In attesa delle elezioni politiche: perché i partiti non parlano del partito?


Superare l’inefficienza del Parlamento non significa andare ad elezioni soltanto, significa riportare i Partiti italiani all’efficienza prevista dalla Costituzione ed espressa da tutti i Paesi democratici. In questi ultimi, la cultura democratica è molto più sviluppata ed essi ridono di noi, ben sapendo che dei partitastri siffatti nuocciono a qualunque funzione democratica italiana, inclusa la difesa del patrimonio pubblico, che significa circa 200000 €. a famiglia italiana. E a loro interessa eccome, quel patrimonio, perché potrebbero appropriarsene, grazie al colossale debito pubblico proprio dello Stato Italiano…
Non basta dunque avere partiti, occorre che funzionino bene e, visto che sono da rifare, meglio partire col piede giusto, che consiste nella gestione professionale della loro organizzazione e direzione, nel miglior management.
Il progetto manageriale di funzionamento dei partiti si schiera in modo contrapposto al progetto di partito leaderista, che non è così naturalmente compatibile con la democrazia, e a quello illusoriamente di partito del popolo, come complemento organizzativo del populismo. Tutti i modelli richiedono comunque organizzazione e direzione, con decisioni che non possono essere sempre plebiscitarie o estesamente partecipate dalla base, come avviene in democrazie arretrate, basate su meccanismi di massa, tipiche di certi Paesi sudamericani. Questi ultimi hanno ereditato il ritardo delle terre latine nella democrazia, portandola a una soglia contrastante con essa stessa.
La democrazia italiana deve maturare e prendere atto che occorre competenza organizzativa e direttiva per far funzionare la cosa pubblica, e riconoscere che spesso le posizioni che sostengono particolare partecipazione o estremizzazioni di democrazia diretta sono parziali, teoriche od opportunistiche.
Ad esempio, il M5S, massimo fautore della democrazia diretta, ha sempre finto di non essere organizzato con la rappresentanza. E lo ha fatto nel modo peggiore, con candidati veicolati dalle catacombe, oppure con il leader Conte piovuto dal cielo e, per non figurare contraddittori, favole ai bravi attivisti. Una figura detestabile (Grillo) e un ridicolo sognatore (Casaleggio, R.I.P.) hanno messo nel sacco un terzo degli italiani, facendo fare con i loro deliri/progetti nascosti, un altro passo indietro alla democrazia italiana.
Il “partito manageriale” è un nome di genere, che lo distingue da partito del Presidente o partito del capo (leaderistico o carismatico) o partito oligarchico, solo per dirne alcuni, e il suo nome proprio può poi essere qualsivoglia. Parlando di partiti, non si parla dell’organizzazione dello Stato: rimanendo in tema, già abbastanza complesso e vitale senza considerare le contraddizioni del sistema, Mario Draghi non era un leader politico ma uno dei vertici istituzionali dello Stato. E non andava inteso come taumaturgo, ma come soggetto istituzionale che avrebbe potuto promuovere burocraticamente una legge per fare ripartire i partiti attuali, le cui leadership non hanno interesse a cambiare, mentre un soggetto istituzionale interessato realmente al miglior governo dello Stato (uno dei due Presidenti o entrambi) sarebbero appropriati e anche motivati. Salvo che per opportunismo non decidano di fare i pesci in barile, data la debolezza delle forze politiche in Parlamento…
Certo è che un partito manageriale mai si potrà chiamare partito nazista o partito comunista, per gli ovvi motivi ideologico-istituzionali dei due casi citati, che contraddicono il processo di selezione per merito e professionalità tipico dei principi della migliore organizzazione e direzione (management), sostituendoli con un principio fondamentale di adesione ideologica e di semplice gradimento dei vertici.
Per iniziare occorre partire dall’inizio. E visto che il tema è centrale, occorre procedere in modo organico e dialettico, per fare, intanto, buona filosofia del diritto a cui si va a metter mamo. Poi occorre un buon benchmarking con gli altri Paesi democratici, per evitare errori banali e anche per cercare di armonizzare i comportamenti in sede comunitaria.
La nomina di Draghi, prima che un successo personale suo, conquistato sul campo, è segno della malattia grave della nostra democrazia. Mattarella e Napolitano sono stati e sono i principali portatori di medicine sull’effetto anziché sulla causa, e qui si nota la caratteristica specifica del nostro assetto istituzionale, il cui vertice (il Presidente della Repubblica) non è di stirpe come nelle monarchie e nemmeno, mutatis mutandis, di nomina diretta come nella democrazia americana ma espressione del quadro politico più protratta nel tempo, cioè più estesa del ciclo elettorale del Parlamento. Così, il suo ruolo, e ben lo sappiamo, quando agisce per necessità in surroga di Parlamenti fatti di partiti (e conseguentemente eletti) incapaci di garantire stabilità e qualità di governo, anziché cercare di drizzare il sistema, tende a surrogarlo, appoggiandosi a interessi di un proprio partito o extraistituzionali (Europa, NATO, addirittura lobbies o formazioni sospette).
Rimane che Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio sono due ruoli istituzionali cui appellarsi per la riforma dei partiti, se i partiti stessi non si muovono. Le considerazioni di architettura istituzionale suddette spigano, più che il successo di Draghi, lo stato di minorità in cui “si vuole” (poteri forti? Europa? NATO?) tenere la democrazia italiana.
Per una risposta più completa, mi appoggio alla esperienza della Sociatria Organalitica. Occorre agire la completezza dell’umano, cioè il ciclo che lega esperienza e meditazione: immaginario (le intuizioni del miglioramento), simbolico (la loro formulazione e comunicazione), reale (l’intervento concreto). Dico un ciclo, perché la Sociatria organalitica è clinica e non si affida a sola riflessione filosofica e comunicazione (immaginario e simbolico), ma include sempre il reale. La prassi fa cambiare la teoria, oppure ne ottiene la conferma: cioè, in qualche modo la condiziona sempre, perché una teoria confermata dalla prassi non è più sola teoria, in quanto ha iniziato quanto meno un percorso di certezza scientifica (che è differente dalla certezza religiosa, teoretica, filosofica o ideologica).
Nello specifico del caso italiano, è molto importante aprire un dibattito a livello parlamentare per una Legge sui Partiti. Se fossi Presidente del Consiglio dei ministri o Presidente della Repubblica e fossi onesto, lo farei. Non sarebbe la soluzione finale, ma obbligherebbe partiti ed elettori a riflettere sulla natura attuale di questo anello debole della catena democratica: i Partiti. Essi sono la cerniera tra Paese legale e Paese reale, e in questo stato di disorganizzazione, danneggiano l’intera catena democratica.
Il Parlamento è il potere di controllo sul Governo, ed è sede della funzione legislativa. Quindi in democrazia rappresentativa è il Parlamento a esprimersi in primis.
Tenuto fuori momentaneamente l’istituto del referendum, perché si tratta di materia squisitamente istituzionale, ma di certo, con un demos preparato e avveduto, la legge sui Partiti sarebbe tipica di un referendum almeno confermativo. Però, dato il massacro mediatico e politicoide attuato sui partiti, ordito ad arte negli ultimi 25 anni dopo la sacrosanta stagione di Mani Pulite, vi sono inerzie culturali deteriori acquisite che andrebbero contro un intervento opportuno come quello ipotizzato di una riforma dei partiti. Per arrivare a un referendum confermativo di una legge parlamentare, occorrerebbe basarsi, in prima fase, su un benchmarking con gli altri Paesi europei.
Abbiamo notato storicamente negli ultimi 20/30 anni l’attrazione fatale tra vertici e organismi dello Stato italiano e quei Partiti che per storia o natura hanno mantenuto una presenza nelle istituzioni al di là del ruolo che il gioco democratico gli affidava: così il PD, l’unico partito italiano ad avere una certa organizzazione interna e una forte presenza nelle istituzioni (buon rapporto col deep-state); un’altra forza che ha fatto questo percorso, ma in modo non cosi “apollineo” (che non significa sano…) come il PD è stata Forza Italia, sulla spinta forsennata di Berlusconi, grandissimo lottatore e incassatore, in qualche modo funzionale al sistema economico di una sinistra anti-democratica per quanto riguarda il pluralismo. Perché funzionale? Perché il fondatore di Fininvest è afflitto da gravissime fattispecie avverse (morali, economiche e istituzionali) che hanno reso molto debole la sua figura istituzionale e quella di un partito da lui creato, che è stato, tra l’altro, fortemente (troppo) personalizzato. Forza Italia nasce con ottimi assetti organizzativi, ben finanziata, con buona condizione tattica e pessima conduzione strategica, tanto da venire ridotta, su un ceppo di grande valore, a forza minoritaria.
Due esempi errati, dunque, PD e Forza Italia, di modelli organizzativi di Partito: uno, il PD, per commistione con lo Stato (che invece dovrebbe venire controllato) e l’altro per eccessiva sensibilità ai problemi del suo fondatore anziché ai veri bisogni della democrazia italiana, cui peraltro, da mie esperienze dirette, sarebbe stato coerente come capacità.
La Lega, è stata originariamente (anni ’90) sulla strada di una buona organizzazione, ma ha subito un grande choc per lo scandalo Bossi, da cui non si è più ripresa, lasciando il territorio (non di origine, quello lombardo ove resiste organizzativamente, come peraltro anche Forza Italia) a una sorta di anarchia acefala, in cui hanno prosperato i più astuti e non i migliori, in particolare per le esigenze, spiccatamente tecnico-manageriali, degli Enti Locali.
Nel frattempo insorgevano i Governi del Presidente, con spazi di continuità e importanza dati a forze non certo plebiscitarie come il PD e il fenomeno, funzionale alla distruzione della democrazia rappresentativa (l’unica possibile nelle società di massa) e dunque della democrazia tout-court targato Grillo-Casaleggio, che segna il punto più basso della storia democratica italiana, con il periodo 2015-2020.
Quindi, vedrei oggi una legge di riforma dei partiti di proposta istituzionale (o uno o l’altro o insieme i 2 Presidenti principali delle istituzioni repubblicane e democratiche), sorretta da un successivo Referendum confermativo, non propositivo. La proposta andrebbe costruita con l’Europa, in quanto non c’è niente da inventare, ma c’è soprattutto un sottile lavoro di personalizzazione osservando i modelli partitici di Francia, Olanda e Paesi scandinavi, ma anche della Germania.
Non copiare, non ci mancano i buoni giuristi, ma cercare avvedutamente i fondamenti italiani per il risanamento dei nostri più importanti attori parlamentari e politici in genere, i partiti appunto. Ciò potrà essere ridotto poi, in un secondo momento, eventualmente in linea generale, sottoposto a conferma referendaria.