Il cacciatore di Draghi


È un’estate decisamente calda, paragonabile a quella del 2003 che in luglio vide parecchi black-out causati da un uso smodato dei condizionatori.
Non certo al livello del 1963, anno in cui si sciolsero anche i Beatles, ma decisamente preoccupante dato che in vetta al Monte Bianco (4810 m) si sono registrati 2 gradi sopra lo zero.
Sarà il caldo torrido, che ci invoglia a ingurgitare bevande fresche e alcoliche, sarà la voglia di cambiamento che alberga in tutti noi (a Roma, ad esempio, vorrebbero cambiare cinghiali con porchette, buche con asfalto e spazzatura con termovalorizzatori), oppure semplicemente sarà che l’italiano medio non ne può più, fatto sta che la fine della legislatura è stata accolta da molti con un sospiro di sollievo, quasi un senso di frescura. Anche la mummia riesumata di Mattarhotep II se n’è accorta dal suo sacello al museo: inutile tenere in vita un cadavere che zombeggia da quattro anni, meglio staccare la spina e poi si vedrà.
Ma è interessante, al di là di ogni considerazione politica che per sua natura non può che essere di parte, cercare di analizzare quanto accaduto per capire come si è arrivati a questo.
In principio fu il verbo… No, in principio fu il bibitaro. Di Majo è stato indubbiamente l’elemento scatenante. Dobbiamo ammettere che in quattro anni ha imparato molto, non in geografia o diplomazia, ma quanto a furbizia politica. Come ogni bravo topolino che vede la falla nella chiglia aprirsi sempre più, non ha perso tempo: ha fatto le valigie, ha mandato a farsi penetrare ab retro l’intera compagine grillina e il leguleio pugliese loro boss, ha probabilmente alzato la cornetta per chiedere scusa al suo mentore genovese, ma poi ha messo giù senza completare il numero e si è tuffato nel mare magnum dei fuoriusciti senza vincolo di mandato (altra aberrazione repubblicana) solo pochi giorni dopo aver svillaneggiato chi cambia casacca senza dimettersi per farsi rieleggere.
Ma tutto ciò è ormai nei verbali che accumuleranno polvere negli scantinati di Montecitorio. Gli accadimenti più recenti, che comunque prendono le mosse da quanto scritto, sono altri.
Sebbene oggi, a bocce ferme, si dica che il centrodestra si è assunto la responsabilità della fine della legislatura, è evidente a chiunque non abbia la sindrome di Down che il responsabile della cacciata del Premier da Palazzo Chigi e dei teleschermi degli italiani è stato l’inutile avv. Conte, il quale, oltre a commettere il più assurdo suicidio politico mai registrato dai tempi di Bruto e Cassio si è preso la briga di cacciare un governo asfittico nella patetica speranziella che il premier accettasse il suo diktat in nove punti. La tattica era abbastanza palese: nessuno vorrà andare a casa sapendo che in primavera le probabilità di essere rieletto sono scarse come le vergini nei casini, quindi Draghi accetterà obtorto collo e noi ci ribecchiamo un sacco di voti.
Ma dei coperchi del diavolo sono piene le fosse lastricate dell’inferno (proverbio sincretico), e la pentola dell’avvocato del popolo è risultata vuota come il programma dei suoi oligofrenici proseliti. Baideuèi, come dicono a Londra, è proprio grazie ad avvocaticchi di questo calibro che il popolo se lo piglia sempre nel cacapranzi.
Non poteva essere differente: d’altro canto sappiamo (Piero Sansonetti lo va dicendo da mesi) che Conte non esiste, pertanto come potrebbe un essere inesistente avere strategie vincenti?
Così, con un colpo da maestro che ancora una volta ha mostrato la differenza tra la vecchia scuola della politica e l’inconsistenza frenologica dei novelli apertori-di-scatolette-di-tonno, il senatore Casini – il quale, lo diciamo da tempo, alligna nel partito sbagliato – ha offerto un atout meraviglioso al premier per levarsi d’impaccio senza troppa fatica, presentando una mozione che poi Draghi ha fatto sua chiedendo quella fiducia che gli ha dimostrato come solo 95 senatori avessero ancora la lingua attaccata alle sue emorroidi. Anche gli stessi pentapitechi che lo hanno difeso finché Conte non ha cambiato registro vomitando odio sull’Ucraina e strizzando l’occhio al macellaio moscovita, con un cavilloso pretesto uscito dalle pagine di un regolamento parlamentare bizantino, lo hanno mollato restando in aula senza votare.
Casini, inoltre, ha fornito a Draghi il destro per consentirgli, durante il suo discorso, di mollare sonori schiaffoni ai figli di Grillo e di madre ignota, alla Lega che per mesi ha remato contro gli aiuti all’Ucraina come lo stesso Conte, e anche un po’ al resto del Parlamento, salvando solo quello che ha sempre considerato il suo ‘porto sicuro’, ovvero il piddì di Letta. Il quale Letta ha fatto a sua volta un casino facendosi ricevere, unico tra i segretari dei partiti al governo, da sua maestà Drago primo in separata udienza, credendo di ottenere quel risultato che era ormai impossibile ottenere ma che gli avrebbe permesso di mostrarsi quale salvatore della Patria e padre putativo di un secondo governo Draghi orbo dei pentacialtroni.
Ma il Mariolone nazionale era ormai stufo, diciamolo chiaramente. Non vedeva l’ora di levare il disturbo e godersi la pensione. Già lo vediamo, in braghetta di lino seduto in spiaggia coi nipotini che gli chiedono di arbitrare la partita a biglie. E lui che con lo sguardo benevolo e un po’ triste, quello che ha sempre avuto, da cameriere anziano che ha preso una mancia troppo risicata, spiega loro di essere troppo stanco, ormai, anche per queste cose.
Tra parentesi: avete notato come Vico (inteso Giovan Battista) ci azzecchi sempre? Anche la scorsa legislatura si era conclusa con un Mariolone stanco e dimissionario, caso vuole con lo stesso Presidente al Quirinale…
Tornando al PD, ci ha stupito il commento di Letta su un Parlamento che sarebbe contro gli italiani.
Eh no, caro Enricostaisereno, questa non si può proprio digerire. Il Parlamento, innanzi tutto, non è più l’espressione del volere popolare, e nel caso non te ne fossi accorto alcune volte il Parlamento vota in modo indipendente dalla volontà del tuo partito. Se poi capita che per una volta Parlamento e popolo italiano siano d’accordo, beh, fattene una ragione. Tanto da qui al 25 settembre sarà il popolo stesso a fartelo capire. Sì, perché il partito democratico (un nome non proprio azzeccato, a giudicare dai giudizi morali elargiti sovente dal suo segretario) ha troppe anime. Da anni è stato il refugium peccatorum di ogni sbandato della sinistra e del centro, dai democristiani convertiti (Bindi, Casini, ecc.) a vari cani sciolti con ansie da genere e da femminismo oltranzista, fino a tutta quell’accozzaglia di sigle e siglette che sono confluite in quel contenitore come cilindri fecali in una cloaca. Oggi nel piddì c’è di tutto: pidioti, piderasti, piduisti pentiti, piacentini doc, e chi più ne ha più ne rimetta. Tutte questa anime, che piacerebbero indubbiamente a Gogol, al momento giusto faranno casino per accaparrarsi uno dei pochi strapuntini che il nuovo Parlamento Mignon gli consentirà di mantenere. Perché al di là dei proclami, delle parate e degli schiamazzi, delle feste dell’Unità semideserte, il PD è destinato a perdere. Non a sparire come accadrà ai pentainutili, ma ad essere molto ridimensionato, quello sì. Perché? Perché a parte gli errori tragici del passato, durante l’ultimo governo ha sempre fatto credere che Draghi fosse stato imposto da una specie di volere popolare implicito. Lo stesso Draghi mercoledì scorso in Senato ha detto: “Siamo in quest’aula perché gli italiani lo hanno chiesto.”
In realtà gli italiani non gli hanno chiesto un bel niente e solo il 12% dei sindaci lo ha pregato la scorsa settimana di restare ma lui, abituato agli applausi, agli inchini deferenti e al lecchinaggio continuo dei politici, non ha capito che quello non era il Paese reale, formato invece da migliaia di famiglie che faticano a sbarcare il lunario e che saranno travolte dagli aumenti di bollette, carburanti e cartelle esattoriali. Scrive Matteo Brandi: “… Il paese reale è composto da tutte quelle piccole e medie imprese che hai contribuito a far fuori, in ottemperanza a quella “creative destruction” di cui parlasti al G30. Il paese reale è quello che, da anni, vede alternarsi governi che non corrispondono minimamente al volere popolare. Avevi un compito, vile affarista, e finora l’hai eseguito alla grande. Ci hai legato al PNRR (Piano Nazionale Razionamenti e Rovina), condannandoci a seguire tassativamente una lista di suicidi economici per avere in cambio una manciata di denaro a rate. E in prestito, per giunta. Un’umiliazione a cui solo un anti-italiano come te poteva sottoporci. Hai diviso la popolazione alimentando un terrorismo vergognoso sulla pandemia, subordinando il diritto al lavoro ad un QR-Code, imponendo a milioni di cittadini limitazioni demenziali e mentendo a reti unificate sull’efficacia di tali disposizioni. Che statista, davvero… Hai spacciato il rimbalzo del gatto morto per ripresa economica e la totale subalternità dell’Italia ai tavoli europei come protagonismo. La Turchia ci sta cacciando a pedate dalle nostre storiche zone d’influenza, nel Mediterraneo siamo assenti e il tuo Ministro degli Esteri conosce la geopolitica meno della lingua italiana.”
Parole forti, non c’è dubbio, ma come non essere d’accordo? Che poi, se vogliamo dirla tutta, statista Supermario non lo è mai stato. Non è il suo ruolo, e alla fine ha dimostrato ancora una volta che un tecnico a capo del governo non funziona. Nel governo ci vogliono anche i tecnici, ci mancherebbe, ma il premier dev’essere un politico. Magari non uno statista, ma un politico con le palle, quello sì.
Possiamo anche aver sorriso ad alcune sue affermazioni, e in taluni casi ha mostrato una schiettezza e una volontà di andare al sodo più che lodevole. Purtroppo sono i fondamentali che gli mancano, come dimostra la chiusura ingloriosa di questa legislatura, la peggiore della storia della Repubblica: cialtroneria, cambi di casacca in numero impressionante, dabbenaggine, ignoranza (Matera in Puglia è solo un labile esempio), assoluta impreparazione all’esercizio della politica sono i perfetti descrittori che permetteranno in futuro di cercare in biblioteca le cronache di questa assurda vicenda italiana.
Spendiamo ancora due parole sugli effetti collaterali. Innanzitutto la dipartita da Forza Italia di due colonne come la Gelmini e Brunetta. Due personaggi che Berlusconi ha definito stizzosamente “senza futuro”. Diciamo che non ha tutti i torti. Brunetta non è mai stato all’altezza del suo ruolo, mentre la Maria Stella ha brillato come durante un nubifragio. Speriamo che adesso abbia il tempo per visitare la galleria che da Ginevra porta i neutrini al Gran Sasso…
Prepariamoci poi a sventare la fuga di alcuni personaggi certamente destinati alle patrie galere e protetti finora da effimere cappe difensive dai nomi altisonanti (quali ad esempio “Ministro della Salute”). Costoro sanno benissimo che la loro probabilità di essere rieletti è inferiore a quella di un gatto di sopravvivere sul Raccordo Anulare e che appena fuori dal Parlamento un tintinnare di manette gli preannuncerà un futuro a quadretti che difficilmente potranno evitare, soprattutto se sceglieranno l’avvocato tra quelli che hanno fatto il premier in Italia negli untimi tre anni.
Infine, avevamo sperato che lo scioglimento anticipato delle Camere avrebbe almeno evitato che tali cialtroni potessero riscuotere un vitalizio…. E invece no!
Deputati e Senatori non perderanno il diritto alla pensione pro quota di questa legislatura, seppur per una manciata di giorni. Leggiamo infatti su ansia.it: “Le norme che regolano i cosiddetti vitalizi, in realtà una forma pensionistica che scatta al 65esimo anno di età, prevede che si maturi il diritto della quota per i cinque anni della legislatura, quando questa è arrivata a 4 anni, sei mesi e un giorno. La data fatidica è il 24 settembre, mentre le Camere sono state sciolte oggi. Vale la pena di far notare che questa data è stata scelta accuratamente dal Capo dello Stato di concerto col Premier dimissionario.
Tuttavia nella Costituzione (articolo 61, secondo comma) si afferma che “finché non siano riunite le nuove Camere sono prorogati i poteri delle precedenti”, tanto è vero che queste esaminano eventuali decreti urgenti emanati nel frattempo o altri atti necessari del governo, come decreti legislativi di attuazione delle deleghe”.
Riassumendo: le elezioni si terranno il 25 settembre e le nuove camere si insedieranno il 15 ottobre, come prevede sempre la nostra Carta: per 21 giorni Di Majo riceverà la pensione. Consoliamoci pensando che per fortuna almeno Conte non l’avrà!