Chitarra Classica – Intervista a Antonio Grande


Antonio Grande, napoletano classe 1960, svolge, fin dai primi anni Ottanta, una costante attività concertistica in Italia e all’estero. Approfondisce collateralmente aspetti peculiari delle vicende storico-artistiche della sua città, a partire dal Settecento ad oggi. Ha pubblicato, per editori internazionali diversi cd, composizioni, trascrizioni ed elaborazioni per la chitarra, da sempre suo strumento, oltre ad alcuni scritti di argomento musicologico. Attualmente è docente di Chitarra presso il Conservatorio Giuseppe Martucci di Salerno.

WM: Ciao Antonello, grazie per il tempo che mi concedi. Ci parli un po’ di te? Dei tuoi inizi e degli insegnanti che hanno contribuito alla tua formazione chitarristica e musicale?

A.G.: Buongiorno Gianni, grazie per l’opportunità che mi offri di raccontare qualcosa dei miei esordi. Ho iniziato intorno ai sei anni lo studio del Pianoforte, Teoria e cenni di Storia della Musica con mia nonna materna Matilde Noquerol de Niquesa, classe 1897; si era diplomata al Conservatorio S. Pietro a Majella nel 1925 e poi aveva svolto per lunghi anni l’attività di insegnante privata: nonostante l’età ogni pomeriggio suonava Listz, Chopin, i suoi amati Vals Boston ed ascoltava musica. Mi portò al concerto di un grande pianista con l’Orchestra della RAI, credo Nikita Magaloff, in un Palasport gremito…oggi sarebbe inconcepibile pensare che oltre diecimila persone vadano ad ascoltare il Concerto in Mi minore di Chopin, anzi non esiste più nemmeno il Palasport, ma nel 1967 questo accadeva. Sempre con lei giravamo spesso per strade, monumenti e chiese di Napoli sviluppando quella curiosità storica che ancora oggi mi appassiona. Nella mia famiglia ci sono diversi musicisti professionisti e il dibattito su queste tematiche è costante.
La Chitarra è venuta anni dopo, intorno ai 14 anni: in campeggio in Calabria conobbi dei ragazzi romani, che avevano la chitarra…rimasi folgorato…una mattina non andai in spiaggia e rimasi tutto il giorno davanti alla tenda a suonare i primi accordi, le prime melodie. Da allora non ci sono state più interruzioni e tuttora continuo a investigare lo strumento. Poiché avevo già discrete conoscenze musicali, in poco tempo risalii la china ed ero in grado di suonare qualche trascrizione facile di Bach, Giochi proibiti, gli esercizi di Gangi, Le prime lezioni di Sagreras e l’op 50 di Giuliani. Il mio primo insegnante, per tutti gli anni del Liceo, è stato Giancarlo Sanduzzi, allora docente al Liceo musicale Cesi – Marciano, in via S. Brigida. Oltre allo studio classico in quegli stessi anni ero molto attratto dalla musica brasiliana di Jobim e Baden Powell e dai cantautori francesi; proprio in questi ambiti ho avuto le mie prime serie esperienze di palcoscenico alla fine degli anni ‘70, collaborando con i cantanti Gabriele Cini e Gino Mastrocola. Tuttavia queste esperienze hanno lasciato ben presto il posto allo studio paziente e totalizzante della chitarra classica, madre di tutti i saperi a sei corde; ho studiato e mi sono diplomato al Conservatorio S. Pietro a Majella con Francesco De Sanctis. Dopo il Diploma ho seguito molte masterclass di Oscar Ghiglia, Josè Tomàs e Roberto Aussel, ma il più significativo riferimento di quegli anni è stato Mario Gangi: con lui mi sono preparato a sostenere il Concorso per l’insegnamento nei Conservatori statali. Molto importante è stato anche l’approfondimento della musica antica e la prassi della chitarra barocca che ho studiato con Massimo Lonardi e Andrea Damiani.

WM: Vorrei un tuo parere sull’ importanza della cultura napoletana nella storia della chitarra.

A.G.: Napoli nel secondo ‘700 era per popolazione la terza metropoli d’Europa e la capitale incontrastata degli studi musicali, di riflesso questo blasone ha riguardato anche il nostro piccolo mondo, per la presenza in città dei liutai Vinaccia e Fabbricatore (che secondo lo studioso Thomas Heck avrebbe aggiunto per primo la sesta corda singola allo strumento) e dei chitarristi/compositori Moretti e Carulli; quest’ultimo regalò alla chitarra il gusto musicale di Cimarosa. Anche il grande liutaio Gaspare Trusiano, trasferitosi dalla Sicilia a Napoli a metà Settecento, mutò qui il suo cognome in Panormo e così è rimasto storicamente tramandato. Lo stesso Giuliani era considerato “napolitano” ossia proveniente per nascita e formazione dal Regno di Napoli…dunque possiamo dire – senza voler esagerare e non riconoscere i meriti altrui – che l’alba della chitarra classica italiana sia spuntata dietro al Vesuvio. Nel primo Novecento per contro lo strumento ha vissuto un momento meno fortunato, visto il gran seguito che incontrava il pianismo strabiliante introdotto da Thalberg. L’unica luce chitarristica di rilievo fu quella di Teresa De Rogatis che ancora bambina, proponeva programmi solistici arditi: Mertz, de Ferranti, e il gran duo per chitarra e pianoforte di Moscheles/Giuliani … ma negli anni Venti si trasferì al Cairo, dove riscosse un notevole consenso soprattutto didattico, per poi ritornare a Napoli solo negli ultimi anni della sua vita. Il secondo dopoguerra napoletano ha prodotto un professionismo chitarristico molto evoluto, ma non artistico in senso stretto, collegato soprattutto al mondo della canzone napoletana, al turnismo da sala discografica e alle orchestre ritmico/sinfoniche della sede RAI di Viale Marconi. Valga per tutti il duo Murolo – Caliendo, che ha girato il mondo, esibendosi finanche all’Olympia di Parigi. La verità è che la chitarra è uno strumento di frontiera tra il colto e il popolare, come testimoniano i grandi solisti di Flamenco, di Bossa Nova etc… Dal punto di vista compositivo accademico vanno citate alcune Opere importanti, difficili e ingiustamente poco eseguite come i Tre pezzi di Jacopo Napoli editi da Curci, Azulejos di Eleuterio Lovreglio edito su doppio pentagramma da Max Eschig e la Toccata di Terenzio Gargiulo edita da Berben. Di tutti questi (ed altri) brani ho effettuato la prima esecuzione assoluta in CD. Vanno infine ricordati i Racconti di Mamma Orca (1996) per Chitarra e quartetto d’archi di Roberto De Simone eseguiti in prima assoluta da Edoardo Catemario e il Concerto per Chitarra e piccola orchestra (1980) di Jacopo Napoli varato da Mario Gangi; tutte e due lavori sono editi da Ricordi.

WM: Oltre ad esibirti in qualità di solista, da anni suoni anche in coppia, ”Duo Minimo Ensemble,” con la bravissima Daniela del Monaco (contralto), formazione che ha realizzato diversi CD musicali dedicati alla storia della canzone napoletana. Sono antologie molto belle ed interessanti che percorrono un periodo storico molto ampio che va dal XIII secolo fino al XIX inoltrato.

A.G.: Fino ai trentacinque anni non avevo mai eseguito in pubblico qualcosa del nostro repertorio tradizionale, ma solo quello classico per voce e chitarra: Castelnuovo-Tedesco, Villa Lobos, Dowland, Giuliani, Sor etc. E’ stato decisivo l’incontro artistico e spirituale con Daniela che ha consentito a entrambi di slatentizzare l’amore incondizionato per la nostra Terra. Per due musicisti classici, già un po’ conosciuti all’epoca, è stato un passo rischioso approcciare musiche molto famose ma meno accademiche, che avrebbero potuto esporci a sommarie condanne di sottocultura musicale. Tuttavia eravamo (e siamo) talmente convinti della nostra lettura liederistica della canzone d’arte in lingua napoletana che non abbiamo avuto esitazioni e il riscontro di pubblico e di critica ci ha dato ragione. In oltre venticinque anni di attività ho realizzato un centinaio di elaborazioni originali per voce e chitarra, siamo stati ingaggiati da importanti associazioni musicali, soprattutto straniere, di mentalità aperta e abbiamo inciso nel 1999 un primo CD di Canzoni di fine Ottocento “Napoli in Canto” per l’etichetta parigina Opus 111: i dischi hanno avuto una distribuzione mondiale, li ho trovati persino al megastore Virgin di Times Square a New York. Poi sono venuti altri cimenti, soprattutto col grande repertorio Barocco di Pergolesi, Cimarosa e Paisiello, che ho trascritto direttamente dagli autografi orchestrali e pubblicato per l’editore Ut Orpheus, con notevole riscontro. Non vanno sottaciuti infine i brani contemporanei di amici compositori come Davide Summaria, Patrizio Marrone e Giacomo Vitale, che hanno musicato per noi testi di Viviani, Palomba ed altri. Il duo voce e chitarra sintetizza tutti i miei interessi musicali, storici e letterari, è per me un’oasi rigenerante. Due anni fa siamo stati scritturati dall’Associazione Maggio della Musica, diretta artisticamente da Michele Campanella, per realizzare il progetto Gouache: un ciclo di dodici concerti in tre anni, che tratteggiano, attraverso musiche e letture, un profilo sociologico di Napoli dal ‘700 alla seconda guerra mondiale. Purtroppo a causa del Covid, abbiamo potuto realizzare solo i primi due concerti, ma stiamo completando la preparazione del terzo, che si terrà a fine anno, probabilmente al Teatro Diana. Attualmente sto progettando inoltre, per completezza d’indagine, una pubblicazione di celebri canzoni napoletane per sola chitarra, sul nobile esempio di Miguel Llobet.

WM: Da molti anni insegni al Conservatorio di Musica “G. Martucci” di Salerno, quali sono gli aspetti peculiari che caratterizzano il tuo insegnamento?

A.G.: Quest’anno festeggio le nozze d’argento con il Conservatorio Martucci. Credo che un bravo didatta sia un sarto che lavori su misura: bisogna saper soppesare l’allievo e creare aspettative commisurate alle sue possibilità, affidandogli i brani giusti in ordine di difficoltà progressiva. Spesso il tetto che raggiunge con fatica una persona, rimane più basso del pavimento di partenza di un’altra, magari meno motivata o intelligente. Pur avendo un orientamento politico progressista, riconosco che l’Arte, il Talento, la predisposizione anatomica siano attributi individuali e per nulla democratici. L’importante per chi compie i nostri studi è che ci sia una vocazione sincera, ripeto spesso ai ragazzi che chi, ad esempio, abbraccia il sacerdozio non deve minimamente ipotizzare di diventare Vescovo o Cardinale, ma accettare con letizia una scalcinata parrocchia di periferia. Se non si compie questo preliminare atto di umiltà si fallisce in partenza; in ogni campo dell’agire umano il successo è una gratuità, forse una predestinazione, ma di certo non una condizione imprescindibile.
Ciò detto cerco di assecondare le potenzialità e il gusto di ciascuno, di migliorare, nelle mie limitate possibilità, il suo livello culturale generale, di dargli un metodo di lavoro per raggiungere dei buoni fondamenti tecnici, un’accuratezza polifonica, coscienza stilistica, un buon suono, spettro dinamico e soprattutto il senso della direzione della frase musicale. Non tutti sono nati per comprendere ed eseguire gli stessi repertori e dopo la fine degli studi ognuno deve presentare in pubblico ciò che gli riesce meglio, l’abito che più gli/le dona. Insegno in Conservatorio da circa trent’anni e tengo annualmente almeno due corsi di perfezionamento: il livello medio di oggi è molto cresciuto, ma non le possibilità di riuscita artistica. C’è una tale sovrabbondanza di offerta di video, dischi autoprodotti, docenti imbonitori che promettono miracoli, che spesso i ragazzi rimangono disorientati, non sviluppano una propria personalità e si accodano al conformismo imperante. I giovani chitarristi si esibiscono quasi sempre in anguste nicchie autoreferenziali, dove il pubblico prevalente è composto da altri studenti, insegnanti e liutai, che di solito si scambiano inviti a partecipare ai rispettivi micro-festival … è una dimensione miserella, talvolta disperante…non c’è eterogeneità tra domanda e offerta…è come se uno scrittore scrivesse libri per ricevere il plauso ed essere letto da altri scrittori. Il giudizio positivo dei colleghi/competitors, senz’altro gratificante, è forse il meno obbiettivo.
Per queste ragioni, da un certo punto degli studi in avanti, consiglio ai miei ragazzi di coltivare collateralmente al repertorio solistico anche quello da camera con altri strumenti e col canto, di studiare Composizione, di approfondire i risvolti musicologici di ciò che suonano, insomma di allargare i propri orizzonti e il giudizio critico, di viaggiare, di frequentare dopo il Diploma un’accademia di alto perfezionamento all’estero, di imparare bene almeno un’altra lingua…poi se son rose fioriranno, ma di certo non contribuisco ad alimentare la loro frustrazione. Già riuscire a vivere d’arte è un privilegio per pochi. Posso dire che quasi tutti i miei ex alunni lavorano come insegnanti di chitarra a titolo principale. Sono convinto che i giovani debbano dedicarsi per almeno quindici anni continuativi allo studio diuturno del repertorio solistico, per scoprire i propri punti di forza e le proprie debolezze e poi, da adulti possono fare proficuamente altre esperienze artistiche di qualità. Ad esempio ho trovato di grande arricchimento suonare le parti di chitarra in orchestra nelle Opere liriche di Rossini, Donizetti, Verdi e Weill; all’apparenza sembra facile, ma ci vuole una grande esperienza e saldezza emotiva. Proprio in questi giorni un mio ex allievo di grande talento, già vincitore di diversi Concorsi internazionali, Valerio Celentano, sta collaborando con l’Orchestra del Teatro Verdi di Trieste alla realizzazione di un’Opera in due atti di Nicola Piovani, mentre un altro, Giuseppe Cairone, ha eseguito una sua elaborazione del Volo del Calabrone di Korsakov nella colonna sonora del nuovo film di Gabriele Salvatores “Comedians”. Pur essendo attività collaterali, danno grande soddisfazione e arricchimento culturale.

WM: Hai realizzato nel 2008 un interessantissimo lavoro dedicato alla vita musicale napoletana del Novecento, da questo lavoro ne è scaturito un libro: “La chitarra a Napoli nel Novecento”.

A.G.: In verità volevo realizzare un CD di musiche di Compositori napoletani nati nella prima metà del Novecento e già deceduti, per non fare torto a nessun contemporaneo…ma accingendomi a scrivere delle note per il libretto, mi sono accorto che le cose da dire erano talmente tante, che era meglio invertire la prospettiva e fare un libro con CD allegato. Il volume è stato pubblicato da Alfredo Guida editore, che purtroppo oggi a causa della crisi del libro, non esiste più, ma è ancora reperibile in rete, per chi volesse leggerlo. Naturalmente si è trattato di un’operazione lunga e costosa, che ho potuto realizzare solo grazie al generoso contributo della Provincia di Napoli, che all’epoca finanziava progetti culturali aventi ad oggetto Napoli. Una Storia la si può raccontare o retrospettivamente a cent’anni di distanza dai fatti, o a caldo, citando situazioni e personaggi dei quali si è avuta spesso una conoscenza diretta. In questo secondo caso si rischia, forse, di essere meno imparziali, ma si lascia una traccia vivida, che potrà in seguito essere approfondita e migliorata da altri studiosi.
Il libro contiene un catalogo delle opere solistiche e cameristiche dei compositori partenopei per nascita e/o formazione, l’indicazione, ove rintracciabile, della prima esecuzione pubblica e dell’interprete. Note introduttive sui vari periodi: il Novecento storico, il secondo dopoguerra, gli ultimi decenni del Secolo breve. Un corredo fotografico di oltre cento immagini di programmi di sala, recensioni a stampa, foto dei protagonisti. Un capitolo a parte è dedicato ai chitarristi/compositori, che hanno copiosamente prodotto più partendo dalla conoscenza dello strumento che da un’astrazione estetica. Sono stato aiutato in questo ampio lavoro di ricerca da vari autorevoli operatori del settore: mia sorella Tiziana, bibliotecaria presso il Conservatorio S. Pietro a Majella, la pianista Pina Buonomo, la storica della musica Daniela Tortora, la dottoressa Tommasina Boccia, della Soprintendenza ai beni archivistici, il mio ex insegnante Francesco De Sanctis, l’appassionato musicofilo Enrico Tellini, solo per citarne alcuni. È stato un esaltante viaggio nella vita musicale napoletana, che ripeto, consentirà ai ricercatori del futuro, di non partire proprio da zero nella ricostruzione di questo microcosmo. Alla fine del volume ci sono poi le Conversazioni che ho avuto con vari protagonisti: i concertisti Mario Gangi (forse la sua ultima intervista), Aniello Desiderio, Jyrki Mullärinen, i liutai Calace, Marseglia, Battelli, i didatti Stefano Aruta e Francesco De Sanctis, i cordai Nicoletta e Tommaso Galli. Avrei voluto includere ancora tante altre voci, ma avevo dei precisi limiti editoriali, già così il volume raggiunge pressappoco le duecentocinquanta pagine. Il CD allegato contiene poi la prima registrazione assoluta di Opere solistiche di Mazzotta, Calbi, Di Lorenzo, Lovreglio, Napoli, Giuranna, Cece, Gargiulo: tutti compositori non strumentisti.

WM: La chitarra è uno strumento dalla doppia anima, una popolare, spesso associata al canto, l’altra aristocratica, colta. Questo dualismo divide ancora oggi schiere di chitarristi.

A.G.: Sicuramente la chitarra, lungo tutto il suo arco storico è stato contraddistinta da questa ambivalenza di strumento cortigiano, più tardi borghese-salottiero da un lato e plebeo da taverna dall’altro. Nel Novecento poi c’è stato l’exploit della chitarra amplificata, che ne l’ha resa protagonista assoluta del Rock, del Blues, del Jazz. È stata inoltre lo strumento dei Folksinger e dei Cantautori di tutto il mondo. Ho già accennato al Flamenco e alla Bossa Nova. Tuttavia ritengo che la formazione di base debba necessariamente avvenire attraverso lo studio dei grandi classici di inizio Ottocento, un po’ come accade per la Danza. Trovo sbagliata e fuorviante la recente tendenza ad aprire nei Conservatori cattedre di Pop Rock, Finger picking et similia: sono stili che un tempo si vantavano di essere contestatari, anti accademici e improvvisativi, ossia l’esatto contrario della tradizione interpretativa della musica scritta su pentagramma, che si insegna da secoli nelle nostre scuole. Te l’immagini il chitarrista dei Led Zeppelin con il Diploma di chitarra rock incorniciato in salotto? Chiarisco che il Rock a me piace molto da ascoltatore, ma dovrebbe essere insegnato in altre sedi, come fanno nei paesi anglosassoni, per non ingenerare pericolose confusioni. L’attuale ordinamento di Studi si basa su un Triennio + un Biennio specialistico; credo che il Triennio dovrebbe essere comune per tutti, secondo programmi tradizionali e poi, eventualmente, poter scegliere nel Biennio qualche esame attinto da differenti ambiti disciplinari. Tante volte poi chi è stato attratto da altre musiche, col tempo fa il percorso del gambero e ritorna sui suoi passi, accorgendosi magari che con Bach si raggiungono le vette più alte dell’esecuzione musicale.

WM: Nel tuo percorso di studio hai anche approfondito gli studi di Armonia e Composizione con il Maestro Bruno Mazzotta, tra l’altro ti ha dedicato anche una sua composizione. In cosa ti ha arricchito questo percorso?

A.G.: Sono stato allievo per oltre sette anni del Maestro Mazzotta, che mi appariva come un gentiluomo d’altri tempi, burbero e severo. Devo dire che non aveva una grande considerazione di altri allievi di chitarra che prima di me avevano intrapreso con lui lo studio della Composizione e così all’inizio ho faticato un po’ per ottenere la sua stima, ma poi ci siamo piaciuti. Schivo, sempre pronto a minimizzare i suoi ampi saperi, soprattutto in materia di Contrappunto. Si sentiva un artista stilisticamente superato, ma non riusciva a piegarsi alle mode dei suoi anni tardi. Proveniva da una vecchia scuola di regole e disciplina, di molti fatti e poche chiacchiere: le regole dovevano essere ben apprese e osservate, per poi eventualmente essere disattese da adulti. Quando cominciai a prendere confidenza con lui, gli chiesi se volesse scrivere un brano per chitarra sola…in verità la chitarra elettrica solista l’aveva già impiegata in un suo lavoro sinfonico Un homme est mort eseguito all’Auditorium RAI di Napoli da Umberto Leonardo…silenzio…dopo alcune mie insistenze, senza parlare, come era sua abitudine, prese il trattato di Orchestrazione di Berlioz e mi lesse il passo in cui si sconsigliava a chi non conoscesse a fondo questo strumento di scrivere cose che potevano risultare o troppo difficili o troppo banali…allora capii e ci misi una pietra sopra, per anni non ne abbiamo parlato più.
Fu grande la mia meraviglia quando nel torrido luglio del 1999 ricevetti una telefonata con la quale mi invitava a casa sua a leggere il manoscritto di un lavoro per chitarra sola che aveva appena ultimato. Alla fine della telefonata sudai freddo perché Mazzotta aveva una lettura a prima vista prodigiosa: eseguiva al pianoforte da solo intere Sinfonie, aiutandosi col canto e finanche con i piedi per fare le percussioni e temevo di fare brutta figura. Ma non mi potevo sottrarre e cosi andai…per fortuna la tessitura del brano era molto acuta, nel registro del Violino e così diverse cose risultarono ineseguibili. Gli consigliai di trasportarlo nel registro più confacente della Viola e così fece, ma per fortuna la seconda stesura mi venne recapitata a casa da un corriere e così l’ho potuta studiare bene prima di fargliela ascoltare. Questo complesso brano ha un titolo proustiano “Recherche n.2” (piccola suite barocca per chitarra) e si compone di tre movimenti. Il 14 febbraio del 2000 ne ho dato la prima esecuzione all’Istituto spagnolo Cervantes di Napoli alla presenza dell’autore e nel dicembre dello stesso anno l’ho registrato in studio e portato ad ascoltare a casa del Maestro, come regalo di Natale. Pochi mesi dopo, sarebbe scomparso e ho ragione di credere che questa sia stata l’ultima opera che abbia composto.
Posso dire che Bruno Mazzotta mi sia rimasto nel cuore come esempio di dedizione alla sua Arte e di onestà intellettuale, tra tutte le persone da cui ho appreso, la considero la più affine ed importante.

WM: Sei tra quelli che ha avuto la fortuna di ascoltare dal vivo il grande Segovia, da allora come è cambiato il mondo della chitarra?

A.G. Ho ascoltato Segovia, ormai vecchissimo, al Teatro Sistina di Roma nel 1985. Negli ultimi anni entrava in scena appoggiato a un bastone, che nelle sue mani sembrava quasi uno scettro. Poi una volta sedutosi, un assistente gli porgeva la chitarra. Eseguì un repertorio di pezzi brevi, che la sua memoria ancora riteneva: ogni tanto qualche incertezza, ma anche qualche guizzo della tigre di palcoscenico che era stato. Concludeva il concerto dicendo che se c’era stato qualche intoppo, la prossima volta sarebbe andata meglio…e il teatro gremito crollava di applausi. Segovia è stato una icona, un faro per la chitarra, che si è spinta dove mai era arrivata prima e forse non tornerà più; era un gran personaggio carismatico sul palcoscenico e nella vita. Dei numi tutelari del nostro strumento ho ascoltato due volte Yepes, dalla tecnica inarrivabile: entrava in scena con quel decacordo alto quasi quanto lui; quando suonava da dietro la cassa spuntavano solo le mani e la testa pelata con i grandi occhiali. Peccato che sia morto relativamente giovane, ma ha lasciato registrazioni memorabili soprattutto dei Quintetti di Boccherini e del più recente repertorio iberico di Bacarisse, Ruiz Pipò etc. Ancora ho ascoltato Bream, un musicista visionario dalle grandi intuizioni interpretative, Ghiglia, naturalmente, con il quale ho studiato per diversi anni, Maria Luisa Anido, che col suo tremolo dinamico ti faceva immaginare il rollio delle barche all’ormeggio, Mario Gangi, l’unico che riusciva a conferire alla Grande Ouverture di Giuliani un senso di crescendo vagamente rossiniano e poi tutta la nuova generazione da Fisk, a Barrueco, Mikulka, Russel, Aussel, Pierri, il duo Assad. Negli anni 80 e 90 del secolo scorso tutto lasciava presagire che si avverassero per la chitarra le leopardiane “magnifiche sorti e progressive”, ma non è stato così…lo strumento è un po’ passato di moda, i concerti sono diminuiti e i solisti sono diventati più pedanti, prevedibili nel modo di suonare fin troppo pulito e ipercorretto, ma poco comunicativo. I programmi sempre più dettati da velleità musicologiche, ma la chitarra non è il pianoforte e Ponce o Tansman non sono Beethoven, da consentire concerti monografici. Credo che il nostro strumento, così come il clavicembalo, il liuto e l’arpa debba presentare in recital proposte varie e accattivanti per sopperire a una certa intrinseca staticità e povertà sonora…mi auguro in tal senso un ritorno al passato: programmi senza eccessiva prosopopea, magari tripartiti come li faceva Segovia, molto assortiti e colorati. Voglio concludere questa carrellata di grandi solisti conosciuti ricordando un episodio personale del festival di Bardonecchia del 2005: in albergo mi chiama al telefono Senio Diaz e mi invita in camera sua e del padre Alirio a fare una suonatina fra amici…fu un pomeriggio bellissimo e Alirio Diaz ultraottantenne, seduto sul letto ancora ci sorprendeva con la freschezza dei suoi valzer venezuelani.

W.M.: Siamo giunti alla fine di questa bella chiacchierata, grazie per il tuo contributo a Weekly Magazine. È stato un enorme piacere per me averti rincontrato.

A.G.: Grazie di cuore a te e a tutta la redazione.