Marozia, un’influencer di altri tempi (2a parte)


Ugo di Provenza, uno dei tanti, ma anche il più agguerrito, pretendenti alla mano di Marozia, era un uomo avaro, volgare e mangione. Bevitore gagliardo, amava la buona tavola, il gioco dei dadi e le cruente battute di caccia. Si circondava di concubine ed aveva un debole per contadine e lavandaie, che preferiva sudaticce e scalcagnate. Di statura superiore alla media, di corporatura atletica, biondo e baffuto, più che un re, lo si sarebbe detto capitano di ventura. Formidabile cavaliere e guerriero temerario, una volta calzata la corona d’Italia, distribuì a parenti e consanguinei le più importanti diocesi e le più ricche abbazie del nord del paese. Nominò “Paggio di Corte” il Vescovo di Pavia, Liutprando da Cremona, filosofo, liberale e filantropo, ed affibbiò alle sue numerose amanti, nomi di divinità greche.
Marozia che, come si è detto, ne aveva sposato in seconde nozze il fratellastro Guido, lo conosceva bene. Sapeva che non era uno stinco di santo e, forse, proprio per questo se ne innamorò, o finse di innamorarsene. Volle ad ogni costo sposarlo. Sussisteva, però, un grosso ostacolo. I due erano cognati e come tali, secondo le leggi canoniche, non potevano contrarre matrimonio, pena la comunica. Di quelle leggi, ovviamente, se ne infischiavano ma, con un figlio Pontefice, finsero inizialmente di tenerne conto. Ugo dimostrò che Guido non era suo fratello, poiché la levatrice, subito dopo il parto, lo aveva sostituito nella culla con un altro neonato. Il Santo Padre, Giovanni XI, diede credito alla versione ed alla fine si diede il via all’affissione delle pubblicazioni. Marozia avrebbe portato in dote la città di Roma, papa compreso. Non vedeva l’ora di essere chiamata “regina” e, magari, un giorno “imperatrice”. Il semplice titolo di senatrice era ben poca cosa per la sua smisurata ambizione. Nel febbraio del 932 Ugo, con un piccolo esercito, lasciò Pavia, dove risiedeva la sua corte, diretto a Roma. Giunto ad un paio di chilometri dalla città, ordinò ai soldati di montare l’accampamento, fuori dalle mura e, con una scorta, decise di varcarle. La nobiltà tutta ed il clero lo accolsero con onori regali e lo accompagnarono a Castel Sant’Angelo, luogo della celebrazione nuziale. Lei, lo attendeva in atteggiamento austero, indossando una suntuosa tunica color porpora, un diadema tempestato di pietre preziose e due braccialetti d’oro, finemente cesellati, attorno ai polsi. Lui, che non la vedeva da anni, fu colpito da tanto ben di Dio, ma la trovò parecchio invecchiata. Non era più la donna di un tempo. La pelle le si era avvizzita ed il volto era pieno di rughe. Come erano meglio le lavandaie di Pavia e le contadine della Bassa!…..avrà pensato. La cerimonia si svolse nel sepolcro di Adriano, davanti al suo sarcofago, ed il Papa lo consacrò. Castel Sant’Angelo era da secoli, la fortezza romana più salda e più attrezzata, una specie di labirinto, praticamente inespugnabile. Tra quelle mura, i due coniugi vi fissarono, per prudenza, la propria dimora e, nella tomba di Adriano, allestirono la loro camera da letto.
Ugo si rivelò ben presto un uomo irascibile e manesco. Un giorno Alberico, il più giovane dei figli di Marozia, che gli faceva da paggio, versandogli del vino, fece cadere a terra, per sbaglio, la ricolma brocca di terracotta, che si ruppe in mille pezzi. Il padrigno, accecato dall’ira, gli assestò un potente ceffone ed il ragazzo, in lacrime, fuggì dal castello, inseguito inutilmente da un maggiordomo e da una muta di cani. Giunto al Colosseo, radunò una piccola folla e li arringò contro il sovrano, accusandolo di aver consegnato la città in mano ai provenzali. La plebe, sempre in cerca di pretesti per qualche redditizio saccheggio, prese subito fuoco. Guidati da Alberico, un migliaio di giovinastri, armati di bastoni e forche, si mise in marcia verso il Castello, le cui campane presero tutte a suonare, per annunciare che stava accadendo qualcosa di pericoloso. Che cosa, di preciso, non lo sapeva nessuno, nemmeno lo stesso sopraffatto Alberico, che voleva solo vendicarsi del bruciante ed umiliante manrovescio ricevuto. Ugo vide, dalla finestra, l’agguerrita folla attraversare Ponte Elio, dal nome dell’Imperatore Aelius Adriano, che lo volle edificare nel 136 d.C., ed avvicinarsi minacciosa. In preda al panico, ordinò alle guardie di sbarrare tutti gli ingressi e, con la moglie, riparò nel sarcofago, in attesa che l’esercito, lasciato fuori le mura, gli inviasse dei rinforzi. Poiché questi tardavano ad arrivare, decise di fuggire. Mentre Marozia dormiva, si calò con una fune dalla finestra e, dopo una breve cavalcata, si ricongiunse ai suoi, guadagnando la via per Pavia. A Roma, Alberico, divenuto padrone della situazione, occupò il castello, imprigionò la madre e relegò nel palazzo pontificio, in Laterano, sotto stretta sorveglianza, il fratellastro, Papa Giovanni XI, colpevole di aver celebrato l’infausto matrimonio.
Quella del 932, fu contemporaneamente una rivoluzione di famiglia e di Stato. Di famiglia, perché i suoi protagonisti erano tutti parenti. Di Stato, perché abbatté il potere temporale della Chiesa e fondò una repubblica popolare. Ed il popolo proclamò Alberico Principe, pur conservando quello, puramente onorifico, di senatore, dal sicuro effetto carismatico sui Quiriti. In realtà, più che repubblica, sarebbe corretto definirla una “satrapia aristocratica”, perché di essa fece parte unicamente la nobiltà, anzi una sola famiglia, quella spoletina, alla quale mancò il sostegno del ceto medio, di cui l’Urbe era priva. I suoi abitanti erano preti, nobili o popolani. I primi campavano di lasciti, i secondi di rendita, i terzi di elemosine. Non esistevano industrie e non c’era il commercio. I Romani difettavano di quello spirito mercantile, che aveva costruito, invece, la fortuna di Firenze e di Milano. Roma, fin dal Medioevo, era una città stagnante, apatica e parassita. Per governarla, servivano due cose, il bastone e la carota. Una volta divenuto Alberico II di Spoleto, le seppe usare entrambe.
Bello, risoluto e di aspetto marziale, possedeva qualcosa del Principe, descritto dal Macchiavelli. Arruolò a proprie spese un corpo di polizia, divise la città in dodici distretti ed a presidio di ciascuno di essi, mise una milizia cittadina, fedele e ben pagata. I sudditi gli giurarono obbedienza assoluta. Chi rifiutò di farlo, si trovò in esilio e con tutti i beni confiscati. Le antiche monete, raffiguranti Ugo, Marozia e Giovanni, furono sostituite da quelle recanti la sua effige. Avocò a sé anche l’amministrazione della giustizia. Fino ad allora i processi venivano celebrati in Laterano, al cospetto dell’Imperatore, del Papa o dei “missi dominici”. Lui adibì i propri palazzi, sull’Aventino e sulla via Lata, a tribunali competenti nel giudicare anche le cause ecclesiastiche.
Alberico era ambizioso, ma a differenza della madre, conosceva i limiti della propria potenza, che era circoscritta entro il ducato romano. La consolidò, assicurando ai suoi concittadini una pace, di cui non godevano da parecchio tempo. Nel 933, un anno dopo la sua rocambolesca fuga, Ugo di Provenza tentò di riconquistare la città, che per una stupidaggine aveva perduto, e di farsi incoronare Imperatore. Assediò l’Urbe, ma non riuscì ad espugnarla. Nel 936 ci riprovò, ma ancora una volta senza successo. Un’epidemia di colera gli decimò l’esercito e lo costrinse ad un accordo con Alberico, che fu concluso, per tramite dell’Abate di Cluny, Odone. Ugo lo suggellò, dando in sposa al figliastro la propria figlia Ada, che aveva avuto dalla prima moglie. Sperava, con quello stratagemma, di rimettere piede a Roma e di cacciare Alberico che, fiutato il tranello, non lo invitò nemmeno al matrimonio. Nel gennaio dello stesso anno, morì Papa Giovanni XI. Gli successe Leone VII, un monaco che godeva fama di santo, e forse lo era davvero, il quale spese tutte le proprie energie per modellare, anche in Italia, quella riforma benedettina, che Bernone prima ed Odone poi, avevano attuato in Francia, con l’intento di riportare un po’ di ordine e di pulizia nel monachesimo occidentale, piombato nella totale anarchia. Nel 939, forse stremato dal logorante impegno, anche Leone calò nella tomba e Stefano VIII cinse la tiara come 127° Pontefice della Chiesa di Roma. Sotto Alberico, i papi non furono che marionette nelle sue mani, votati esclusivamente ai servizi divini. Di certo non lo amavano, anche se a lui dovevano la loro elezione. Tanto è vero che Stefano gli ordì una congiura, ma fu scoperto ed incarcerato. Nel 941, tornò alla carica, ancora una volta, Ugo, che condivideva il trono italico con il figlio Lotario ed aveva sposato, in terze nozze, la vedova di Rodolfo II di Borgogna, Berta. Ma la città eterna tenne duro ed il testardo provenzale dovette definitivamente tornarsene nella nordica Pavia, per giunta, con la coda tra le gambe. Roma era salva ed Alberico II, più in sella che mai.
Marozia, chiusa in convento, morì il 28 giugno 936. Riposa, ancora oggi, nel monastero dei Santi Ciriaco e Nicola, sulla via Lata. Gli studiosi sono sempre stati fermamente convinti, che la sua autorità si sia posata su basi ben più solide e serie, della lussuria e del vizio. Di sicuro ebbe molto ingegno, molta abilità e pochi scrupoli.