Quel papa, chiamato fascista


La storia si ripete e, viene da dire, purtroppo. Questa storia, anche se molto alla lontana, ci riporta, volendone leggere i collegamenti, a quella tragica ed inimmaginabile di questi giorni.
Il forte contrasto alle leggi razziali, fu l’ultima elevata pagina del pontificato di Papa Ratti. Il 10 febbraio di quel fatale anno 1939, Pio XI morì, ed anche questo fu giudicato, ma solo molto a posteriori, un evento fatale. Nonostante i suoi ottantadue anni suonati, fino a qualche giorno prima era apparso in pieno vigore. E si diceva, che per il giorno 11, decimo anniversario dei “Patti Lateranensi”, avesse già preparato un discorso “esplosivo” di denuncia al nazismo e, quindi di riflesso, anche al fascismo.
Di quelle parole, che la morte gli impedì di pronunciare, chiudendogli gli occhi ventiquattro ore prima, non fu mai trovata traccia scritta. Ma il Cardinale Carlo Confalonieri, suo Segretario Particolare, confidò in seguito, che il testo era effettivamente già pronto e conteneva accuse gravissime ai due Regimi.
Nella pubblicistica dell’anticlericalismo più terra terra, Papa Achille Ratti passò per un pontefice “fascista”. Ma si è sempre trattato di una semplificazione sommaria e deviante. Pio XI era un conservatore, è vero. Lo era, perché nato a Desio, in provincia di Milano, nel 1857, in un ambiente di agiata borghesia lombarda e lo era diventato ancor più, da Nunzio Apostolico in Polonia, durante i torbidi anni del primo dopoguerra. Delle violenze comuniste, che avevano cosparso di cadaveri le vie e le piazze di Varsavia, aveva maturato un profondo orrore. E se ebbe, inizialmente, come indiscutibilmente ebbe, della simpatia per il fascismo, fu perché credette di vedere in esso l’unica forza restauratrice di valori tradizionali, di ordine e di legalità. Salito al soglio nello stesso anno in cui Benito Mussolini ascendeva al potere, trovò nel Segretario di Stato, il Cardinale Pietro Gasparri, un consigliere, che nutriva, verso il Regime, gli stessi sentimenti. Entrambi detestavano il populismo del clero “progressista”, alla David Albertario, il sacerdote giornalista, Direttore del quotidiano “Osservatore Cattolico” che, in materia di fede e di rapporto tra Stato e Chiesa, integrava posizioni intransigenti, con quelle aperte alle nuove istanze sociali. Entrambi, diffidavano dell’ala socialisteggiante del vecchio Partito Popolare. Quando il dissidente Tito Zaniboni fu sorpreso nel fallimentare atto di attentare alla vita del Duce, il 4 novembre 1925, il Papa lo deplorò in un pubblico discorso. Anche se può sembrare del tutto normale, che un uomo di chiesa condanni un gesto di estrema violenza, di sicuro, prima di allora, nessun Pontefice lo aveva mai fatto per nessuno. Al contrario, quando il quasi omonimo Anteo Zamboni, un ragazzo bolognese quindicenne, venne ucciso dalla milizia, durante un linciaggio, perché sospettato di aver sparato a Mussolini, anche se la verità sui fatti non venne mai accertata, il Papa tacque.
Il Capo del Littorio non aveva perso tempo, per dimostrare al Vaticano la propria disponibilità ad un accordo, che cancellasse le ataviche dispute fra Stato e Chiesa. Aveva riposizionato il Crocifisso nelle scuole ed aveva incontrato segretamente Gasparri, mostrando verso la Santa Sede un rispetto quasi commovente. Pio XI aveva quindi, come Capo della Chiesa Cattolica, molte ragioni per definire il Duce, due giorni dopo la conclusione dei Patti Lateranensi, “l’uomo della provvidenza”. In effetti, per la Chiesa, fino a quel momento, lo era stato. Forse fu proprio quello sperticato elogio, espresso nella sua prolusione al simposio “Vogliamo Anzitutto”, rivolto ai professori ed agli studenti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, il 13 febbraio 1929, che indusse Mussolini a mutar registro. Sia per un rigurgito dell’innato anticlericalismo romagnolo, ferito dal marchio di “codino” e “baciapile”, che le parole del Papa potevano fargli attribuire, sia perché temeva di passare per un traditore agli occhi di quella stessa classe politica che lui aveva costruito contro la Chiesa, il cosiddetto stato laico risorgimentale, “per la quale [NDR: aveva detto Pio XI] tutte quelle leggi, tutti quegli ordinamenti, o meglio disordinamenti, che segnavano l’indipendenza dalla Chiesa, erano altrettanti feticci e, proprio come i feticci, tanto più intangibili e venerandi, quanto più brutti e deformi”.
Per dimostrare, che la sua non era stata una resa, pochi giorni dopo la firma del Concordato, il Duce pronunciò alla Camera un discorso provocatorio, in cui fra l’altro diceva: “Nello Stato, la Chiesa non è sovrana e nemmeno libera…. La religione cristiana è nata in Palestina, probabilmente sarebbe stata una delle tante sette, che fiorivano in quell’ambiente arroventato e si sarebbe spenta senza lasciare traccia di sé…. Non abbiamo resuscitato il potere dei papi, lo abbiamo sepolto”. Il Pontefice rispose con una lettera personale, indirizzata a Gasparri, ma resa subito pubblica, in cui lamentava quelle “parole dure, crude, drastiche” e più ancora, “le espressioni ereticali e peggio che ereticali, sulla essenza stessa del Cristianesimo e del Cattolicesimo [lett.]”. La polemica poteva essere solo occasionale. Ma diventò conflitto nel ’31, quando il Regime scatenò una vera e propria offensiva contro l’Azione Cattolica, che stava cercando di costituire un sindacato dei lavoratori, in concorrenza con quello fascista. Questa volta il Papa reagì addirittura con un’enciclica, dal titolo “Non Abbiamo Bisogno”, in cui denunciava la persecuzione, “fino alle percosse ed al sangue”. Bene o male, si giunse ad un compromesso. L’Azione Cattolica sopravvisse, ma solo alle dirette dipendenze dell’autorità ecclesiastica e rinunziando ad ogni attività politica. L’idillio tra Chiesa e Governo era comunque finito, anche se l’una e l’altro cercavano di evitare incidenti.
Ancora più rapida fu l’escalation con il nazismo. Anche Adolf Hitler, appena salito al potere, aveva cercato un accordo con la Santa Sede, per assicurarsi l’appoggio dell’ambiente ecclesiastico tedesco. Ed anche lui aveva firmato un Concordato. Ma la sua logica era differente da quella fascista, come del resto il suo temperamento era diverso da quello di Mussolini. Al Papa bastò poco per capire, che il nazismo non si accontentava di gestire totalmente la vita dei suoi cittadini. Ne reclamava anche l’anima, ponendosi con la Chiesa su di un piano di concorrenza spirituale. Quel conflitto non si poteva però aggiustare con un compromesso all’italiana. La persecuzione degli ebrei costrinse il Santo Padre a prendere una posizione solida ed irremovibile, e fu l’enciclica “Mit brennender Sorge” (Con grande preoccupazione), del 1937, a scuotere la coscienza della cristianità. Da quel momento i rapporti con il Terzo Reich non fecero che deteriorarsi ed a farne le spese fu, soprattutto, il clero cattolico tedesco. La frase, “spiritualmente, siamo semiti”, che il Vescovo di Roma pronunciò il 3 settembre 1938, ricevendo alcuni pellegrini belgi, era talmente grave, che l’organo di stampa vaticano, “Osservatore Romano”, la censurò. Divenne ugualmente di dominio pubblico e risuonò come una dichiarazione di guerra al nazismo.
La sua figura di anticomunista, antiliberale, cattolico intransigente e contrario all’ecumenismo, convinto che la salvezza dell’uomo risiedesse, solo ed esclusivamente, nel battesimo e nello spirito del cattolicesimo, fa apparire del tutto verosimile che, per il decennale dei “Patti Lateranensi”, all’interno dei quali, tra l’altro, era stata sancita la nascita dello Stato della Città del Vaticano, mentre le nere nubi della grande tempesta bellica si stavano addensando nel cielo di Europa, egli si sia predisposto a sporgere una esplicita delazione contro i perturbatori della pace. Ma, come già accennato, la morte gli impedì di pronunziarla.