri, che un popolo che distrugge le vestigia del suo passato è un popolo senza identità. Ma forse è proprio questo che vorrebbero farci diventare, per meglio somigliare a loro, anche con l’aiuto di chi propugna leggi che criminalizzano i portachiavi o che spalancano le porte ad un’accozzaglia di clandestini di cui la maggior parte si rivelano incompatibili con la nostra cultura e con la nostra società, se non addirittura malavitosi.
Per tutte queste ragioni, sarebbe veramente ora che gli americani in Italia incominciassero a considerarsi quel che realmente sono: ospiti, non padroni di casa; ospitati, non ospitanti; e imparassero finalmente a farsi i fatti loro!