Dottore, I love you! Il Transfert


“Il transfert, destinato a divenire il più grave ostacolo per la psicoanalisi, diviene il suo miglior alleato se si riesce ogni volta ad intuirlo ed a tradurne il senso al paziente.” (S. Freud)

Cari lettori, questa settimana vorrei affrontare un argomento delicatissimo, che ogni giorno mette a dura prova la gelosia di mogli e mariti di tanti psicoterapeuti e pazienti: sto parlando del leggendario transfert!
Innamorarsi del proprio terapeuta è tra i luoghi comuni più diffusi e, appunto, temuti.
In realtà, si tratta di una eventualità veramente molto rara laddove la relazione tra clinico e paziente si sviluppa all’interno di un contesto strutturato, dotato di regole precise e obiettivi chiari.
Importante è premettere che l’efficacia di qualsiasi cura è totalmente dipendente dal legame che il medico sa intessere con il paziente, nel caso della psicoanalisi, la buona riuscita della terapia si fonda espressamente su questa relazione, che è basata anche su incontri frequenti e sull’attenzione alle emozioni che emergono durante le sedute.
Su questo legame Freud si è soffermato, lo ha identificato e chiamato “transfert”, o “transferale”, ed ha spiegato che deve fondarsi sulla professionalità del terapeuta, cui è richiesto di infondere fiducia nel paziente senza portarlo però a una condizione di dipendenza.
Amo molto fare riferimento alle definizioni che Umberto Galimberti da nel suo “Dizionario di psicologia” pertanto partirei proprio dalla spiegazione che ne da: “Il transfert designa in generale la condizione emotiva che caratterizza la relazione del paziente nei confronti dell’analista, e in senso specifico il trasferimento sulla persona dell’analista delle rappresentazioni inconsce proprie del paziente. Il transfert dell’analista sul paziente è comunemente denominato controtransfert”.
Lo stereotipo del paziente che perde la testa per il suo terapeuta nasce da un’immaginario sociale che interpreta in maniera teatrale e comunque distorta il percorso terapeutico, processo immaginato da molti come una lunga serie di eccitanti appuntamenti “a tu per tu” , durante i quali il terapeuta sprigionerebbe, oltre a poteri divinatori, tutto il suo irresistibile fascino.
Ovvio che non accade nulla di tutto questo. La psicoterapia è un intervento sanitario a tutti gli effetti, e si rende necessaria in seguito alla comparsa di una psicopatologia, pertanto è mirata alla risoluzione della stessa nel più breve tempo possibile, lungi dall’essere il luogo dove ci si abbandona a flirt e, men che mai, a fantasie di carattere sessuale.
Certo non è assolutamente escluso che accadano episodi di scambio tra terapeuta e paziente ma nel remoto caso in cui ciò avvenga tre possono esserne le cause:
1. una gestione disattenta, ingenua o superficiale del paziente da parte del clinico;
2. un fenomeno tecnicamente chiamato “transfert” che può essere affrontato come parte della terapia e come occasione per favorire nella persona acquisizioni importanti circa il proprio funzionamento affettivo;
3. attribuzioni erronee del paziente, talvolta di tipo delirante, concernenti uno scambio amoroso col terapeuta in cui quest’ultimo é percepito complice.
Analizziamo insieme queste ipotesi.
Partiamo subito col dire che il primo caso paventa un errore professionale in quanto il terapeuta non riesce a tutelare il suo ruolo, né a garantire le regole dell’incontro e del setting. Probabilmente eccede nel personalizzare gli incontri e nel comunicare vicinanza e risonanza emotiva sino a risultare equivocamente ‘seduttivo’ verso il paziente. In questo modo si compromette la validità della terapia, senza contare che, quando il terapeuta diventa eccessivamente presente e zelante nei confronti dell’assistito, irrimediabilmente finisce con l’indebolire l’efficacia del percorso terapeutico a discapito delle persona che dovrebbe supportare.
Attenzione, perché creare un rapporto di amicizia col paziente, non solo è controproducente ma lede la figura professionale e mina l’alleanza terapeutica.
Certo il terapeuta é sempre un essere umano ed é, come tale, fallibile e soggetto anche alle proprie emozioni. Per questo è necessario un costante esercizio professionale e, talvolta, la supervisione di un collega più anziano.
Inutile dire che contatti fisici, messaggistica e telefonate continue o incontri fuori dallo studio che non rientrano nella pura tecnica terapeutica rappresentano senza dubbio degli errori molto gravi. Laddove ci si accorga di un coinvolgimento erotico o sentimentale bisogna interrompere immediatamente le sedute ed inviare il paziente ad altro terapeuta.
Il secondo caso contempla la possibilità che la persona in terapia si innamori dello psicologo sulla base dell’espressione di una digressione, cioè questo avvenimento può essere interpretato come una “resistenza al cambiamento” e una forma di regressione dello status del paziente. Il “transfert”, in questo caso, realizza uno spostamento sulla figura del terapeuta delle dinamiche affettive non risolte e questo evento è ritenuto nelle terapie psicodinamiche un fenomeno connaturato e propedeutico alla terapia stessa.
Ovviamente deve trattarsi di un fenomeno transitorio, che deve essere monitorato ed elaborato congiuntamente. Il terapeuta deve gestirlo con professionalità e consapevolezza, soprattutto nel pieno rispetto del paziente e della sua originaria istanza.
In terza battuta, l’innamorarsi del paziente può ben rappresentare una manifestazione della patologia di cui questi è affetto ed è, quindi, anche prevedibile. Pensiamo a disturbi di personalità come il disturbo narcisistico e quello borderline, non è raro che essi si esprimano anche all’interno della relazione con lo stesso psicoterapeuta. Capita che, in questi casi, il paziente metta in atto con il professionista che lo segue comportamenti seduttivi, fantasie e proiezioni a sfondo sentimentale o sessuale.
Può addirittura verificarsi che il paziente creda di essere contraccambiato o comunque di ricevere veri e propri segnali dallo psicologo, per poi avere reazioni aggressive quando quest’ultimo individua il problema e lo esorta a ridimensionare e circoscrivere all’ambito della terapia queste sue percezioni.
Insisto sul fatto che si tratta di circostanze straordinarie e veramente rare nella misura in cui lo psicologo delimita e chiarisce immediatamente e con assoluta fermezza il proprio ruolo nonché le regole ed i limiti da esso derivanti e ciò prima di tutto per salvaguardare il buon esito dell’assistenza fornita.
A questo punto, però, sono sicuro che vi starete chiedendo: e se è il terapeuta ad innamorarsi del paziente? Beh ovviamente rispondo che in linea di principio questo non deve accadere anche se ammetto che non è un evento impossibile. Tuttavia ritengo che il rapporto terapeuta/paziente sia così tanto sbilanciato ed asimmetrico in termini di ruoli, di potere ma anche di conoscenze che una relazione sentimentale, pur quando si interrompe la terapia, diventa veramente difficile e problematica da intessere oltre poi a rappresentare una questione etica da non sottovalutare, soprattutto per il clinico.
E’ indiscutibile l’influenza che il terapeuta esercita sul paziente per il ruolo che egli riveste, pertanto l’eventualità che egli crei con i propri pazienti un’intimità sessuale o sentimentale certamente non è auspicabile e, se si verificasse, ciò inquinerebbe l’immagine del professionista e certamente provocherebbe il sorgere di perplessità sull’equilibrio emotivo del professionista e sulla sua reale preparazione.

Notazioni Bibliografiche:
• “ I segreti della mente”, V. Andreoli;
• “Amare tradire”, A. Carotenuto;
• “Cinque conferenze sulla psicoanalisi”, S. Freud;
• “Dinamica della traslazione”, S. Freud;
• “La psicologia della traslazione”, C. G. Jung;
• “II mio insegnamento”, J. Lacan;
• “Dizionario di psicologia”, U. Galimberti.