Il collegio femminile (Mädchenschule)


Adam Johann Braun (1748 – 1827) – Olio su tavola (1789) – Collezione privata.

Il pittore viennese Adam Johann Braun, esponente molto noto del manierismo austriaco, lavorò spesso come illustratore della vita sociale della sua città. Il soggetto della presente opera è assai raro nel suo esplicito realismo e non è dato a sapere chi lo abbia commissionato. Forse una famiglia dai rigorosissimi costumi (come exemplum ammonitorio per le figlie in crescita) o forse dalla badessa di un rigidissimo collegio femminile il cui regolamento vietava alle educande delle nobili prosapie qualsiasi propensione amorosa, con relative precise e sensibili punizioni. Lo scopo di questa educazione, come ci ricorda il Bauladu, era unico: le collegiali erano alloggiate presso il monastero al solo scopo di un’educazione formale, segregate da vietatissimi e deprecatissimi approcci maschili e riservate al futuro matrimonio deciso dal padre padrone (Antioco Bauladu, “Severità dell’educazione da Orosei a Narcao”, Villacidro 1927).
Qui l’ambiente è quello ecclesiastico di un collegio femminile del tempo passato, riservato alle fanciulle di nobile schiatta. La Reggitrice, o Badessa, secondo i severi regolamenti e secondo i doveri dell’ufficio, doveva somministrare di propria mano le punizioni per gli errori delle educande (Callisto Fatebene di Lambrate, “L’uso dello scudiscio nell’educazione del XVIII secolo” – Rawalpindi, 1978).
La scena racconta l’episodio che vide protagonista Charlotte von Katzenbaum, figlia di primo letto del barone Wolf Katzenbaum von Kärnten, margravio di Carinzia e Grande Elettore del Fünfsternenreich.
Dovendo consegnare il patrimonio integro nelle mani del secondogenito (maschio ma con tendenze molto dubbie), decise di inviare in collegio la figlia nella speranza di una vocazione che gli avrebbe fatto risparmiare anche la dote. In mancanza, avrebbe dato Charlotte in dote al cugino Otto Schweinstrutt, noto alcolizzato, il quale si sarebbe accontentato come dote di quella vigna dietro il castello di Klagenfurt che tanto vino era in grado di produrre.
Il barone, di ascendenza per un quarto askenazita e per i restanti tre quarti biellese, cercava in tutti i modi di risparmiare sulla retta del collegio. Avendo saputo che le punizioni prevedevano anche il digiuno forzato per due o tre giorni, cercava in tutti i modi di far punire la figlia per lesinare sui costi di convitto. Per fare ciò si avvaleva dell’aiuto compiacente di un giardiniere, di cui ci è pervenuto solo il soprannome: Gavrilovich, dal noto salame piccante di origine croata dalle ragguardevoli dimensioni (cfr. Fra’ Girolamo da Varzi: “I salumi e i loro utilizzi”, in Küch. Zeit. von Rheinland, XXXII, 71-73, Königsberg, 1741)
Il giovane non tardò ad entrare nelle grazie della giovinetta (la quale peraltro avrebbe voluto farlo entrare anche altrove, una volta osservatolo durante una minzione nell’orto del convento.
I due cominciarono a scambiarsi bigliettini finché, alla vigilia di un incontro clandestino nel fienile della scuderia, la compagna di stanza contessina Margrethe Wasmachts Grillparzer, gelosa del dotatissimo giardiniere e stanca di raschiar via sego dalle candele (un hobby come un altro, soprattutto a quel tempo) fece la spia all’insegnante di galateo che subito riferì alla Badessa. Scoperto il biglietto che rivelava la tresca, la Badessa interviene ricordandole con quale punizione debba ora riparare al fatto. Nonostante l’ammissione della colpa e la richiesta del perdono la giovane venne indotta a recitare una preghiera di pentimento davanti al piccolo altare da studio, esortata e accompagnata dalla Superiora. Subito dopo l’educanda stessa spontaneamente si disponeva in modo acconcio sul gradino dell’altare per ricevere il dovuto castigo, ed esponeva le aurorali superfici sulle quali s’imprimeranno le strisciate della punizione. La scena è fotografata in questo preciso istante, con la Badessa che tiene in mano le verghe con le quali lascerà i vari segni sulle tenere cluni.
Tremanti rimangono soltanto le cameriere della baronessina, che forse hanno già preparato gli unguenti lenitivi, ma l’atmosfera assurge davvero a un respiro poetico di raggiunta equità. Di contro la sensazione è che poco dopo la nobile educanda, pur conservando i bruciori del caso, si voglia ripresentare alle compagne di collegio con un’aria di superamento, come si conviene ad una del suo rango. Conserva per questo i suoi abiti belli ed i gioielli. I bruciori li elaborerà via via, dalla pelle alla memoria.
Da parte nostra null’altro da dire sulla scenetta, se non ricordare “la gran virtude de li tempi antiqui” quando le nostre madri e nonne ci snocciolavano i loro interventi senza alcun cerimoniale premuroso, con le decise sante mani o con un più opportuno battipanni.
Ci aiuta a tal riguardo l’immagine, ormai un po’ sbiadita, della nonna Eufrasia, madre del mi’ cognato Oreste, la quale quasi quotidianamente lisciava il pelo al figliolo con una granata (intesa come scopa) da otto chilogrammi con tanto di strofinaccio unto e bisunto ancora appeso. Probabilmente un eccesso di zelo nell’elargire tali punizioni ha causato il rincoglionimento precoce del povero bimbo, sebbene oggi anch’egli asserisca quanto sia sbagliato evitare di toccare i bambini per correggerne gli errori: “Se cresci col sedere vergine non sarai mai uomo!” è solito ripetere al suo figliolo oggi trentenne, che di rimando lo guarda con aria di compatimento.