11 settembre 2001: né onore né gloria


E’ difficile non sapere dire qualcosa, qualunque cosa, sulla data dell’11 settembre 2001.

Ma, al di là del racconto in sé, ci sono delle premesse che vanno fatte per circostanziare meglio, almeno in via superficiale, le cause per le quali si è arrivati a tanto e vale la pena fare delle considerazioni sulle conseguenze che questo storico giorno ha comportato (o, per lo meno, tentare di capire se talune politiche estere siano fruttuose ed eticamente accettabili).

Senza alcuna pretesa di raccontare la storia o, tanto meno, di averne l’unica chiave di lettura possibile, ancora di più visto che si tratta di avvenimenti recenti, sembra però opportuno tentare di capire qualcosa al di là del solito stereotipo americani buoni – afghani cattivi.

Del resto anche al cinema lo stantio cliché americani buoni – pellerossa cattivi è stato rivisitato e forse, come si dice a Roma, alla fin fine il meno peggio ha la rogna.

L’attacco dell’11 settembre alle torri gemelle, molto brevemente, si sintetizza nella volontà ciminale di un’organizzazione terroristica islamica – denominata Al-Quaeda – di colpire le Twin Tower e il Pentagono, veri simboli del potere economico e militare degli USA, la nazione che più di ogni altra si spendeva come poliziotto del mondo, in risposta alla presenza statunitense nel loro paese.

Ed in effetti gli americani il ruolo di poliziotti del mondo se lo sono auto assegnato sin dal termine della seconda guerra mondiale, soprattutto per coprire gli enormi interessi economici alla base della loro politica internazionale.

Ovviamente l’11 settembre 2001 fu e resta una storica giornata di atti esecrabili tanto più perché doveva risultare ovvio agli stessi terroristi che progettarono i raid che le vittime delle torri gemelle sarebbero state numerose e tutte civili.

Non si può, anche solo per un momento, giustificare il terrorismo (ci mancherebbe) ma è altrettanto ingenuo pensare che possa esistere un mondo costituito da una comunità di stati dove ognuno non cerchi di tirare l’acqua al proprio mulino con una politica più o meno aggressiva.

I terroristi afghani facevano parte di questi meccanismi geopolitici internazionali e gli americani, come la storia evidenzierà, avrebbero avuto più di un motivo per recitare il mea culpa.

Al-Quaeda, nome che si dice fosse quello dei campi di addestramento dei suoi adepti (Al-Qaeda significa “base” nel senso di elemento fondante), era un’organizzazione nata ai tempi della guerra tra Unione Sovietica e Afghanistan. Dunque, ed è un elemento importante, Al-Quaeda era nata significativamente prima dei fatti dell’11 settembre 2001.

Ecco, facendo le debite e dovute differenze (non saltino sulle sedie gli ingenui che credono che i giusti siano sempre da una sola parte, guarda caso quella dei vincitori…), potremmo definire questa organizzazione come la resistenza afghana che, con atti di guerriglia, si opponeva all’occupazione del paese da parte delle truppe invasori (in quel momento, come detto, si trattava dei sovietici).

Ma Al-Quaeda, secondo l’ex-ministro degli Esteri britannico Robin Cook, era anche il nome del data base che la CIA utilizzava come rubrica dei mujāhidīn che combattevano contro l’URSS.

Circostanza curiosa e maliziosa … vero? Gli Stati Uniti che, tramite la CIA, sovvenzionano segretamente gli oppositori all’Unione Sovietica creando un’organizzazione terroristica che poi si sarebbe rivoltata contro loro stessi e l’occidente…

Facendo mente locale ad altre vicende simili, dalla mafia (con cui gli USA fecero accordi per favorire lo sbarco in Sicilia durante la II Guerra Mondiale) a Gheddafi in Libia, passando per Saddam Ussein e l’Iraq, un dejavu storico.

Terminata l’avventura sovietica in Afghanistan nel 1989, paese impervio che nessuno esercito moderno è mai riuscito davvero a conquistare (o anche solo a controllare), le parti pian piano si sono invertite.

A un certo punto accadde che Ussein, un tempo visto ascendere come leader in Iraq per controbilanciare la gerenza Sovietica in Iran senza particolari perplessità etico morali da parte degli USA, si pose fuori dal controllo degli USA che fino ad allora lo avevano lasciato fare e, nel tentativo di imporsi come leader pan arabo, in contrapposizione agli interessi diretti degli stessi Stati Uniti, tentò di annettere il piccolo ma facoltoso stato del Kuwait allo scopo, tra l’altro, di garantire all’Iraq un conveniente sbocco a mare per i loro oleodotti.

Non fu certo una cosa eticamente giusta invadere il Kuwait ma molte altre cose non erano state giuste in Iraq (basta ricordare la guerra coi Curdi, addirittura portata avanti a colpi di gas nervino) senza che la comunità internazionale, spinta dagli USA, fosse intervenuta.

La proditoria invasione del ricchissimo emirato Kuwaitiano invece, evidentemente più del genocidio del poverissimo popolo curdo, fu sufficiente a scatenare la “desert storm”, ossia la prima guerra del golfo (siamo nel 1990).

Pochi mesi dopo, praticamente al termine di questa prima invasione dell’Iraq, gli USA compresero che non potevano più contare sulla marionetta Saddam e furono costretti a presidiare direttamente, e in modo massiccio, l’area medio orientale per tutelare i propri interessi. Da sostenitori dei mujāhidīn in un’epoca, neppure tanto lontana, della guerra sovietico-afghana ecco che gli Stati Uniti divennero il nemico numero uno per Al-Qaueda il cui capo a quel tempo era lo yemenita Osama bin Laden.

In questo clima di ribaltamento delle parti, tuttavia, mai gli USA avrebbero immaginato che gli afghani potessero concepire un attacco terroristico così ardito e plateale cosi come poi fu l’attacco alle Twin Towers e al Pentagono.

Lo dimostra le procedure di sicurezza negli aeroporti all’epoca, ben più all’acqua di rose di oggi, quando i passeggeri potevano portare quasi di tutto al seguito come bagaglio a mano.

L’11 settembre 2001, dirottando ben quattro aerei di linea americani, 19 terroristi – non sfugga il particolare che coloro che pilotarono gli aerei fino a schiantarsi sui tre dei quattro obiettivi prefissati si erano addestrati al pilotaggio proprio negli USA – colpirono con successo le due torri del World Trade Center e il Pentagono. Il quarto aereo invece, inizialmente diretto verso Washington (è lecito ritenere che si volesse colpire la Casa Bianca), precipitò in un campo in Pennsylvania a seguito della rivolta dei passeggeri.

Migliaia di litri di carburante areonautico scatenarorno incendi tali nelle Twin Towers da farle cedere sotto il loro stesso peso causando la morte di migliaia di persone bloccate ai piani alti. Ancora vivide sono le immagini di chi, in preda alla disperazione, si lanciava nel vuoto dai quei grattacieli nel vano tentativo di salvare la vita.

Delle circa 3000 vittime costituite da coloro che affollavano gli edifici, i viaggiatori a bordi degli aerei, i valorosissimi vigili del fuoco (instancabili nelle loro azioni di salvataggi) furono pochi i corpi completamente recuperati e oggi ricordiamo le vittime grazie ai nomi incisi nel memorial poi realizzato a Ground Zero, l’area in cui sorgevano le torri gemelle.

Tremila vittime che gridavano vendetta, se non altro per lenire lo smacco planetario subito dalla super potenza per antonomasia messa in ridicolo da un pugno di montanari afghani. L’occasione venne poi colta, con grande risalto mediatico, con l’uccisione di Osama bin Laden nel 2011.

Si dice, e con ragione, che dall’11 settembre 2001 il mondo cambiò per sempre.

Infatti da quella giornata di venti anni fa, l’Occidente seppe di non essere più al sicuro: in qualunque momento poteva essere raggiunto e colpito dal terrorismo islamico fondamentalista sfruttando gli stessi elementi tecnologici che, quotidianamente, ne caratterizzano la vita.

Aerei, camion e furgoni, come poi si rese evidente in Europa, potevano essere usati come armi per falcidiare inermi civili, e così simbolicamente colpire le nazioni (Francia e Inghilterra in testa) alleate degli USA e corresponsabili, secondo il giudizio dei terroristi, della occupazione delle loro terre d’origine.

Volendo tirare le fila del discorso, andando come promesso in apertura di articolo un po’ più in profondità della sola scorza insegnata nelle scuole, da queste vicende si può forse intravedere l’inadeguatezza della politica estera americana che poi, volenti o nolenti, diventa anche la nostra. Una politica estera basata sul concetto di “usare e abbandonare”, fatta di “creazione e manipolazioni di entità di cui poi si perde il controllo” o che, come recentemente proprio in Afghanistan, non si fa problemi etici e morali di lasciare un paese allo sbando dopo averlo profondamente destabilizzato.

Spegiudicatezza internazionale, vere e proprie scommesse d’azzardo sul piano geopolitico e militare che la storia ha ripetutamente bollato come perdenti ma da cui l’Italia, che certo non condivide esattamente gli stessi interessi degli Stati Uniti (agli alleati minoritari, al di là delle belle parole spese nelle occasioni di rappresentanza, solitamente è concessa solo l’illusione di potere sedere al tavolo dei vincitori), sembra che non abbia imparato molto.

I fatti dei giorni scorsi in Afghanistan possono corroborare questa tesi meglio di qualunque discorso e, in definitiva, è noto a tutti che i fondamentalisti islamici hanno ripreso il potere imponendo nuovamente le loro leggi alla popolazione e noi occidentali siamo andati via paghi e tronfi non si sa di cosa.

Sinceramente è difficile argomentare che la crisi mondiale che è scaturita destabilizzando il medio oriente sia valsa a qualcosa. Non si riesce a capire bene a cosa mai possano essere serviti tutti i sacrifici, i soldi spesi e, soprattutto, le morti dei nostri soldati. Per sradicare il terrorismo islamico? Beh, non ci siamo riusciti. Per esportare il nostro modello di democrazia in paesi che hanno storicamente una diversa premessa culturale e non lo gradiscono? Abbiamo fallito. Per imporre il rispetto dei diritti fondamentali come noi li concepiamo? Non ci siamo riusciti (anzi…). Per speculazione, al fine ottenere un maggiore nostro benessere economico dall’economia del petrolio? Beh, anche su questo argomento la crisi che impazza in Europa da oltre venti anni dice di no.

Insomma, a ben vedere, questo tipo di politica estera aggressiva, supponente e poco rispettosa delle culture altrui si è rivelata un fallimento su tutta la linea. Anche per gli stessi americani a meno di considerare che, in questo ultimo mezzo secolo di conflitti in giro per il mondo, hanno potuto svecchiare i loro arsenali e provare sul campo nuove tecnologie militari.

Volendo ora restringere il campo del discorso ai diretti interessi italiani, a consuntivo si può forse dire che non abbiamo guadagnato né il vantaggio politico d’aver mantenuto una superiore imparzialità in queste losche vicende geopolitiche né conseguito alcun tornaconto sul piano economico (anzi…).

Forse allora è proprio vero che l’11 settembre 2001, oltre alla vicenda in sé, significa né onore né gloria.