Pio IV dona Palazzo Venezia alla Serenissima


Autore ignoto – (Affresco, XVIII sec.) – Palazzo Venezia – Roma.

Questo straordinario affresco settecentesco, di autore ignoto, si trova sulla parete di fondo della sesta sala o Sala del Pappagallo dell’Appartamento Barbo a Palazzo Venezia, ossia le sette sale private del cardinale veneziano Pietro Barbo (1417-1471), costruite dopo il 1455 al costo di 15 mila scudi, che furono ulteriormente arricchite a seguito della sua elezione a pontefice, con il nome di Paolo II (1464-1471). Qui era custodita fra l’altro la sua celebre collezione di glittica, numismatica e oreficeria.
Stando al racconto del Maniglia, nel 1440, quando ancora non era titolare della chiesa, Pietro Barbo, nobile veneziano pronipote di Gregorio XII e nipote di papa Eugenio IV, vi andò ad abitare. Nel 1455, divenuto cardinale di San Marco, sistemò e riadattò l’edificio medievale, per poi farlo divenire alla sua elezione al soglio pontificio (1464) una residenza papale. Il suo appartamento privato alloggiato al piano nobile del palazzo s’affacciava sull’attuale Piazza Venezia, chiamata allora Platea Nova, e occupava quindi il fianco sud-est dell’edificio (Aristide Maniglia della Porta: “I papi veneti e i loro castelli in aria e in terra”, Saint Vincent, 1988).
Il nome della Sala si riferisce al pappagallo del cardinale veneziano – poi divenuto papa con il nome di Paolo II – che qui teneva l’animale esotico, a quel tempo estremamente raro e costoso. Anche allora alle classi benestanti piaceva sfoggiare animali rari e esotici, e il loro possesso era per lo più esclusivo di principi e pontefici; esiste infatti un’altra sala del pappagallo a Roma negli appartamenti vaticani di Niccolò V; oggi la sala è chiamata Sala dei Chiaroscuri e si trova all’interno dei Musei Vaticani.
Il papa utilizzava questa sala e la successiva (Sala dei Paramenti) ad essa adiacente per ricevere gli ospiti più fidati. La destinazione dell’Appartamento Barbo mutò in seguito della donazione del palazzo alla Repubblica di Venezia, nel 1564: le sette sale divennero la residenza degli ambasciatori della Serenissima . Nel 1921, quando il palazzo era già annesso al Regno d’Italia, lo storico dell’arte Federico Hermanin (1868-1953) vi allestì le prime sale del Museo del Medioevo e del Rinascimento. Di lì a poco Benito Mussolini ne fece la sede di rappresentanza del governo fascista. Qui si tennero anche le riunioni del Gran Consiglio del Fascismo, fra cui l’ultima del 25 luglio 1943.
L’affresco, realizzato nel XVIII secolo da un ignoto artista, raffigura Pio IV, pontefice dal 1559 al 1565, che benedice Monsignor Pasquale Crisafulli, prelato della curia catanese, il quale gli porge l’elenco dei sacerdoti siciliani che si sono macchiati di gravi colpe, come scoreggiare durante la Santa Messa, toccare le natiche alle donne durante la confessione o partecipare a messe nere e altri riti satanici per approfittare nell’occasione di giovani indifese. Ciò era uso, infatti, di una parte residuale del clero detta dei Neo-Fatalisti Flagellanti, che tanta parte ebbe nei moti rivoluzionari romani culminati nella congiura ordita da Bartolomeo Sacchi di Piadena, detto il Platina, in cui rischiò di cadere proprio Paolo II. La fatalità era di certo parte attiva di quei destini, tanto che volle anche che il pontefice si salvasse, seppure per un caso fortuito. Di fatalità parlano difatti pure il Boscovich, lo Sturlesi, il Castronovi Clementini Cispa, lo Strozzapaperi e l’Allungabrodo, tutta la crema cioè della critica militante nello sconfinato agone gnoseologico dell’Autogratificazione Chiropratica Reiterata, così brillantemente sintetizzata da Peppino Schiller (il fratello scemo del grande poeta) nella gnome: “Le seghe è meglio farsele ognuno per conto proprio” (Anacleto Maria Adelaide Strozzapaperi: “Cosa c’è per dessert? E altri interrogativi imprescindibili alle sogliole del terzo millenio”, in “Boll. della Soc. di St. e Ric. per la Compil. del Sist. al Superenalotto”, C.N.R., XXVI, 147-151).
Il sommo pontefice, nonostante lo spavento che gli aveva fatto sporcare lo strapuntino della sedia gestatoria, si interessò per capire le ragioni dei sacerdoti congiurati, i quali si autopunivano quotidianamente dei peccati infilandosi oggetti puntuti in ogni opercolo e provocandosi dolori lancinanti (da molti considerati la vera causa del loro astio nei confronti del mondo intero). Dovendo comunque infliggere a costoro una qualche punizione, il papa gli comminò la cosiddetta “scomunichina” della durata di quattro giorni e sei ore, la stessa prevista per altri peccati della stessa forza, quali i gargarismi con l’acqua benedetta, la vendita rateale di indulgenze e il tiro con la balestra contro le immagini di San Sebastiano. Nella bolla che accompagnava la mite punizione Paolo II così espresse tra l’altro le sue motivazioni: “… lo esser conscienti quam nihil est seguro ultra brevillimo laxo de tempore, lo expectare momentum fatale de lo tirar lo calzino, lo haber in culum sicute praxi cotidiana, est pauperum doctrina…” (Prof.sa Mary Quagliarulo O’Malley, detta “La voragine del Vermont”, “Peccatori, peccatrici e punizioni dal limite”, Arlington, 1992)
Il Papa, nel benedire il Monsignore, gli raccomanda tra l’altro di lavarsi con maggior frequenza le ascelle, il cui lezzo sta ammorbando l’intera ala del palazzo, tanto che gli alti sacerdoti presenti si tengono a debita distanza mentre uno di essi lo addita al collega mormorando contumelie nei confronti dl lercio individuo.
L’episodio fa il paio, quasi fosse un contrappasso, con quanto accaduto alla riunione dei genitori dei bimbi che frequentavano il catechismo alla parrocchia della Santa Vergine del Buliccio, allorquando il mi’ cognato Oreste giunse trafelato in tuta da lavoro, sporco come un camallo della Darsena Petroli, dopo essere stato fino a dieci minuti prima a stasare la fogna del condominio, tappata da un ammasso di carta igienica gettato per gioco dal bimbo del secondo piano nello scarico del WC. Gli altri genitori presenti, sensibili di narice, crearono immediatamente un vuoto intorno al pover uomo il quale, infastidito dal comportamento di quelle signore perbene e quei gentiluomini incravattati che giudicò oltremodo classista, guardandosi gli abiti lordi rispose piccato: “E saprete di fresco voi, che l’avete nel cervello!”.
Secondo alcuni critici, invece, l’affresco raffigurerebbe Pio IV mentre dona il palazzo a Giacomo Soranzo, ambasciatore della Repubblica di Venezia (cfr. Odoacre Cimmarusti, titolare della cattedra di Prestiti a Usura e Incravattamenti della Gente Perbene presso l‘Università di Ortona, nonché consigliere del Vescovo di Palazzolo, in AA.VV. “Dopo il Vasari la critica non è più una cosa seria”, San Giorgio a Cremano, 2017. Di lui si ricorda l’episodio che ne vide la morte, allorchè, scorgendo la moglie sull’altro marciapiede le andò incontro finendo sotto le ruote di un carro di letame. Nel sentire imminente la fine, sembra che le sue ultime parole, rivolte alla compagna di tutta una vita, siano state: “Ne’ Assunti’, pe’ cena me putesse fa’ ddoje maccarune co’ le cozze?” a testimonianza di quell’attaccamento ai valori più autentici della vita quotidiana che contraddistingue l’anima popolare partenopea – cit. Jervolino).