Donizetti, il perfetto equilibrio del teatro musicale


“Anna Bolena” al Valli di Reggio Emilia e la desueta “Il diluvio universale” del festival Donizetti.


Ho cercato e insistito nella ricerca per capire quanto non mi tornava della sempre grandiosa esperienza dell’opera lirica, uno spettacolo preda dei musicologi, quando invece siamo di fronte al più grande crocevia parnasiano mai esistito, ad una esperienza sinestetica di enorme complessità. È certo che i musicisti l’hanno fatta da padroni lungo tutto il XIX secolo e hanno prenotato la gloria prevalente anche ne XX, ma il XXI ha aperto porte e finestre al resto della varietà artistica dell’Opera.
E quindi quando ero adolescente d’Opera, in primis fiducioso della critica corrente, mi sono spesso risultate sorprendenti le risposte di certuni alle mie domande volutamente ingenue: esse affermavano ad esempio l’assoluto primato di Verdi o quello di Wagner, la suprema magistralità di Puccini; all’inizio avevo addirittura frainteso Rossini e trovato stranamente interessante Donizetti, malgrado la critica di essere poco graffiante espresso da tali fonti rispettabili.
Ora che sono maturato, sono invece in grado, grazie a una protratta verginità di giudizio, di valutare tali risposte e di riconoscere quanta sclerosi ci sia nella critica operistica contemporanea: un gravissimo errore si è compiuto lasciando l’opera lirica in mano ai soli musicisti e la sua critica ai soli o prevalenti musicologi. E gli impresari (teatri, fondazioni, enti lirici, amministrazioni locali, ecc.) lo sanno, sanno che il pubblico è ormai inconsciamente sbilanciato verso lo spettacolo video, che l’opera non deve più essere un festival dell’ascolto ove si susseguono interpreti di brani canori o musicali: la drammaturgia è ormai fondamentale, e l’occhio spadroneggia.
Niente di strano se si pensa alle origini, quando, da Monteverdi a tutto il XVII secolo fino alla prima metà del XIX, la musica era importantissima colonna sonora e il canto soltanto un modo più bello di attirare l’attenzione su una trama coinvolgente nell’unico scenario che allora la poteva accogliere: il palcoscenico dei teatri. Non c’era la fotografia e la sua versione dinamica, il cinema, e nemmeno la televisione con la loro enorme capacità riproduttiva e di immedesimazione del pubblico.
È proprio a metà della prima metà dell’Ottocento che il frutto dell’opera lirica matura in perfetto equilibrio, sempre ringraziando Mozart (Don Giovanni, Il flauto magico, Le nozze di Figaro, Così fan tutte) e l’one-shot operistico di Beethoven, il geniale Fidelio del 1805. E chi ci troviamo proprio in quei decenni in Italia? Bellini, Rossini e Donizetti, in ordine crescente di consapevolezza di ruolo e di condivisione del pregiato equilibrio del melodramma della prima metà dell’Ottocento. Mentre Bellini campa poco, produce per quanto campa (10 opere ma tre capolavori: Norma, I Puritani e La sonnambula) e non riesce a dire abbastanza la sua, anche a causa di un cattivo carattere, Rossini è quel personaggio di simpatia unica, gioviale e mattatore che porta l’opera verso la sua ipertrofia musicale ma senza volerlo, solo con la sua grandissima classe e la sua produzione qualitativa di circa 40 opere: con il grande appetito che lo contraddistinse (tra le sue frasi famose: “Per mangiare un tacchino intero bisogna essere in due: io e il tacchino”) inaugura l’autofagia dello spettacolo operistico da parte della musica. Chi si salva e rappresenta il perfetto equilibrio, anche grazie a una produzione cospicua (70 opere)? Gaetano Donizetti. Pure lui non brilla di simpatia come Gioachino pesarese, ma il suo contributo prezioso e variegato, la sua sensibilità di servizio alla drammaturgia e all’intrattenimento, anticipa le migliori esperienze cinematografiche, cioè, anticipa di un secolo abbondante gli equilibri (modus in rebus) del miglior intrattenimento audiovisivo. Anche Rossini insegnò la strategia ai suoi successori, a Verdi e a Wagner, i leader del secondo Ottocento, dei decenni a venire. Ma Donizetti insegna ai signori dell’audiovisivo di 150-200 anni dopo: delicato, mai sopra le righe, creativo e vario, usa tutti gli aspetti catartici della musica per contribuire al genere del teatro (musicale) senza “mangiarselo” come il tacchino rossiniano e i suoi successori Verdi e Wagner. I lavori del bergamasco sono paragonabili a quelli di Stanley Kubrick nel cinema, o di Ridley Scott, o di Michelangelo Antonioni: lui aveva la bacchetta e non la macchina da presa come suo strumento, ma è solo una questione di fasi…
Ed ecco finalmente il disvelamento del genio di Donizetti, non adeguatamente riconosciuto a causa dell’ipertrofia musicale che lo vede in coda a diversi altri, anche se non ha niente da invidiare di particolare a nessun Mozart o Beethoven, Rossini o Wagner, Verdi o Puccini, semplicemente fa un mestiere diverso: Donizetti è seriamente e onestamente al servizio del dramma nella condizione della prima metà del XIX, non se lo mangia, alla fine risaltando solo lui: Donizetti rispetta il teatro, la sua musica è ciò che deve essere, una stupenda colonna sonora, con momenti calibrati di grande libertà espressiva (i brani sinfonici, ad esempio le ouverture), alcune arie di simpatica orecchiabilità, e l’accompagnamento magistrale della vicenda in scena con il migliore utilizzo della ormai matura polifonia orchestrale e vocale.
Ciò detto, le nuove regie, quando a loro volta matureranno del tutto e riscopriranno i pregiati equilibri del teatro musicale, dopo aver violentato musica, musicologi e melomani per fare spazio al senso della vista, attribuiranno il grande rispetto che merita al prolifico bergamasco: cosa confermata con grande piacere personale, nelle due occasioni recenti di opere donizettiane che ho fruito, “Anna Bolena” a Reggio Emilia l’11 febbraio e “Il diluvio universale”, ormai due mesi fa, al Donizetti Opera 2023.
Due spettacoli godibilissimi, il primo reso magico dalla regia equilibratissima di Rifici, dalle azzeccate scenografie di Buganza e da un cast di voci molto ispirato, anche se la mia passione Carmela Remigio ha fatto una prima parte in tono minore, a mio avviso causa problemi vocali, recuperando vistosamente nella seconda parte anche grazie alle qualità interpretative. Certo è che con Giovanna Seymour (alias Arianna Vendittelli) così vigorosa e in salute sarebbe apparsa qualunque fragilità di Anna Bolena… Sul Diluvio universale occorre fare un discorso più vasto: la grande intelligenza di Francesco Micheli, che credo abbia intuito la importanza contemporanea di Donizetti per i motivi di cui sopra, e per questo stia gestendo artisticamente i festival secondo un percorso progressivo di découverte che già premiò, per i suoi aspetti identitari, Gioachino Rossini con la renaissance, ingigantendo il valore del Rossini Opera Festival e di un pezzo di Italia culturale. E allora, forza Francesco Micheli, credo molto in una epoca di rivalutazione donizettiana simile alla grandissima epoca rossiniana che abbiamo visto nei lustri passati. La Donizetti Découverte ventura è nelle tue mani, facci sognare!