Dialetti e tortelli a Reggio Emilia


Un tempo, quando Reggio Emilia era demograficamente la metà di oggi, popolata da soli autoctoni e io ero un ragazzo, il dibattito sulla tradizione reggiana in cucina era molto acceso tra i vecchi. La querelle pendeva immediatamente su due temi: 1. il “campanile” e la esigenza di differenziarsi dai vicini di Parma e Piacenza e di Modena e Bologna; 2. quella della differenza tra la città, la campagna e la montagna (tre elementi geografici presenti in tutte le province emiliane salvo Ferrara che ha, invece della montagna, il mare). Stessa querelle per la parlata cosiddetta dialettale.


Dialetti.
È proprio della memoria di chi ha frequentato le scuole elementari nei primi due decenni del dopoguerra l’accezione dispregiativa che soprattutto le maestre, insegnanti elementari, erano state addestrate a dare alla parola “dialetto”. Parlare dialetto era come sputare per terra, un essere maleducati: la scuola obbligatoria, del Regno d’Italia, del fascismo ma anche della prima Repubblica, aveva imposto queste sanzioni morali per fare apprendere una lingua che doveva creare quella uniformità di capacità d’intendersi tra italiani ricongiunti in un unico Stato. I dialetti erano fatti passare per lingue primitive, che non usavano le capacità straordinarie dell’italiano moderno, fatto di un lessico, una grammatica, una sintassi, una fonetica di grandissima qualità. L’italiano, infatti, lingua complessa, non era lingua d’origine per la grande parte dei bambini dello Stivale e, per il suo apprendimento, sono volati ancora negli anni ’70 una grande quantità di schiaffoni, scappellotti e altre punizioni: il senso che le maestre comunicavano era che, se non si parlava bene l’italiano si era degli asini o dei rozzi ignoranti, come tutti quelli che parlavano “in dialetto”. E che il dialetto era una deformazione dell’italiano, somigliante e dovuta a mancanza di studio e cultura, un difetto di civiltà; se la lingua italiana era difficile da apprendere, ma ricca e nobile, una volta imparata tutti si sarebbero ritrovati un grande patrimonio in testa. E doveva ovviamente sostituire il “dialetto”, volgare, dai suoni rozzi e dai significati primitivi, inutili per parlare nel mondo e, soprattutto, nella grande Italia che aveva fuso insieme tanti Stati diversi per storia e tradizioni. Ancor’oggi è radicata questa forse utile menzogna della scuola da 150 a 50 anni fa, dei dialetti mostri dell’italiano… E dire che, invece, sono lingue cresciute nei secoli soprattutto come variazioni del latino e sono quindi, a tutti gli effetti, delle lingue romanze, come è l’italiano. Nel XXI secolo, la partita sociale non è più quella di combattere le lingue storiche parallele, ma quella di insegnare alla metà degli abitanti di Reggio Emilia, che provengono da altri continenti e civiltà, lo strumento essenziale per poter comunicare e costruire insieme, cioè la lingua del territorio, che è diventato appunto l’italiano.
Dalla notte dei tempi, e non dal diluvio degli ultimi 30 anni, i reggiani si riconoscevano per le sfumature di differenza che i loro dialetti portavano: suoni più chiusi verso la montagna e alla Porta Castello di città, che guarda appunto verso la montagna, e suoni più aperti verso la campagna e per quella porzione di città che le si rivolge. Come scriveva mio padre in una sua poesia sul dialetto di chi abita in via Roma: “g’han un dialet c’al tira per la Basa”, hanno un dialetto che suona come quello della Bassa reggiana, alludendo a quella depressione geografica che vede la campagna nei pressi del Po essere al di sotto del livello del mare, per numerosi metri (dunque proprio bassa).

Tortelli.
Bene, proprio come il dialetto varia anche il piatto reggiano per eccellenza: i tortelli, pasta all’uovo (10 tuorli per kg. di farina e “l’uovo d’acqua”, cioè un mezzo bicchiere) ripiena, rettangolare dai bordi frastagliati dalla rotellina che la taglia, che racchiude due storici tipi di farcitura, quella dei cosiddetti gialli con la zucca e quella dei verdi con le bietole e spinaci. La ricetta era abbastanza diversa a seconda dei quartieri della città e delle zone della provincia. Se il quartiere cittadino guardava verso la campagna e così andando verso là, il ripieno dei verdi era arricchito dalla ricotta, prodotta col latte delle Vacche rosse reggiane fino agli anni ’70, poi sostituite con le Limousine francesi. E, riguardo ai gialli, le tentazioni mantovane, ben presenti già a 10 km dal centro cittadino, portavano a considerare la miscela della zucca con mostarda di frutta simile a quella cremonese con un gusto quindi gonzaghesco e transpadano, cioè lombardeggiante, che andava a sostituire il gusto estense dell’amaretto dolce. In entrambi troneggiava il formaggio grana, ma con parsimonia dovuta a scarsità un pò ovunque nel centro cittadino, mentre in campagna e anche in collina le economie di questo prezioso ingrediente erano minori. La minore quantità di grana all’interno del ripieno trovava un sostituto di gusto nei tortelli verdi di città con un soffritto di aglio e cipolla, in cui veniva stufata la bietola e lo spinacio. Una vera vexata quaestio riguarda le proporzioni geometriche tra costa di pasta e ripieno del tortello. Ed ecco sopraggiungere una regola aurea, diffusasi velocemente dal contesto parmigiano a tutta l’Emilia: “Annegati nel burro e asciugati col formaggio”. La dobbiamo all’illustre ristoratore Parizzi che nel suo ristorante di via Garibaldi a Parma ancor’oggi figura come un tradizionalista, anche se di tortelli diversi da quelli reggiani. Ma la regola rimane anche altrove. Perché? Perché spiega un poco tutto ciò che riguarda lo stile di questo rettangolo panciuto che è il tortello. Infatti, annegati nel burro e asciugati col formaggio, porta alla mente subito un condimento cremoso, ove la stupenda ricchezza del latte intero si ricompone dopo la scrematura e stagionatura del grana, con la sua panna distolta che va a dare vita al burro. Questa miscela di grana grattugiato e burro, fuso dal calore dei tortelli, assume una forma cremosa. Ed ecco l’equazione perfetta giungere a evidenza: quanto grande la costa? Ma abbastanza da raccogliere questa crema, infilando il tortello per il ripieno con la forchetta dopo averlo tagliato in due, e usandolo come una spatola: la costa deve reggere il peso della gustosissima emulsione, dunque deve essere abbastanza resistente (cioè spessa) da sostenerla senza rimanere cruda. Da parte sua, il ripieno deve rivendicare la sua identità, sia in termini di gusto (ma senza prepotenza, non dimentichiamo che la crema è a sua volta di gusto piuttosto delicato) che di dimensioni. Il boccone è quindi caratterizzato da un delicato equilibrio di consistenza di pasta, di crema di grana e burro e di gusto del ripieno, nella dimensione di un mezzo tortello che, moltiplicato per venti (dieci bei tortelli) fa la porzione tipica.
Che sia giallo oppure verde!
Segni di civiltà oggi reperibili in questi posti più che altrove, a parte le case: il famoso Arnaldo di Rubiera, L’osteria dall’Aurelia tra Novellara e Reggiolo e, direi, la Maddalena di Quattrocastella. In centro, una bella scoperta, ricca di altro ma combattiva sul tortello il “Vicolo del gusto”, giovane chef intelligente e allora lo cito.
Questa la civiltà del tortello e di quello reggiano in particolare, con i suoi sapori elementari, non sofisticati, anche se le spezie e i profumi del civilissimo convivio gonzaghesco sono arrivati fino là e anche quelli della sofisticata gastronomia estense.
E i reggiani lo sanno, ma a differenza dei loro raffinati vicini di Mantova ducale, Parma luigina e Modena seconda capitale estense, risolvono la questione in modo rozzo, dicendo, proprio da reggiani: “Quanti bali! S’in boun iin boun!” (Quante indicazioni inutili – balle-, se son buoni son buoni).
E anche questo per il tortello reggiano come per il popolo di Reggio non va dimenticato…

Vini per dialetti e tortelli.
Riguardo all’abbinamento ai tortelli (e ai dialetti emiliani), facile dire qual è quello tradizionale: i lambruschi in primis. Per il quale vi lascio ai consigli dell’oste, che non sbaglierà e non vi farà pagare cifre assurde. La “galassia lambrusco” è estremamente varia, e si arricchisce anno per anno di nuove esperienze. Ne parlerò specificamente in un pezzo dedicato, anche se qui mi sento in dovere di segnalare alcune produzioni che amo. La prima: i lambruschi spumante metodo classico di Cantina della Volta di Bomporto (Modena) soprattutto nei Sorbara, una qualità di uve lambrusco cui dobbiamo celebrità e piacere elevato alla civiltà gastronomica modenese; in particolare i 3 tipi che segnalo, il DDR (nulla a che vedere con la vecchia Repubblica Democratica Tedesca, significa Degorgiatura Dosaggio Recente) di lungo invecchiamento (oggi si vende bene il 2015), il Brutrosso e il Trentasei. La seconda: l’elevata esperienza enologica e culturale di Luca Messori vigneron di “Anna Beatrice”, con il suo metodo classico Vulpis in fabula, 100% Maestri, un pregiata qualità di uve lambrusco. Sono entrambe, nelle specifiche dimensioni, eccellenti produzioni, direi quasi non confrontabili per tipologia di azienda e uvaggio, agli antipodi della galassia, seppur sempre di lambruschi si tratti.
E se non si vuole un lambrusco? Lancio una sfida, fresca fresca dall’ultimo Slow Wine, fiera di successo soprattutto dei piccoli produttori che sono una grande ricchezza dell’Italia: ci metterei un vino sardo, di un vitigno autoctono, il Mandrolisai, fresco e profumato, ad esempio il “S’areu” (“Il parente”, in un certo dialetto sardo), che gode della sua freschezza e detesta il passaggio in botte. Ma se lo volete dovrete ordinarlo ai suoi appassionati produttori, i Cadeddu dell’omonima vitivinicola del centro Sardegna.

(Diletto Sapori e Sergio Bevilacqua)