La Caporetto del M.llo d’Italia Enrico Caviglia


Molto si è detto (oserei dire si è narrato) sui tragici eventi dell’ottobre 1917. Chi scrive ha avuto, negli anni della propria fanciullezza, il privilegio di poter ascoltare, a bocca aperta perché entusiasta dei “racconti di guerra”, dal proprio nonno paterno, le memorie, vissute, di alcune pagine della 1^ Grande Mondiale.
Ed ecco che appare la figura di Enrico Caviglia, Maresciallo d’Italia e poi uomo politico, sotto il cui comando operò mio nonno, che possedeva orgogliosamente un libricino di appunti e riflessioni, datato 1930, donatogli con dedica e scritto dallo stesso Caviglia.
L’allora Generale ebbe una grande parte nelle vicende della ritirata. Col suo XXIV Corpo d’Armata, piegando dall’Isonzo al Tagliamento, formò la copertura traversa sotto cui potè sfilare senza gravi danni la Terza Armata. Certo, gli errori del Comando Supremo raggiunsero un’evidenza inconfutabile: l’estremo rarefarsi della densità delle nostre truppe sulla sinistra isontina, l’assenza completa di ogni preoccupazione per l’aggravata situazione in seguito al crollo della Russia, la persistenza di un atteggiamento aggressivo pur nella mutata situazione, il tardivo ravvedimento, la fiacchezza nel far penetrare il nuovo concetto difensivo (tanto che il Comando della II Armata e, soprattutto, quello del XXVII Corpo d’Armata rimasero inclini ad audaci piani offensivi), il difetto di riserve, l’assoluta impreparazione morale dei reparti alla guerra difensiva ed a quella di manovra, che anche avvenimenti di altri teatri di guerra avevano reso prevedibili, erano fatti già noti. Ma nessuno, come il Caviglia, li aveva così vigorosamente rappresentati e documentati in quel citato libricino. Perciò, tanto più ingiusta appare l’accusa mossa alle truppe in un famoso (all’epoca) e deplorevole comunicato. Anche se il morale del soldato non era, né poteva essere, nel 1917, dei migliori, Caporetto fu una battaglia perduta per errori strategici.
Certamente il Maresciallo Caviglia, nei suoi commenti, non raggiunge la storia piena. L’informazione ed i particolari, decrescono man mano che ci si sposta dal XXIV Corpo d’Armata ai corpi vicini. Gli eventi militari sono rappresentati un po’ scarni, come sempre si raffigurano sulla tavola di un Ente superiore; certi contrasti di comando, specialmente nei confronti di Badoglio, Comandante del XXVII Corpo d’Armata, si presentano, allo stato, ancora come acerba polemica. Se il Caviglia avesse avuto più esperienza letteraria, avrebbe presentato il suo “racconto” da un punto di vista prospettico, di ricordi di un comandante nella battaglia di Caporetto. Ma anche con qualche squilibrio, il libro offre materia da meditare. Presenta, infatti, anche al profano, la vita interna delle Grandi Unità di guerra. Si apprende come il rigore della disciplina si attenui inevitabilmente nei rapporti con i comandi sovraordinati. E come il male si mescoli al bene: perché, altrimenti, si spegnerebbe l’iniziativa e la sincerità delle informazioni. Si avverte poi come in guerra tutto dipenda dalla delicatissima giuntura della politica col le Forze Armate. E’ indubbio che intervenendo a sproposito (come ancora oggi accade), la politica possa rovinare una missione bellica. Ma in certi momenti è, altresì, necessario che gli uomini di governo si assumano la responsabilità di giudicare i militari. In Francia, del resto, fu fatto, seppure con incertezze e oscillazioni, liquidando il Joffre e il Nivelle. Clemenceau osteggiò duramente il Maresciallo Foch. In Italia si ebbe paura degli eccessi ipercritici del nostro temperamento e si peccò in senso contrario.
Il Generale Cadorna avrebbe dovuto essere rimosso, come proponeva il Salandra, dopo le vicende trentine del 1916. L’ottobre del ’17 riprodusse, aggravati, gli errori di un anno e mezzo prima. Ci si irrigidì, invece, in una specie di religione cadorniana, come ci si ostinò, in politica estera, nella creazione di una religione sonniniana. L’acrisia costò cara come l’ipercritica. Tanto difficile è imbroccare la giusta via inter abruptam contumaciam et servile obsequium, avrebbe detto Tacito.