Il terreno fertile per la corruzione


Nella Atene del IV secolo a. C., durante l’ultimo scorcio di democrazia, tra le mura della pòlis in cui Demostene scriveva e declamava con estrema convinzione le sue Filippiche, mettendo veementemente in guardia il popolo greco dall’invadenza del nemico barbaro, un oscuro macedone di nobili origini, giunse a fratturare l’equilibrio dei vertici politici attici, ancora una volta costretti a subire disagi per la presenza straniera.
Arpalo, figlio di Macata, di cui Filippo II aveva sposato una sorella e che comunque lo stesso sovrano non teneva in grossa considerazione, riuscì a guadagnarsi la fiducia di Alessandro Magno, del quale divenne tesoriere. Astuto e abituato a osservare più che a parlare, divenne un fidato collaboratore del conquistatore ma, essendo affetto da zoppia, non poté prendere parte alla spedizione organizzata contro i persiani, restando in Asia Minore a svolgere il suo compito di cassiere privilegiato. Avidissimo di natura, abbagliato dalle lusinghe generate dalle immense riserve auree su cui si ritrovava a vigilare, si macchiò del reato di peculato e, per non incorrere nelle ire del suo datore di lavoro, scappò in Grecia. Perdonato dal Grande (sinceramente difficile cercare di immaginare su quali presupposti), riprese le sue funzioni abituali di tesoriere oltreché di responsabile di 600 mercenari affidatigli insieme alla satrapia di Babilonia dove cominciò a dilapidare, in lussi, sfizi e donne, il patrimonio di cui avrebbe dovuto essere fedele Cerbero. Evidentemente colto di sorpresa dal ritorno del re, conscio dell’impossibilità di un secondo perdono, scappò a gambe levate con il seguito dei 600 mercenari e tutto il denaro che poté arraffare prima che Alessandro riuscisse a mettergli le mani addosso.
Siamo nel 324 a. C e le coste greche, ancora una volta, divennero la meta del singolare “disertore”. Stavolta non fu semplice, per Arpalo, ospite oltremodo indesiderato, in primis per provenienza, farsi accettare; dovette impiegare quasi tutte le riserve auree sottratte al sovrano macedone per corrompere una vasta platea di ateniesi in vista e influenti prima di essere accolto tra le mura del Pireo.
Sulla sua strada, però, proprio Demostene che, benché fervente oppositore dei filomacedoni, preferì adottare, nei riguardi del nostro, insieme all’ala meno intransigente del partito democratico, una linea di condotta più soft che portò alla confisca di ogni bene rubato. Il tesoro ritrovato fu affidato proprio al retore il cui comportamento non era però andato a genio ai suoi avversari di partito, prontissimi ad accusarlo di essersi impossessato di gran parte del bottino e di aver contribuito alla fuga di Arpalo verso Creta.
La giustificazione addotta dall’autore delle Filippiche di aver usato la somma mancante per portare a termine opere utili alla collettività (quel viso non mi è nuovo, avrebbe affermato il principe De Curtis) non servì a risparmiargli un processo, seguito all’accusa di corruzione, e la prigionia, che lo portarono, nonostante la cancellazione della sentenza è il riavvicinamento delle alte sfere ateniesi, al suicidio a Calauria nel 322 a. C.
In quanto ad Arpalo, venne ucciso, dai suoi collaboratori o, secondo fonti altre, da un tale Pausania, macedone, nel 323 a.C. Un altro macedone, di nome Filosseno, che si era precedentemente battuto perché il disonesto tesoriere fosse cacciato da Atene, riuscì a risalire, grazie alle confessioni dell’ultimo affidatario dei beni, ai nominativi dei personaggi corrotti dal denaro in questione, tra i quali pare non figurasse il povero Demostene.
Nello stesso anno della morte del fosco satrapo, terminò i suoi giorni terreni anche lo stesso Alessandro Magno e, con lui, il mondo di certezze e sicurezze della Grecia ritenuta classica, dei suoi sistemi politici e filosofici basati sull’unità della pòlis e sulla visione collettiva di un paese già quasi nazione che lo stesso re macedone aveva contribuito a minare.
Sintomatico che uno scandalo in cui si fondono i reati di peculato e corruzione, non privo di tracce di concussione, venga a segnare la fine del periodo aureo dell’Attica e faccia da spartiacque tra gli anni dell’unità e quelli della divisione coatta, del cittadino e dell’uomo, dei valori universalmente validi decantati dai vati e delle paure e degli interrogativi del quotidiano cui cercano di porre rimedio i “consigli” delle nuove dottrine filosofiche dell’ellenismo che, dalla vastità dell’iperuranio e della natura, scendono e si adattano a risollevare le anime perse e prive della guida e della protezione della città stato, fuori dalla quale esse si sono ritrovate, private di un ruolo proficuo, in una società frammentata, che non ne riconosce più la dignità civile e il ruolo politicamente fattivo all’interno della comunità.
C’è da dire che il malcostume della corruzione è rinvenibile nella società greca anche ben prima degli anni critici della minaccia macedone. Proprio ad opera di Pericle (che cercava il consenso del popolo organizzando feste e festicciole e commissionando opere monumentali con soldi pubblici) e proprio partendo dal rilievo e dall’onore che conferiva un ruolo politicamente attivo, si era creato un terreno oltremodo fertile per le lusinghe della corruzione, tramite le mistoforie, ovvero “paghette giornaliere” concesse ai bravi cittadini economicamente svantaggiati ma comunque desiderosi di fare politica (che venivano così ricompensati per il loro operato) le quali divennero, snaturando la carica ricoperta del suo originario carattere di gratuità ai fini del bene collettivo, anche un modo per comprare i voti.
Come scriveva Montesquieu (“Lo spirito delle leggi, VIII, cap. 2) “Il principio della democrazia si corrompe non soltanto quando si perde lo spirito di uguaglianza, ma anche quando si assume uno spirito di uguaglianza estrema e ciascuno vuole essere uguale a quelli che elegge per comandarlo…. omissis…..il popolo cade in questa sciagura quando coloro ai quali si affida, volendo nascondere la loro corruzione, cercano di corromperlo”.