Disgusto italiano


Il male che è nel mondo viene quasi sempre dall’ignoranza. Esistono fatti, che indipendentemente da ogni ideologia, lasciano interdetti, attoniti, disgustati.
Nel 1926 Mussolini si faceva pubblicità dicendo: ”Se avanzo seguitemi, se indietreggio uccidetemi, se muoio vendicatemi!”.
Presentava alle sue folle la propria morte come un delitto da vendicare e, quindi, come interruzione violenta della sua immortalità. Il messaggio che egli lanciava alle masse, occultato nella retorica della frase, poteva essere letto come: “Il Fascismo sono io!”. Ed era così.
Eroico guerriero delle trincee del Carso, sopravvissuto alle mortali ferite, mentre offuscava, con la sua figura luminosa, la maschera stantia di un minuscolo ed esangue Vittorio Emanuele III, il “Re sciaboletta”, Benito Mussolini, con il suo cranio pesante, le mascelle di marmo, gli occhi neri sotto una fronte alta e le sopracciglia minacciose, nell’immaginario collettivo degli italiani, aveva assunto il ruolo di “pantocratore”, inviato dalla provvidenza.
Aveva il piglio del tribuno e del giornalista col moschetto, guidava motociclette ed aeroplani, andava a cavallo, si tirava su le maniche per impugnare il piccone o per far sue le donne più belle, mentre la moglie cucinava tortellini e badava ai figli. Incarnava, insomma, il sogno innocente e “scaciato” di tantissimi, chiamati ad alzare la testa verso il balcone di Piazza Venezia, di contadini analfabeti trasformati in “genti italiche”.
Allora, visto che il Duce fa così mostra di sé lassù, i gesti del protagonista si fanno ampi, le espressioni del corpo tanto eloquenti da lontano quanto “gigione” da vicino, la voce viene “portata”, le frasi sono ad effetto, secche e memorabili. Un Mussolini virtuale che si oppone a quello vero. Per venti anni, dopo la marcia su Roma, il corpo del Duce è stato amato, perdutamente amato dalla maggioranza degli italiani. Il carisma personale di Mussolini ha costituito la chiave di volta del consenso popolare al regime.
Ricostruire la storia del suo corpo, sia quando era in vita (nel fascismo) che quando era cadavere (nella repubblica), è senz’altro un modo lecito ed intelligente per inquadrare un’epoca e mettere a fuoco una cultura. La storia di un corpo prima idolatrato forsennatamente, poi, altrettanto forsennatamente vilipeso e deturpato. Fino alle alterne vicende della guerra e soprattutto fino alla sconfitta militare in Russia, è un corpo da esibire come simbolo di potenza, è un corpo che cresce e si fa statua.
Poi, quando si incominciano a contare i morti e ci si avvicina alla disfatta, la stella di Mussolini piomba precipitosamente nel buio degli incubi. Contro di lui aumentano, di giorno in giorno, gli insulti e le speranze di vederlo morto. Insulti che erano quasi tutti diretti ad un corpo che aveva perduto la propria salute, che si era perfino gravemente ammalato. Mussolini viene vigliaccamente “cadaverizzato”, la decadenza politica diventa decadenza biologica. Liberarsi politicamente del fascismo ed uccidere il Duce hanno lo stesso significato.
I grandi magazzini UPIM sono la sigla di un sogno impossibile: “Uniamoci Per Impiccare Mussolini”. Nascono canzonette oscene, violente, vendicative, non certo dissimili dai cori, giudicati tanto volgari, imputati agli squadristi fascisti: “Se donna Rosa per divina luce/ la sera in cui fu concepito il Duce/ avesse offerto al fabbro di Predappio/ invece che il davanti il deretano/ l’avrebbe preso dietro quella sera/ ma solo lei e non l’Italia intera”.
Colpevole, quindi, di tante sciagure è la nascita stessa di quel corpo. Benito muore, come aveva annunciato nel suo slogan del 1926. Una raffica di mitra lo abbatte sul lungolago di Como, nel pomeriggio del 28 aprile 1945. Con lui viene fucilata anche Claretta Petacci. Muore, purtroppo, indietreggiando, travestito da soldato tedesco e nascosto sotto una coperta.
I loro corpi vengono trasportati a Piazzale Loreto, a Milano, dapprima gettati sul marciapiede, poi appesi per i piedi ai tralicci di una stazione di benzina. Decine di migliaia di persone accorrono. Una donna spara sulla salma del Duce, uomini e donne la prendono a calci e pugni, riducendo la blindatura cranica ad una massa informe di ossa rotte, con fuoriuscita di materia cerebrale. Qualcuno urina sopra i morti. Tutta quella gente è lì con il ruolo di testimone storico: il demone è stato annientato, senza alcun dubbio. Solo quando giunge l’intervento degli uomini del comando militare americano, finisce quello strazio.
Il corpo di Mussolini, ridotto a carne da macello, viene traslato all’obitorio comunale. Ora lo possono toccare, aprirlo con il bisturi, sviscerarlo. I fotografi non smettono di immortalare un’immagine, insieme, liberatoria e orripilante. Alla fine, chiusa in una cassa di legno, la carcassa del Duce finisce sepolta nel cimitero di Musocco, il quartiere di Milano, nella pereiferia nord-occidentale, che costeggia la ferrovia Milano-Torino, senza lapide, senza lacrime dei congiunti, anonimo tra gli anonimi.
Ma ecco che un camerata, Domenico Leccisi (morto il 2 novembre 2008), nella notte del 23 aprile 1946, aiutato da due giovinastri, riesce ad individuare la fossa, situata nel Campo XVI. Così, scoperchiata la cassa, Leccisi si trova di fronte ai resti mortali di Benito Mussolini. Vincendo l’emozione, ordina ai due di avvolgere il cadavere in un telo da tenda, approntato per l’occasione, e di deporlo su di una carriola da necrofori, trovata sul posto. L’indomani i questurini scopriranno tracce di materia umana in decomposizione, ai piedi della fontanella del Campo XVI e lungo il muro di cinta del cimitero. Trovano anche due dita di quel cadavere, cadute durante il trasporto. Lo strazio e l’umiliazione non finirono lì. Il corpo del Duce viene piegato in due ed infilato con forza in un piccolo baule, nascosto in una casa di montagna in Valtellina, riportato poi a Milano e fatto sparire nei locali del convento francescano di Sant’Angelo.
La misteriosa scomparsa di quella salma, diventata merce politica, fece riemergere qualche antica paura. L’ex dittatore ritornava in vita, come spirito malefico che si aggirava, minacciosamente, sull’Italia repubblicana. Solo nel 1957, quello che restava di quelle martoriate spoglie, trovò la definitiva sepoltura nella certosa della natia Predappio. Intorno a quei piccoli resti fu costruito un altrettanto piccolo tempio della memoria, per la soddisfazione dei nostalgici. Una porta di marmo si chiuse sul passato. La cristiana sepoltura fu decisa dall’allora Presidente del Consiglio, Adone Zoli, per restituire il favore ai neofascisti, i cui voti furono determinanti nella composizione della maggioranza di governo.
Un giallo antropologico, questo, che ci mostra, ahimè, l’indole barbarica di un popolo, il nostro, dall’aspetto mite, che ama i bambini, quell’anima brutale che, purtroppo, si fa talvolta, come disse qualcuno, “buia come la notte, in cui tutte la vacche sono nere”.