PsicologicaMente: il perdono


“Dobbiamo perdonare sempre, ricordando che noi stessi abbiamo avuto bisogno del perdono. Abbiamo molto più spesso bisogno di essere perdonati che di perdonare.” (Giovanni Paolo II)

Carissimi lettori quest’oggi si parla di Perdono.
E’ un argomento che ci coinvolge spesso e di cui si parla talvolta superficialmente sicché, prima di tutto mi sono chiesto: quale significato ha davvero questa parola?
Di tutte le definizioni date a questo particolarissimo meccanismo che unisce mente e cuore una mi ha colpito e di seguito la riporto, quella di Rye e Pargament secondo cui perdonare equivarrebbe a “lasciare andare le emozioni negative (l’ostilità), le cognizioni negative (i pensieri di vendetta) e i comportamenti negativi (l’aggressione verbale) in risposta ad una considerevole ingiustizia subita e disporsi in modo compassionevole nei confronti del colpevole”.
Orbene, data la definizione, possiamo riflettere sulle principali caratteristiche del perdono.
Inutile dire che la scelta di perdonare è subordinata ad un’offesa psicologica, fisica e/o morale riconosciuta da chi la subisca come cosciente ed intenzionale. Diversamente il perdono risulterebbe immotivato ed impraticabile. Quando una persona ritiene di aver subito un’offesa intenzionale reagisce provando sentimenti di rabbia, desiderando di vendicarsi, evitando il contatto personale e psicologico con l’offensore.
Rispetto a siffatte reazioni il perdono assume un ruolo ed un valore catartico: agevola l’abbandono dei sentimenti negativi e del risentimento, favorisce lo sbiadirsi del ricordo del torto subito.
Il perdono nasce quindi come un atto intenzionale attraverso il quale chi è stato ferito rinuncia volontariamente al diritto di risentirsi.
Ma perdonare non consiste nel mero negare o dimenticare il torto subito, desistere dall’attuare la propria vendetta e comportarsi come se nulla fosse accaduto.
Il perdono è molto di più, è un atto di coraggio con il quale si “chiede alla vittima di accettare nuovamente nel suo cuore la persona che si è resa responsabile della sua sofferenza. Perdonare, dunque, vuol dire rischiare e mettere in gioco la propria fiducia ed il proprio affetto senza aver la garanzia che ciò sarà contraccambiato in futuro”, come ben spiega il filosofo inglese Joanna North.
Perdonare è una scelta personale ed incondizionata, è una strada percorribile a prescindere dall’eventuale pentimento dall’artefice dell’offesa e dalle pressioni esercitate dall’esterno.
Ovvio che il comportamento dell’offensore e quanto accade nell’ambiente circostante possono facilitare il perdono ma resta il fatto che questo è un dono gratuito che un soggetto fa senza attendersi nulla in cambio, senza chiedersi se la persona che lo riceve ne è meritevole oppure no.
Questo dono presuppone certamente la fiducia negli altri, ovvero nelle relazioni, poiché solo questa fiducia può assicurare la circolazione del dono.
Di estrema importanza è considerare il perdono anche quale agente di cambiamento: l’atto di perdonare ci fa assumere una nuova prospettiva degli eventi dolorosi del passato pur tuttavia senza sminuirne la gravità.
Si tratta anche di un gesto che ci consente di rivalutare in termini più positivi chi ci ha offeso, giudicandolo un essere umano e come tale fallibile e limitato, non del tutto diverso da tutti noi.
Perdonare è un processo faticoso, simile all’elaborazione di un lutto: può essere compiuto da soli o con il supporto di una psicoterapia, è necessario passare attraverso diverse fasi, spesso non lineari e che possono implicare ricadute e regressioni.
Smedes utilizza una metafora per definire il perdono che a parer mio è perfetta: ne parla come di un viaggio che porta alla luce. Questo paragone evidenzia una fondamentale caratteristica del perdono, quella di non essere un atto puntuale, ma un processo, in particolare l’esito di un lungo lavoro psicologico, spesso doloroso.
La volontà di perdonare dà inizio a un tortuoso percorso volto al superamento dei sentimenti negativi ed all’assunzione di un atteggiamento positivo nei confronti di chi ci ha fatto del male. E’ uno sforzo che implica allo stesso tempo un atto di volontà e un atto creativo, un modo per riattraversare i propri ricordi, le proprie matrici psicologiche e relazionali, è una novità lungo il nostro percorso di vita.
Si può allora dire che il perdono è un principio di mobilità e fluidità, diverso dal rancore che è invece un principio di staticità e rigidità (proprio come la sofferenza psichica), ed anche un processo di umanizzazione poiché spinge a fare i conti con i propri limiti e la propria vulnerabilità.
Occorre tempo per completare l’iter del perdono, a volte molto. Si tratta di un processo lento che dura in modo proporzionale alla gravità della ferita ricevuta, possono passare anche mesi o anni prima che si riesca a perdonare del tutto, e comunque il trascorrere del tempo di per sé non garantisce lo sviluppo del processo di perdono.
Inoltre, affinché ciò avvenga, è necessario provare a comprendere, anche parzialmente, i motivi di chi ci ha ferito nonché le caratteristiche della propria ferita e della relazione con chi l’ha procurata. Nel corso di questo iter di comprensione è facile sentirsi confusi perché a volte non è più così chiaro ricostruire che cosa sia accaduto esattamente. In ogni offesa c’è qualcuno che ha fatto del male a qualcun altro ma, non di rado, attorno a questo nodo di sofferenza è aggrovigliata una matassa di torti e di risentimenti difficile da sbrogliare, pertanto bisogna raggiungere il perdono passando attraverso questo intrico di sentimenti.
Molte volte persiste ancora un po’ di rabbia perché non si può cancellare il passato, solo provare a lenire la sofferenza che esso ha causato.
Il perdono può guarire l’odio ma certo non può mutare i fatti accaduti, tuttavia è possibile provare rabbia senza odio, ciò avviene quando il perdono avvia il processo di liberazione, allora il rancore si attenua lasciando solo la rabbia. Questo è importantissimo poiché, alleviandosi il rancore si evita che esso possa soffocarci, viceversa la rabbia riesce a darci quella spinta che ci induce ad evitare il reiterarsi del male. Possiamo dire che il rancore è un’afflizione da guarire, la rabbia è un’energia da incanalare.
Ancora va sottolineato che l’iter del perdono non va mai inteso come un dovere, mai si è obbligati a perdonare perché elemento essenziale del perdono è l’esercizio della propria libertà di scelta. Oltretutto, requisito di un perdono libero è il rispetto per chi si perdona, ovvero permettere al perdonato di disporre liberamente anch’egli del nostro perdono, altrimenti questo diverrebbe un tentativo di controllo sull’altro, un mero esercizio di potere, in nome, per esempio, di una presunta superiorità morale.
L’atto di perdonare risulta autorevole e sincero solo allorquando garantisce il rispetto altrui così da consentire a chi ne è destinatario di assumere la responsabilità di ciò che intende farne.
Chi perdona si propone di assumere il punto di vista dell’offensore, ne considera la storia personale, il suo intrinseco valore umano, ne prova empatia e comprensione.
Infine il processo termina quando diventiamo consapevoli che tutti abbiamo avuto bisogno del perdono di qualcun altro nel passato.
E’ allora che perdonare ci riconcilia col mondo e con la vita e ci consente di evolvere e perseguire obiettivi nuovi.
Alla percezione di sé come vittima si sostituisce l’idea attiva di chi va oltre ed a cui possono certamente accadere cose belle perché la vita vissuta “in pace” è un tesoro prezioso e da custodire.

Notazioni Bibliografiche:
– E. Fried,“E’ quel che è”- Einaudi;
– J.T. Godbout, “Il linguaggio del dono”- Bollati Boringhieri;
– P. Ide, “E’ possibile perdonare?”- Ancora Editrice;
– D. Napolitani, “Individualità e Gruppalità”- Boringhieri;
– E.Scabini, G. Rossi “Dono e perdono nelle relazioni familiari”- Vita e Pensiero.