Chitarra Classica – Segovia e il ‘Maestro insuperabile’


Stefano Grondona narra di qualche sua fonte ispirativa, e d’altro.

Dedizione assoluta e anticonvenzionale alla musica: questa è la cifra distintiva dell’arte di Stefano Grondona, preclara fin dai suoi esordi.
Nato a Genova nel 1958, già allievo di Claudio Capodieci, ha studiato con Sergio Notaro e poi con Oscar Ghiglia. Si è perfezionato con Julian Bream e con Andrés Segovia.
Si è imposto giovanissimo come vincitore dei più prestigiosi concorsi internazionali (Parma, Gargnano, Alessandria, Palma de Mallorca, Città del Messico, Leed’s Castle, Monaco di Baviera).
Andrés Segovia, in un’intervista del 1985, lo menzionò come uno dei suoi quattro allievi più significativi. John Williams, Oscar Ghiglia ed Alirio Díaz, artisti allora già nel pieno della loro maturità, erano gli altri nominati dal Maestro.
Grondona, che ha celebrato nel gennaio del 2019 il suo quarantacinquesimo anno di carriera concertistica, ha contribuito con la sua ricerca interpretativa e storica a un’innovativa visione personalissima e insieme archetipica della chitarra.
Le opere discografiche di Grondona costituiscono un ineludibile punto di riferimento per il pubblico e la critica, ed hanno meritato premi di notevole prestigio: il CD La Guitarra de Torres ha ricevuto nel 1999 la Chitarra d’oro per il Migliore CD dell’anno al Convegno Internazionale di Alessandria ed è stato segnalato tra i migliori CD dell’anno dalla rivista tedesca Klassik Heute; Lo Cant dels Aucells ha anche ricevuto nel 2002 la Chitarra d’oro. Respuesta, dedicato alle opere originali di Llobet, ha ottenuto nel 2007 l’Editor’s Choice della rivista inglese Gramophone, mentre nel 2008 lo stesso CD è stato incluso da La Vanguardia nella collezione di dischi di musica catalana prodotti per le celebrazioni dei cento anni del Palau de la Música di Barcellona. Respuesta, con i CD Sin Palabras, Quadrat d’Or, Humoresque, Homenaje, Evocacions, costituiscono il complesso dell’omnia di Miguel Llobet registrata integralmente per la prima volta. Grondona plays Bach è stato premiato con cinque stelle dalle riviste Musica, Amadeus e Classic Voice. Il CD Nocturnal, del 2013, anche premiato delle cinque stelle di Musica, omaggiò il compimento degli ottant’anni del grande virtuoso inglese Julian Bream con opere composte per quest’ultimo e al tempo stesso celebrò il centenario della nascita del compositore B.Britten e i cinquanta anni dalla composizione del suo Nocturnal after John Dowland op. 70. Il CD Mazurkas y Sardanas, del 2014, è Disco del mese della rivista Amadeus. Seguono le più recenti produzioni La Guitarra Callada, 2017, dedicata all’opera omnia per chitarra di F.Mompou e nel 2018 un CD dedicato a M.M.Ponce, partecipando ad un omnia del compositore intitolata M.M.Ponce – The legend by the legends, per l’etichetta messicana Ad Lib. Il CD Temas de Recuerdos, 2021, viene premiato con cinque stelle da Musica.
La prestigiosa rivista Amadeus ha dedicato a Grondona il numero di agosto 2016 pubblicando il suo CD dedicato a F.Sor, inciso con una chitarra Lacote del 1839.
Le sue dieci tournée in Giappone tra il 1998 e il 2012 sono state accolte dal mondo musicale nipponico con un fervore pari a quello ricevuto a suo tempo dallo stesso Segovia e da Julian Bream. Dal 2004 a tutt’oggi esiste in Giappone un club di fans di Stefano Grondona.
Nell’ambito della musica da camera si distingue l’attività nella formazione del duo di chitarre Stefano Grondona & Laura Mondiello, dedicato al recupero del repertorio arrangiato da Miguel Llobet per il suo storico duo con María Luisa Anido. Grondona è fondatore del quintetto di chitarre Nova Lira Orfeo, iniziativa anche questa rivolta al recupero del repertorio di Llobet per insieme di strumenti a corda pizzicata. Grondona ha suonato insieme al grande pianista Aldo Ciccolini, con il quale ha registrato il CD Salut d’amour. Ha suonato insieme al Quartetto di Venezia, al Giovane Quartetto Italiano, al flautista Enzo Caroli e alle cantanti Sonia Prina e María José Montiel.
Da oltre trent’anni titolare di cattedra presso il Conservatorio di Vicenza, Grondona ha saputo rendere la sua classe un riconosciuto centro pulsante di meditazione strumentale. Tra le innumerevoli masterclass tenute in tutto il mondo quelle di Ponte in Valtellina e di Riva del Garda, datate tra il 1987 e il 2001, si ricordano per il determinante contributo alla formazione di una nuova generazione di chitarristi; a Ponte in Valtellina ebbero inoltre luogo svariati eventi diretti da Grondona come le due edizioni speciali di Ponte di Note (nel 2002, dedicata a David Rubio e nel 2005, La Guitarra Española, dedicata ad Antonio de Torres e a José Luis Romanillos), e la stesura del libro La Chitarra di Liuteria – Masterpieces of Guitar Making (2001), scritto in collaborazione con il liutaio Luca Waldner e con l’editore, scrittore e fotografo Massimo Mandelli.
Per lo speciale rapporto che ha saputo instaurare con gli strumenti del passato, Grondona è stato invitato a tenere recitals sulle chitarre Torres che si trovano al Museu de la Música (Barcellona, 2001, 2003, 2005, 2009, 2012, 2013) e al Palacio de la Guitarra (Ibaraki, 2000, 2001, 2005, 2012), ed a partecipare a concerti in memoria dei grandi liutai, quali Antonio de Torres (Almería 2006, Córdoba 2007), Robert Bouchet (Tokyo 1998) e David Rubio (Cambridge 2001, 2004), con il quale Grondona aveva collaborato tra il 1992 ed il 1999.
Ha collaborato con l’edizione Camino Verde concorrendo al numero della rivista Orfeo Magazine dedicato ad Antonio de Torres, nonché ai due libri Vicente Arias Le luthier oublié (2021) e Bruno & Catherine Marlat René Lacote – Luthier à Paris (2022).
Stefano Grondona vanta una prestigiosa attività editoriale con Ricordi, Suvini Zerboni (J.S.Bach Toccata BWV914) Gendai Guitar (J.J.Froberger Tombeau and two Suites), Chanterelle (J.Arcas Selected works). Il rinomato editore Michael Macmeeken, già fondatore di Chanterelle, ha creato la casa editrice Guitar Heritage per il monumentale progetto editoriale di Stefano Grondona dedicato all’opera Miguel Llobet Works, in quindici volumi, integrati da alcune pubblicazioni annesse. Per la stessa Guitar Heritage Grondona ha recentemente curato l’edizione critica dei 24 Preludios di M.M.Ponce e un volume dedicato a sei opere del compositore messicano.
A seguito della sua attività volta alla ricerca e diffusione della cultura e musica catalana, nel 2005 Grondona ha ricevuto il prestigioso Premio I.P.E.C.C. (Institut de Projecció Exterior de la Cultura Catalana).
Il 27 Aprile 2011 Stefano Grondona è stato insignito della più alta onorificenza culturale catalana, la Creu de Sant Jordi, conferitagli dalla Generalitat de Catalunya.
Il 2 giugno 2012 gli è stata conferita l’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine del Merito della Repubblica Italiana.
Il 24 novembre 2013 il Comune di Ponte in Valtellina ha assegnato a Stefano Grondona il Premio Giuseppe Piazzi per l’Arte.
Il 12 gennaio 2015 gli è stata conferita l’onorificenza di Commendatore dell’Ordine del Merito della Repubblica Italiana.
Il 22 settembre 2018 Stefano Grondona ha ricevuto la Chitarra d’oro ‘Una vita per la chitarra’, assegnatagli dal Convegno Internazionale di Alessandria.


 

Stefano Grondona, con chitarra Vicente Arias del 1906

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W.M.: Grazie Maestro per la disponibilità. Il mio intento è quello di diffondere a tanti chitarristi, musicisti e non, uno spazio dedicato alla chitarra classica ed alla liuteria, attraverso il settimanale online “WeeklyMagazine”
Inizierò con chiederLe quali sono stati i suoi inizi ed il successivo percorso di formazione da Lei svolto.

S.G.: Facendo solo allusione a esperienze di contagio musicale dei primordi, si trattava certo di musica classica ma anche d’altro tipo, io direi che all’inizio della mia prima vera consapevolezza di coinvolgimento totale nella musica ci fu il Don Giovanni di Mozart. Solo anni dopo avrei realizzato che si trattava della prima edizione registrata di quest’opera, nel 1936, diretta da Fritz Busch a Glyndebourne, ma in quei secondi anni sessanta, la mia famiglia si era da poco trasferita a Roma (dalla mia nativa Genova), per me era soltanto quel complesso di tre Long Playing, comprati negli USA da mio padre per un collega e caro amico di famiglia, l’Ing. Tullio Ghislanzoni, e di cui egli aveva anche voluto comprare una copia aggiuntiva per sé. E così un giorno, in solitudine furtiva, misi sul giradischi quel disco, e un nuovo universo mi si spiegò di colpo, ed era tutto mio. Da lì a venire mi ci rifugiavo, ascoltando quell’opera quanto potevo, pressoché ogni giorno, immedesimandomi nelle figure che da lì emergevano a condurmi nelle trame del ‘dramma giocoso’ di Mozart e Da Ponte, trame che assorbivo per sedimentazione, senza troppe spiegazioni indotte, capendone progressivamente la vera trama, che diveniva la mia, e con essa quelle implicate dall’umana condizione di quei variegati personaggi, che tutti mi sentivo di voler impersonare (maschili o femminili che fossero). Coinvolsi mia sorella Francesca che, più giovane di quattro anni, si appassionò al punto di contendersi con me il libretto per meglio seguire l’opera…Fu così per il Don Giovanni, come per altre opere liriche che seguirono (Il barbiere di Siviglia, Lucia di Lammermoor, La Bohème, Il Trovatore etc.), i miei erano costretti a comprarci due libretti, per tenerci fermi. Mi dichiarai a me stesso appassionato di lirica, e dunque la cosa si sviluppò e Gigli, Lauri Volpi, Di Stefano, Callas, Scotto etc. diventarono gli idoli.

W.M.: e la chitarra?

S.G.: La chitarra era comunque già apparsa, compratami forse per un mio capriccio, forse perché era uno strumento in voga, magari per antagonismo con qualche compagno di scuola, ma in parallelo alla mia dichiarata passione per l’opera. Intendiamoci, avevo uno strumentaccio pressoché insuonabile, con corde di metallo, che comunque mi affascinava per quel mistero che risiede nel suono delle corde a vuoto, ma senza ancora garantirmi troppa identità. Mio nonno mi aveva insegnato alcuni accordi, ed io comunque amavo accompagnarlo in melodie che lui suonava al mandolino o mi cantava a mezza voce. Il fatto catalizzante venne dopo, quando, data questa mia associazione alla chitarra, mio padre tornò da un ulteriore suo viaggio in USA con due dischi di chitarra per me, uno di chitarra folk, e l’altro…. di Segovia!

W.M.: Sortì dunque un effetto!

S.G.: Inutile dire che l’effetto dell’ascolto di Segovia corrispose a veder coagulare nell’esperienza di quel inaudito fenomeno solistico, chitarristico, ogni pluralità emanata nel mio interno dal Don Giovanni. Da quello che udivo di Segovia scaturiva un teatro di voci, di orchestre, e poi di circostanze, contrasti, associazioni – tutte cose che mi fecero riconoscere me stesso in quella veste di ‘chitarra’. E chitarrista mi volli così sentire, definitivamente, avevo allora dieci anni. Visto che di ‘chitarra classica’ si trattava, di studiare la chitarra si argomentava, anche se per me la cosa aveva già assunto l’obiettivo di impersonare ‘quella chitarra’ associata unicamente a Segovia. E così fu in seguito, in autonomia, oltre ogni possibile, seppur utile intervento di ciascuno dei miei effettivi maestri. Il mio rapporto principale rimaneva quello con Segovia. Poco m’interessavano gli altri fenomeni del momento, Bream, Williams, Díaz – gli preferivo Segovia. Imparai piuttosto ad apprezzarli più in là, Julian Bream e Alirio Díaz immensamente, John Williams, unanimemente idolatrato dai miei compagni di studio, non lo sopportavo allora, né lo sopporto troppo adesso, pur sempre nel rispetto della sua statura di strumentista, ormai meritatamente storicizzata. A me piaceva quel che si emanava dalla chitarra di Segovia, e questa fu l’unica ragione che mi fece insistere sul forgiare la mia identità di chitarrista. Il resto furono le infinite tappe di vita. Alla mia parabola artistica concorsero poi molti altri riferimenti extra-chitarristici, come Arturo Benedetti Michelangeli, Alfred Cortot, Arthur Schnabel, Vladimir Horowitz, Elizabeth Schwarzkopf, Glenn Gould, Sergiu Celibidache etc. ma tutti questi lasciamoli per altre occasioni.

W.M.: Ebbe comunque dei maestri?

S.G.: Naturalmente ebbi dei maestri. Il primo insegnante fu il carissimo Claudio Capodieci che, dall’ottobre 1969, fu il maestro dei miei primi passi. Egli ebbe il lodevole pregio di familiarizzarmi a una forma di rigore: se le mie esecuzioni degli studi di Sagreras non erano ineccepibili, non mi mandava avanti.

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Roma 2018, Stefano Grondona con il suo primo insegnante Claudio Capodieci

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Claudio fu a suo modo docile, uno spirito gentile, e soprattutto una persona di nobile umiltà. Di fatto quando mi presentai a lui dopo le vacanze estive del 1972, che avevo passato, contro ogni sua autorizzazione, a studiare la Ciaccona di Bach (che oggi giorno risuona senza troppi pudori nelle mani di chiunque, ma che all’epoca era opera moralmente intoccabile), e con essa altro repertorio importante, all’udirmi suonare fu Claudio stesso che insistette affinché andassi a studiare con Sergio Notaro. Di Notaro, mi disse Claudio, si narrava che avesse un carattere complesso, difficile, ma che se lo si ascoltava suonare dandogli le spalle si aveva l’impressione che Segovia stesso fosse lì a suonare in quella stanza. E posso anche ora assicurare che era fondamentalmente vero! Come anche posso confermare che persona difficile Sergio Notaro lo era. Al di là di una sua sorniona innata simpatia, sempre condita di fine umorismo, aveva una caratura artistica senza pari, tutti elementi che pur erano anche associati a un fatalismo disfattista che poteva ridurre a zero ogni cosa. Sergio Notaro era un idealista utopico, un sognatore, un musico sincero.

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Roma, gennaio 1975, Sergio Notaro con Stefano Grondona

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In quell’ottobre 1972 andai da lui a studiare con grande entusiasmo, soprattutto a seguito del mito che in lui si coltivava di Segovia, ed ebbi in lui il più sincero complice per muovermi sul percorso che, tra aneddotica e studio intenso, più mi avvicinasse al mio esistenziale obiettivo segoviano. Ancora ricordo con emozione le lezioni su Fandanguillo e Sevillana di Turina, Sonata di Castelnuovo-Tedesco, Suite Compostelana di Mompou etc.

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Roma, aprile 1973, Stefano Grondona quattordicenne con la sua prima Ramírez

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W.M.: E Oscar Ghiglia?

S.G.: La storia che mi portò a Ghiglia si apre con un curioso aneddoto: nell’aprile del 1973, all’indomani di un concerto di Segovia a Roma – un Segovia particolarmente antico, ieratico e catalizzante – andai a lezione e trovai Notaro decisamente ombroso, riflessivo, come messo in crisi da un incombente senso di responsabilità a rimettersi in gioco con il suo suonare in pubblico. Da anni egli di fatto aveva interrotto la sua carriera solistica, cedendo a una forma di personale disillusione esistenziale… Ma prima della ripresa dei concerti, Notaro mi diceva di voler ripartire con un ritorno alla ‘fonte’, recandosi presso i corsi di Santiago de Compostela! Forse un pellegrinaggio di espiazione verso quel luogo dove anni prima aveva studiato con Segovia? Da anni Segovia non andava più a Santiago, aveva lasciato in sua vece il virtuoso alicantino José Tomás. Ma si diceva che quell’estate Segovia, e questo si diceva ogni anno, sarebbe forse tornato; e Notaro lo avrebbe forse reincontrato lì… In quel 1973, diceva Notaro, avrebbero anche viaggiato da Roma per Santiago tanti altri personaggi, tutta una tardiva generazione di chitarristi che si sarebbe finalmente mossa – e forse già ormai più per il più ‘avanguardistico’ Tomás che non per Segovia! Mi sentii entusiasta del desiderio di poter essere anch’io della partita, forse vedere Segovia da vicino, e osai un: ‘Vengo anch’io!!?’. La risposta?… ovviamente seguì l’epico refrain: ‘No, tu no!!’. E Notaro aggiunse: ‘Per te il viaggio a Santiago è prematuro! Piuttosto…. c’è Titti (nomignolo con il quale Oscar Ghiglia era appellato fin da bimbo, credo così battezzato dal fratello maggiore Diego) che viene in Italia e da una masterclass a Gargnano, perché non vai lì e ti fai un po’ di esperienza…?’. Fu così che nel settembre 1973, partecipando alla prima edizione degli Incontri Chitarristici di Gargnano, che celebreranno in questo 2022 la loro cinquantesima edizione, incontrai così Oscar Ghiglia e pressoché subito riconobbi in lui non solo il trascendente artista che nella sua figura si è unanimemente affermato, ma in Ghiglia elessi il mio mentore per gli anni a venire – la personalità chitarristica e musicale certamente per me più stimolante e con la quale potessi confrontarmi.

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Gargnano 1973, Grondona e Ghiglia alla prima edizione degli Incontri Chitarristici di Gargnano

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W.M.: Cosa l’avvinse in particolar modo di Oscar Ghiglia?

S.G.: Oltre una matrice artistica eminentemente segoviana, di Ghiglia mi avvinse l’austera visione classica, colta, non folklorica e scevra da ogni eccesso caricaturale di ‘bravura’ del ‘suonare la chitarra’. Inoltre la visione di Ghiglia del repertorio bachiano e l’accesso alla ‘grande forma’, in particolare quella delle suites per liuto, rappresentavano una reale avanguardia, soprattutto nell’ambito della chitarra. Tutto questo io lo intesi da subito, con chiarezza, avevo quindici anni. Inoltre, io mi riconoscevo già in quel repertorio bachiano come in una mia estensione altra dal repertorio identificativo di Segovia, un territorio musicale più astratto che mi rivelava a me stesso oltre ogni radice segoviana. Ero evidentemente già proiettato a quella spinta interpretativa che vedevo nascere in me medesimo dalla mia propria sensibilità e già sentivo che quest’ambito mi avrebbe prima o poi condotto al ‘cambiamento’. Per dare chiusa all’aneddoto in sospeso, la storia del viaggio a Santiago de Compostela finì poi nell’ordinario: anche in quel pur fatidico anno Segovia non si fece vedere, ed io ancora oggi considero la deviazione su quel corso di Gargnano la mia vera fortunata occasione.

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Gargnano 1977, Oscar Ghiglia e Stefano Grondona

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Da allora cercai di studiare con Ghiglia ogni volta mi si presentasse una possibilità d’incontro con lui, nei suoi passaggi italiani durante i suoi intensi giri concertistici. Peraltro Ghiglia viveva all’estero, ed io in inverno frequentavo il Liceo. Naturalmente l’estate era tutta per la chitarra: vedevo Ghiglia ai corsi di Gargnano e, dal 1976, a Siena, dove l’Accademia Musicale Chigiana aveva proprio in quell’anno ripristinato con Ghiglia quella classe di chitarra che era stata di Segovia e per qualche edizione di Díaz, ma che era stata sospesa per oltre dieci anni.

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Siena 1980, Accademia Chigiana

Grondona esegue Sonatina Meridional di Ponce al concerto di fine corso

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W.M.: Andrés Segovia l’ha menzionata tra i suoi quattro allievi più significativi. Che ricordo ha del grande maestro andaluso?

S.G.: Della figura di Andrés Segovia, del Maestro, del mio Maestro, ho un ricordo immanente, vivo e produttivo, non certamente fissato in una nostalgica memoria del passato, bensì attivo, evolutivo, presente fin nei miei giorni attuali. Già in quel giorno di maggio del 1980, che Segovia stesso mi aprì personalmente la porta del suo studio all’ultimo piano della sua casa di Madrid per un primo incontro, in cui il Maestro avrebbe concesso audizione a questo sbarbato ventunenne che prometteva cose, mi rapportai per la prima volta con la sua maestosa presenza fisica, confrontai la mia esile esistenza con la vastità del suo presente. Fino ad allora Segovia era stato per me tutt’altra cosa! Era stato il frutto del mio fantasticare, dei miei sogni, delle mie invenzioni riferite alle sue tante e differenziate immagini prese da ogni epoca della sua lunga esistenza: a partire da quella copertina del primo disco, quello che mi aveva indotto, vocato alla chitarra, che era una foto di un Segovia degli anni 40, per passare poi per altre foto che mostravano un Maestro ben più anziano, fino a quelle della sua austera vecchiezza.

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Segovia ritratto a metà degli anni ‘40: cover del LP che iniziò Grondona alla chitarra

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Tutte le versioni iconografiche di Segovia mi erano state di entusiasmante guida nell’indagare sull’impostazione di quelle sue miracolose grandi mani, immagini a me imprescindibili per carpire qualche sua segreta maniera, o movimento utili ad ottenere quel ‘suono’ emotivamente così lacerante per il mio sentire. Segovia era stato per me fino a quel momento un’entità astratta, da me inventata come conseguenza di quanto emanato dalla sua musica, da quel ‘suo suono di chitarra’ che andava certamente oltre il ‘suono’ del generico strumento ‘chitarra’ nelle mani di chiunque altro. E in quel momento io ero lì di fronte a lui, e compresi in un attimo che quel molteplice Segovia che parlava alla mia immaginazione attraverso i suoi dischi, ora era univocamente condensato lì, ed era una persona viva, reale, vera, e somigliante, ma pur diversa dal Segovia che avevo coltivato in me. Pur lontano, iconico, antico, quel vero Segovia mi parlava davvero (e mi narrava cose circa il suo imminente viaggio in Giappone, che avrebbe fatto con un aereo allestito con stanza da letto…). Ma io ero lì anche per suonare per lui, non solo per contemplarlo. E bene o male suonai, feci il mio pezzo forte di quell’epoca, la Sonata di Castelnuovo-Tedesco. Poi gli suonai il Preludio di Bach BWV995. Da allora si aprì un’epoca in cui i miei incontri col Maestro si cadenzarono tra un’occasione e un’altra: a breve seguì quella di un premio assegnato a Segovia a La Fenice di Venezia, nel settembre di quello stesso 1980. E poi altre due, in un ben più intenso 1981: la masterclass a Granada a giugno (lì suonai per lui la Sonata III di Ponce, La Maja de Goya e la Danza Española no. 10 di Granados) e il Segovia Guitar Competition di Leed’s Castle, in Inghilterra a ottobre, occasione in cui ebbi modo di suonare in sua presenza un vasto repertorio culminante nel Concierto del Sur di Ponce nella prova finale.

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Granada, giugno 1981: frontespizio della Sonata III di Ponce con dedica di Segovia

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Granada, giugno 1981, Grondona suona per Segovia la Sonata III di Ponce

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Granada, giugno 1981, Grondona suona Granados per Segovia

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Al di là di ogni risvolto competitivo del concorso, il mio spirito era sempre tutto rivolto a far arrivare a Segovia un mio segno di ritorno, a dirgli che qualcosa di lui era in me e che io volevo esprimergli gratitudine: non aggressiva auto-affermazione, soltanto immensa devozione e gratitudine. La storia di quel concorso è poi alquanto nota, con tutti i particolari che hanno creato il mito di quell’evento, dai suoi risvolti più tragici a quelli più picareschi! A parte il discorso su Segovia io sono grato a quell’occasione per l’incontro con Paul Galbraith, con il quale posso vantare una fraterna amicizia, vissuta alla luce di una sincera vicendevole considerazione senza riserve. Di fatto Segovia, a concorso compiuto, si volle esprimere già apertamente nei miei confronti tramite una lettera di elogio in cui ufficializzò il suo patrocinio sulla mia figura artistica!

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Leed’s Castle, ottobre 1981:

Segovia e Grondona durante la premiazione del Segovia Guitar Competition

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Londra, 1981: lettera di Segovia

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W.M.: Incontrò ancora Segovia dopo il concorso di Leed’s Castle?

S.G.: Lo incontrai ancora, ripetutamente, soprattutto lo intercettavo presso il Westbury Hotel di Londra dove ogni anno il Maestro alloggiava quando era in tour inglese, io ero frequentemente in Inghilterra per suonare i miei concerti. Lo vidi poi ancora nell’autunno 1985, a Londra.

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Londra, 1985: ultima dedica di Segovia a Grondona

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E poco dopo Londra rividi Segovia a Roma, e fu questa l’ultima occasione in cui suonai per lui, proponendo questa volta al suo vaglio la parte di me più evoluta in altra da quella del suo stile, con le mie Suites di Bach (in quegli anni ho eseguito più volte in un concerto tutte le quattro Suites per liuto). Quel giorno, successivo al suo concerto a Roma, Segovia mi ricevette alle otto del mattino, era ancora in pigiama e vestaglia! Si sarebbe poi dovuto preparare per essere ricevuto da Papa Giovanni Paolo II. Gli eseguii i due preludi di Bach, BWV1006 e BWV997, e pure tre danze di Granados, la no. 1, no. 4 e no. 12, che però erano altre da quelle che Segovia eseguiva. Fu una specie di congedo comprensivo dell’assoluzione, o meglio del benestare del Maestro affinché io affrontassi i paradigmi di un mio futuro che sarebbe stato forse cangiante. Fu proprio quella volta a Roma che il Maestro fece il mio nome quando in un’intervista gli fu chiesto di nominare i suoi allievi di cui andasse più fiero. Lo rividi anche a Milano pochi giorni dopo, un concerto meraviglioso con pubblico delirante di fronte alla maestà di questo grande personaggio, e ancora ci parlammo dopo il concerto. Il 1987 fu l’anno della sua scomparsa terrena, in cui mi si vuotarono gli orizzonti e mi sentii davvero solo! Ma successivamente dovevano emergere nuove fasi della mia vita in cui di Segovia si rivelarono ancora vivide e differenziate vesti.

W.M.: Nel corso della Sua intensa attività concertistica, ha utilizzato molte chitarre privilegiando quelle storiche del periodo a cavallo dall’ottocento inizio novecento. Questa ricerca da cosa nasce?

S.G.: Il discorso organologico è nato da una mia esigenza esistenziale di sconfiggere uno stato di noia e d’insoddisfazione che mi opprimeva a partire dalla metà degli anni ‘80. All’epoca di fatto lo strumento che avevo nelle mani, e da anni, era la chitarra di José Ramírez III. Sentivo la necessità di un cambiamento, così, frequentemente, mi recavo a Madrid e passavo intere giornate nell’atelier del costruttore a provare decine di strumenti per cercarne uno che mi offrisse una voce diversa. E diversamente, e preferibilmente, sentivo che mi rispondevano soltanto le due chitarre Ramírez del 1960 e 1963, con piano armonico in abete, che anni prima Segovia aveva usato in concerto e in disco, e che Ramírez teneva orgogliosamente in mostra dietro una vetrina. Così mi misi in testa che la mega produzione di strumenti in quegli anni 1980-1985 avesse incrementato la rigidità del modello. Ogni volta uscivo comunque insoddisfatto, trovando che il suono degli strumenti che mi erano offerti in prova ricadeva comunque in uno standard troppo conformato ad una esigenza di volume che dominava sul valore modulativo implicato nel suono di me interprete. Sentivo di non poter accedere a gradi di ulteriore introspezione nel trasdurre il mio suono in un altro, diverso da quello che lo strumento mi imponeva.

W.M.: Aveva suonato strumenti di altri liutai?

S.G.: Sì, certamente, avevo suonato Kohno tra il 1976 e il 1979 e poi Fleta tra il 1979 e 1981. Erano questi gli altri strumenti allora in voga, alternativi a Ramírez. Ma tutti comunque, e soprattutto quelli che come Ramírez preferivano l’uso del cedro per il piano armonico, ricadevano in una dimensione di maniera, rispondevano a quello che io chiamerei ‘gusto di stato’!

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Stefano Grondona in concerto a L’Aquila nel gennaio 1978, con chitarra Kohno

W.M.: Come spiega il grande esito delle chitarre Ramírez?

S.G.: Di fatto José Ramírez III era riuscito ad avviare una produzione in larga scala di uno strumento di degnissimo livello, ma soprattutto era riuscito a mettere nelle mani di tanti chitarristi, professionali o no, lo strumento che suonava Segovia… Si trattava certamente dello strumento che Segovia sì aveva suonato, ma solamente nell’ultima parte della sua gloriosa carriera. Era l’epoca di quegli ultimi venticinque anni nei quali il suo ruolo era assurto al dover proiettare la riconoscibilità del proprio mito in sale sempre più ampie, per le quali il criterio di udibilità del gesto sonoro del Maestro, fosse questo espresso anche attraverso il miracolo di pochi suoni allusivi al mito, prevedeva che ameno un alito di quei colori essenziali giungesse dalla lunghissima distanza a ogni destinatario. Il modello Ramírez questo servizio lo rendeva benissimo. Peraltro era strumento solido, che poteva viaggiare senza subire troppe conseguenze ai cambi climatici.
In quegli anni il binomio Segovia-Ramírez fece assurgere a moda le caratteristiche foniche di quel modello organologico, che attecchì e fece cultura di massa proprio nell’illudere ogni chitarrista di avere un ‘suono’, soltando perché il suo strumento gli confezionava il ‘suono’, e ancor più illudendolo che ‘quel suono’ era proprio quello della chitarra di Segovia.
Non estendo ora l’argomento di quegli anni all’epoca attuale e a quelli che sono i ‘modelli di stato’ di oggi, vedendo, quarant’anni dopo, il suono Ramírez soppiantato da archetipi ancor più estremi e dominanti nel farsi moda e convinzione di massa nel chitarrismo attuale, e soprattutto trascendo su quel che nell’immaginario comune si qualifica oggi come ‘qualità’ nel ‘suono di chitarra’!

W.M.: Quindi, tornando al suo stato d’animo di quegli anni ’80…Ci fu qualcosa che cambiò le cose?

S.G.: Tornando a quegli anni ‘80, io già collaboravo con amici liutai al tentativo di costruire strumenti più similari alle Ramírez dei primi anni ‘60. Tuttavia mi sentivo in una situazione di completo stallo. Le cose mutarono d’un tratto quando, preso da disperazione, chiesi al compianto amico Pedro Pérez, l’impiegato di Ramírez che mi assisteva nella ricerca di una Ramírez dal suono ‘ideale’, di farmi provare altri strumenti che giacevano nelle teche di vetro dell’atelier quali reperti museali, a rappresentare una storia evidentemente ‘superata’ dal ‘progresso’! Fu così che misi mano a una Simplicio del 1931 e a una Torres del 1854! E mi si aprì subitaneamente un mondo che mi fece intuire, progressivamente, in un febbrile mio crescendo degli entusiasmi, che Segovia era sì giunto alle sue Ramírez degli ultimi venticinque anni della sua carriera, ma sicuramente portandosi dentro di sé un intero bagaglio di esperienza che affondava le proprie radici in strumenti, incordature, repertori dei quali a noi non era stato concesso di sapere molto. Noi eravamo diretti figli dell’epoca Ramírez, delle corde di nylon, e l’icona Segovia ci era stata imposta dalla generazione dei nostri maestri nella forma in cui anche essi lo avevano conosciuto, e cioè in quella più ‘attuale’, più apparentemente ‘progressista’.
Io soltanto anni ed anni dopo scoprii che quel Segovia del mio disco iniziatore aveva registrato quei brani nel 1944, con la chitarra Hauser I del 1937 e con corde di budello e seta.

W.M.: quali furono i passi del suo riscatto da quel mondo che le stava stretto?

S.G.: ll mio diretto contatto collaborativo con liutai giovani interessati a associare il loro progredire alle mie tappe artistiche (prima Luigi Locatto, Lorenzo Frignani, seguiti poi da Luca Waldner, Enrico Bottelli, Gabriele Lodi, e anche dai tedeschi Gerhard Oldiges e Fritz e Janis Ober o dal giapponese Masanobu Matsumura etc.) ha favorito un continuo approfondimento del tema organologico nell’ambito della liuteria contemporanea. Così è stato anche un rapporto confidenziale, alle volte fin conflittuale, con gli affermatissimi liutai del nostro tempo: José Luis Romanillos (il cui meraviglioso libro su Torres a metà degli anni ’80 fortificò la mia già consapevole presa di coscienza per una effettiva storia della liuteria della chitarra, tutta da rivalutare), che avevo conosciuto al concorso di Leed’s Castle, e David Rubio, che mi onorò della richiesta di collaborazione quale suo referente musicale, cosa che fu dal 1992 al 2000, anno della scomparsa del grande costruttore.

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Stefano Grondona con David Rubio, esaminando una Simplicio 1929 in Satinwood, Cambridge 1994

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Stefano Grondona con José L. Romanillos e Marian Harris, Guijosa 2006

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La mia traiettoria verso uno strumento alternativo era comunque duplice: da un lato mi muovevo nel presente collaborando con i liutai del mio tempo, dall’altro approfondivo la conoscenza degli strumenti del passato, che giacevano come dimenticati, e che invece ai miei nuovi occhi custodivano il loro segreto in attesa che qualcuno venisse a ridargli voce. E questa non sarebbe stata per me una voce antica, ripiegata nel culto di un polveroso passato perduto. Sarebbe divenuta per me la voce del mio presente, un vitale nuovo mezzo sonoro per accedere a quel futuro che la stabilizzata cultura sentivo mi ottenebrava.

W.M.: Quindi si trovò ad andare controcorrente rispetto alla ‘Ramírez di Segovia’?

S.G.: Già, e qui si aprirebbe ancora una nuova fase del mio rapporto con la figura di Segovia, proprio alla fine degli anni ‘80, una fase che voleva vedermi lottare per conquistare la mia liberazione dal peso del suo mito, pur senza la mia minima intenzione a demolirlo, e tanto meno a rinnegarlo! Troppo facile assumere posizioni in isterico conflitto per credere di superare un Maestro comunque insuperabile.
Questa terza fase mi fu ispirata proprio dall’ingresso nel mondo espressivo degli strumenti di Torres, Manuel Ramírez, Santos Hernández, Domingo Esteso, Enrique García, Francisco Simplicio. Erano tutti questi gli strumenti dell’epoca giovanile di Segovia.
Segovia di fatto aveva condito di aneddoti l’immagine con la quale proponeva il proprio mito al suo pubblico, principalmente stigmatizzandone l’origine nel fatto di essere dovuto diventare allo stesso tempo ‘maestro ed allievo di se stesso’. Molto poco Segovia diceva di quanto ci fosse effettivamente stato prima di lui, e ancor meno, se possibile, avrebbe detto di coloro ai quali forse poteva anche essere debitore di qualcosa.
Fu questa la mia chiave d’accesso: portarmi sul versante misteriosamente sconosciuto dell’astro Segovia, quello in cui il personaggio mi si sarebbe rivelato pur nella sua essenza, ma regredito alla sua misura d’uomo, financo di un giovane uomo, visto reintegrato nei paradigmi del suo antico tempo.

W.M.: Quindi gli strumenti furono chiave d’accesso verso qualcosa d’altro. Anche verso qualche personaggio?

S.G.: E a riportarmi a questa condizione di indagine contribuì il richiamo che esercitò su di me la figura di Miguel Llobet. Le meravigliose Danzas Españolas no. 5 e no. 10, o La Maja de Goya, che con Torre Bermeja, Sevilla di Albéniz avevano da sempre ruolo fisso nei programmi di Segovia, di fatto esse erano state emanazioni di Llobet intorno al 1915-1918, quando il giovane Segovia era passato per Barcellona e si era appunto incontrato con Llobet. Ma di Llobet, scomparso nel 1938, dal dopoguerra si era di fatto perduta ogni traccia. L’edizione di opere originali e trascrizioni di Llobet che, a partire dal 1964, aveva fatto l’editore Union Musical Española, non aveva ricevuto alcuna considerazione da parte del mondo chitarristico (a parte forse la collezione di dieci arrangiamenti di canzoni catalane), così impregnato del mito che Segovia aveva saputo costruire di sé, un mito che faceva ancora al tempo fulcro su arrangiamenti che venivano da Llobet. Le versioni originali di Llobet recavano peraltro diteggiature assai più artificiose, che gli stessi insegnanti, piuttosto che tentare di comprendere, screditavano presso gli allievi, pur di applicarvi ogni imprescindibile correzione per convertirle all’ortodossia della versione segoviana.
Fu il provare la chitarra di Antonio de Torres a rivelarmi che ogni suo suono rispondeva a meraviglia a quelle dinamiche indicate nelle mirabolanti diteggiature poste da Llobet ai suoi arrangiamenti, tutte risposte che nessuna chitarra dei miei tempi avrebbe mai potuto rendermi.

W.M.: Le apparve dunque Miguel Llobet?

S.G.: Llobet mi apparve dunque come la figura di un vero fenomeno di creatività e cultura, un grandissimo personaggio, ingiustamente dimenticato. Llobet si convertì per me in un Maestro ancestrale, le cui misteriose tracce mi rivelavano progressivamente quelle fonti autentiche, tangibili, che avevano forgiato il mondo espressivo del giovane Segovia. Mi sono sentito responsabilizzato a fare qualcosa a riscatto di Llobet, la cui nobile personalità, se da una parte era stata eclissata da quella di Segovia, così storicamente monopolizzante, dall’altra era stata confinata dai seguaci – epigoni di Tárrega – al riduttivo ruolo di ‘migliore degli allievi di Tárrega’. Vuoi poi per la Guerra Civile Spagnola e poi per la Seconda Guerra Mondiale, scomparendo Llobet nel 1938, egli era certo condannato all’oblio, senza più alcun ruolo nella storia, che si limitò a celebrare il binomio formato da Francisco Tárrega, più semplice ed ispirato iniziatore di una scuola moderna, ed il grande Andrés Segovia, che da solo ha portato la chitarra al suo vertice artistico nell’immaginario collettivo del ventesimo secolo. Miguel Llobet risultava del tutto scomparso, assolutamente schiacciato tra i due menzionati personaggi. Con il tempo mi resi conto che una sorte analoga era toccata anche al predecessore di Tárrega, Julián Arcas, l’amico coevo del grande costruttore Torres nonché l’interprete ed il compositore che aveva dato la prima voce autorevole ai nuovi strumenti costruiti dal geniale liutaio di Almería.

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Miguel Llobet (1878-1938)

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W.M.: Una via appassionata nel muoversi per le tappe della storia!

S.G.: Questo percorso ha letteralmente preso il mio cuore, sia per le continue illuminanti scoperte che il passato offriva alla mia attualità, sia per la ricerca delle fonti più autentiche della mia identità di chitarrista, e sia pure per l’incontro con strumenti che finalmente rispondessero alla mia voce interna di musicista.
Il progressivo emergere ai miei occhi della evidenza del grande modernista catalano Miguel Llobet ha cambiato completamente la mia percezione del trascorso delle cose.
Mi sono sentito al tempo stesso in dovere di proiettare al pubblico il riscatto di questa trascendente figura artistica incidendone l’opera completa in sette CD: la priorità doveva andare ad un prodotto musicale che appassionasse il pubblico a questa figura. Il percorso è poi continuato nel curare un’edizione critica di tutte le opere di Llobet, un lavoro che ho da poco finito di pubblicare in quindici volumi per Guitar Heritage (https://guitarheritage.com/detailview?no=GHE900), e dal quale far emergere, più che in qualsiasi concentrato libro biografico, la potenza reale del poeta Llobet, del grande artista, del sublime chitarrista, e del personaggio modernista che la sua figura incarna.
Llobet è a suo modo entrato a creare nella mia vita una seconda polarità che ha complementato, e certo non ha minimamente scalfito, semmai bilanciato, quanto già sentivo per Segovia.
Questo processo mi ha comunque permesso di cambiare il tracciato della mia orbita personale.

W.M.: Verso quale repertorio si sente attratto?

S.G.: Il repertorio non è un fattore applicativo. Un brano può anche piacerti e può attrarti e farsi affrontare in una lettura, ma prima di arrivare ad una vera identificazione con quel che si suona bisogna oltrepassare la soglia di oggettività per la quale l’interprete ‘esegue’ quel dato pezzo. Superare questa soglia significa convertirsi nella trama genetica di quel brano, sentire di poter emanare, ogni volta che lo si esprime, una distinta verità della sua coerente ed integra morfologia. Ciò significa sentire di poter convertire la propria sensibilità percettiva nel medium tramite il quale il brano sia generato in musica, e non si limiti ad essere una semplice allusione tematica a se stesso.
Come vede parlo in modo apparentemente contorto, ma le assicuro che questo è per eludere ogni attitudine ‘performativa’ dell’esecuzione, che è quanto di più fasullo possa realizzarsi in ambito musicale, nonostante sia quanto di più abitualmente ricorre nell’attuale mondo musicale.
Parlando di repertorio le mie più recenti produzioni sono state molto ispirate da quel mio itinerario per le vie della Catalogna modernista di Llobet, e a parte la musica del Maestro catalano o quella di più diretta influenza segoviana, sono entrato in capitoli affini a queste tematiche dedicandomi a compositori catalani come Pahissa, Cassadò, Mompou, oppure a compositori segoviani quali Ponce o Tansman, però, per questi ultimi, affrontandone opere oltre quel confine dove Segovia aveva fissato il limite del suo interesse.
Ora lo stesso tipo d’interesse lo orienterei forse verso la musica di Castelnuovo-Tedesco, che però d’altro canto vedo oggi estremamente inflazionata ed appesantita da luoghi comuni del ‘chitarrismo d’ordinanza’. Un po’ la reiterazione del processo che da molti anni ha attecchito alla musica di Villa Lobos e che, piuttosto che ispirarmi a farmela amare per quello che è, me l’ha tenuta lontana. Forse un giorno…
L’ideale è che un brano riesca a superare il livello di mera curiosità e cominci a infiltrarsi nelle nostre profondità affettive fino a portarci a offrirgli il nostro alito vitale, un fenomeno che in fondo potrebbe anche verificarsi con un solo suono.
Fino a quel momento il brano non si limita a essere altro che un titolo e un ritorno mnemonico.

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Cover del CD ‘Mazurkas y Sardanas’, Stradivarius 2014

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W.M.: Della sua lunga attività concertistica e didattica ha un ricordo da poter condividere con i ns. lettori?

S.G.: Tra tanti aneddoti ne voglio raccontare uno che trovo particolarmente delizioso. Era il 1996, l’ultima delle dieci edizioni in cui tenni la mia masterclass estiva di Riva del Garda. Nel cast dei docenti di quell’edizione c’era un grandissimo personaggio, Norbert Brainin, primo violino del glorioso Amadeus Quartett. Fu un grande incontro quello con Brainin, con il quale entrai in simpatia, un sentimento che si aggiungeva alla profonda stima che nutrivo per lui, accresciutasi anche grazie alla caratura di quel che egli diceva agli allievi durante le sue lezioni, ad alcune delle quali mi ero affacciato a curiosare. Accadde che quando una sera mi trovavo in un camerino di prova, preparandomi a partecipare a un concerto in cui alcuni docenti della masterclass si esibivano, io ero da una parte e mi scaldavo la concentrazione settandomi i riflessi sul Preludio di Bach della Partita BWV1006. Tutto d’un tratto sento un suono di violino che mi si accoda all’unisono, un suono meravigliosamente affine. Ed era lui, Norbert Brainin, in smoking, che mi si avvicina suonando e sorridendomi sornionamente, con un perfetto affiatamento di ogni cadenzare in cui il brano ci conduceva. Andammo avanti per un bel tratto. Mi chiese poi particolari circa la versione del brano che eseguivo, e nel dirgli cose, gli suonai una buona parte della Gavotte en rondeau. Brainin si fece serio e, compiaciuto, mi disse che il mio suono era insolitamente bello, assai simile a quello di Segovia, che lui ricordava di aver udito in concerto quando aveva dieci anni, a Vienna. Al di là del mio compiacimento per il complimento estremamente lusinghiero, ho in seguito riflettuto sulla sua osservazione e mi è sovvenuto che io in quella occasione avevo in mano una chitarra di Santos Hernández del 1918. Brainin era nato nel 1923 e aveva dunque dieci anni nel 1933, epoca in cui Segovia suonava la sua Manuel Ramírez, che era stata costruita nel 1912 proprio da Santos Hernández, nell’epoca in cui il grande liutaio era appunto un impiegato di Ramírez, prima di mettere su il proprio atelier tra il 1917 e il 1918. Di fatto stavo suonando con uno strumento che sapevo essere pressoché identico a quella chitarra che Segovia aveva suonato nell’epoca in cui il giovane Brainin era in sala ad ascoltarlo. Sarà stata pure la mia suggestione, ma io sono convinto che qualcosa di ‘autentico’ potesse essere davvero passato, e non a caso, a colpire così acutamente la ricettività di quel bambino di nome Norbert Brainin! Sì, questo credo sia possibile e credo proprio di saperlo!

W.M.: Vuole concludere con qualche sua particolare nota?

S.G.: A questo punto, vista la piega presa da questo nostro incontro concluderei coerentemente, completando il quadro del mio rapporto con Segovia. Se del Maestro ho già descritto tre distinte immagini, relative a tre fasi della mia vita, ne offrirei una quarta, che mi rivela ancora un ulteriore Segovia, a me ora vivido nel presente. Questa è la fase in cui la figura di Segovia mi dimostra che quel che si emana dalle sue interpretazioni registrate contiene un messaggio aperto e cangiante, attualizzabile a seconda della mutazione di prospettiva dell’ascoltatore, a seconda dell’evolversi della condizione dell’osservatore. La totale genuinità di contenuto di questo grande artista favorisce ora in me la più consapevole percezione di una sempre rinnovata profondità ed autenticità del suo personaggio. Pur parlandoci Segovia da tempi ormai sempre più in allontanamento, la veridicità del suo gesto e l’originalità del suo ‘suono’ si colorano ai miei occhi di una nuova luce, rivelandomi la mistica trascendenza di una figura inafferrabile, che ti dimostra che ci sono Maestri e Maestri. Non naturalmente volendo enfatizzare alcun senso competitivo, ma in riferimento al ‘suonare’ e al notorio motto circa il necessario protendere di ogni allievo a ‘superare’ il proprio maestro, sono qui a dire che in Segovia si dimostra sempre di più l’essenza della figura di un ‘Maestro insuperabile’, e ciò a prescindere perfino dal fattore di portarsi ad un possibile (se possibile fosse) ‘suonar meglio’ di lui. L’insuperabilità risiede proprio nella succitata autenticità dei contenuti, e sussiste oltre ogni evoluzione della moda, al di là di ogni evoluzione di linguaggio o di gusto. Bisogna portarsi ad essere grandi maestri per comprendere a fondo, con debita umiltà e rispetto, quanto altri grandi maestri siano stati capaci di entrare in quell’aurea dimensione che è ‘l’insuperabilità’! E Segovia al mio attuale sguardo risulta essere proprio uno di questi.

W.M.: E Miguel Llobet?

S.G.: Miguel Llobet fu altro ‘Maestro insuperabile’, e Segovia sono convinto che questo lo sapesse, e lo avesse pensato per tutta la vita, ma non lo disse mai a nessuno!


RINGRAZIAMENTI:
Stefano Grondona ringrazia Dimitri Milleri per la consulenza editoriale, Antonio De Luca, Valentina Gammaitoni, Andrés Rodrigo López, Alberto Martínez, Francesco Matrone, Josep Melo, Stefano Tracanelli, Luca Waldner e ogni altro non identificato autore delle immagini che accompagnano questa intervista.