L’identità perduta


Ma l’Italia ha nemici? E chi sono? È vero, come voi dite, che ci facciamo del male molto bene già da soli, ma non mancano minacce globali. La nostra civiltà corre tre pericoli principali: l’aggressione del fanatismo islamico; l’invasione incontrollata dell’immigrazione clandestina di massa; la decadenza per stanchezza, nichilismo e denatalità. Ma cosa intendiamo quando parliamo di civiltà? Possiamo riferirci alla civiltà contemporanea, cioè al tenore di vita legato alla tecnica, facendo coincidere civiltà con civilizzazione; possiamo intenderla come la civiltà occidentale e identificarla con la libertà, la democrazia, i diritti dell’individuo; richiamarci alla civiltà europea, ossia quei valori, tradizioni, eredità che nella loro diversità sono uniti da una visione geopolitica e spirituale, una discendenza storica; possiamo riferirla alla civiltà mediterranea, greca, romana e cristiana; possiamo circoscriverla alla civiltà italiana, discesa dalla romanità e poi legata alla nostra tradizione nazionale, alla sua lingua e alle sue tappe salienti. Modi diversi benché spesso intrecciati d’intendere la civiltà, ma tutti messi in pericolo dai tre fattori prima indicati. Per arginare gli assalti del fanatismo e del terrorismo, per governare e frenare i flussi migratori incontrollati e per superare la nostra voglia di morte e declino, resta la difesa della civiltà delle nostre tradizioni. L’identità è il DNA di una civiltà, ciò che siamo per indole, eredità, storia e mentalità. E’ frutto della natura e della cultura sedimentata nei secoli. L’identità non è un fattore a sé, ma si accompagna a un processo che chiamiamo tradizione. Potremmo vedere l’Italia, cosi l’Europa, come un albero dove l’identità è la radice mentre la tradizione è la sua linfa. Oggi invece per affrontare il diverso, lo straniero e il nemico, tendiamo a cancellare la nostra identità, la nostra tradizione greca, romana, cristiana, ritenendola un ostacolo e una chiusura. Viviamo di illusioni opposte: siamo accoglienti nei confronti dello straniero e pronti a dichiararci aperti, senza confini né tabù, benevoli verso chiunque venga da fuori o vive al di fuori di quell’orizzonte identitario. Oppure viviamo di quell’illusione opposta: ci crediamo superiori perché loro sono legati ancora alle loro identità, alle loro chiuse superstizioni, mentre noi siamo globali, agiamo nel nome dei diritti umani, da cittadini del mondo, ci esprimiamo con il nostro tecnicismo. Invece l’identità è necessaria proprio per affrontare chi è differente da noi. Gli incontri sono possibili tra identità diverse non tra «nientità». Chi esprime la propria identità mostra il suo volto senza maschere, è leale, riconoscibile, non è disposto a barattare la propria cultura per la sopravvivenza. Chi ama la propria identità riconosce un valore positivo a qusta e dunque è in grado di rispettare anche quelle altrui, perfino del nemico. Chi dà valore all’identità alla storia alle tradizioni non deride le fedi, le culture e le tradizioni degli altri, non irride i simboli e i riti stranieri perché ne riconosce la loro importanza. Ciò non vuol dire armare l’identità e imporla agli altri; vuol dire farsi carico della propria tradizione e del proprio destino, senza necessità di rinnegarla ma di farla valere, offrirla. C’è un pregiudizio idiota che identifica la difesa della propria identità con il razzismo. È piuttosto il contrario: il razzismo sorge in contesti degradati, quando le tradizioni vacillano o sono perdute come, ad esempio, nella Germania immediatamente dopo la prima guerra mondiale. Sono le identità insicure o malvissute a favorire l’ossessione del razzismo, a contrastare l’altrui identità nel vano progetto di esaltare la propria. Chi ha una salda identità (si ascolti, ad esempio, il discorso del Duce a Bari nel 1934 quando, ammiccando ai popoli d’oriente, non si aveva paura di confrontarsi con le altre identità perché ci si sentiva italiani, non ha bisogno di riaffermarla contro qualcuno né di imporla, basta che gli sia riconosciuta e rispettata. Solo quando essa è posta a repentaglio diventa così necessario reagire in modo adeguato, ribattendo sul piano delle idee quando è attaccata da altre idee e rispondendo con le azioni quando è aggredita con le azioni. L’identità non è razzismo, ma il razzismo è il segno di un’identità al tramonto che sta lentamente morendo. Indro Montanelli, in un’intervista tratta dai ricordi di un giornalista italiano, verso la fine degli anni ’50 incontrò più volte il Generale Charles de Gaulle nel suo ritiro di Colombey-les-Deux Eglises. In uno di quegli incontri De Gaulle, parlando del nostro Paese aveva detto: “L’Italia non è un paese povero. E’ un povero paese“. Forse aveva ragione quel mangia ranocchi cisalpino? Non deve essere così e pertanto, con forza, dobbiamo ricordarci e ricordare ai borghesi ammalati di esterofilia senza limiti, ai capitalisti della globalità, a tutti gli stranieri ebbri di una pretesa supremazia di civiltà, che sono genti civili perché Roma li ha spogliati delle pelli di animale che li vestivano e li ha resi civili.