Un Papa socialista?


Fu il primo Pontefice dell’Italia unificata, privato del potere temporale ma aiutato dall’eccezionale periodo storico con il quale coincise il suo apostolato, certamente uno dei più fortunati della storia dell’umanità, considerato sotto il profilo dei conflitti armati. In Europa, tra il 1878 ed il 1903, non vi furono guerre. I pochi conflitti nei quali ebbero parte attiva le potenze europee, furono combattuti fuori dal continente. Se, anche per questo motivo, il 256° Vescovo di Roma e Capo della Chiesa Cattolica non fu né un dottrinario né un apostolo diretto della pace, per la pace lavorò instancabilmente, con tutta la sua azione politica, intesa a fare del Santo Uffizio l’arbitro ideale di ogni eventuale contesa tra i popoli, come naturale conseguenza della missione moralizzatrice e stimolatrice, che egli gli attribuiva.
Papa Leone XIII, al secolo Vincenzo Gioacchino Pecci, era nato a Carpineto Romano, vicino ad Anagni, il 2 marzo 1810, nel Palazzo di famiglia, dal Conte Ludovico e da Donna Anna Prosperi-Buzzi, discendente di Cola di Rienzo. Dopo essere stato alunno dei Gesuiti a Viterbo, assieme al fratello Giuseppe (futuro gesuita e cardinale) ed aver concluso gli studi universitari a Roma, presso la “Accademia dei Nobili Ecclesiastici” e l’Università “La Sapienza”, il 31 dicembre 1837 venne ordinato sacerdote. A seguito di brillanti trascorsi come Delegato papale, prima a Benevento e successivamente a Perugia, nell’aprile del 1843 assunse l’incarico diplomatico di Nunzio Apostolico della Santa Sede, a Bruxelles. Nominato Arcivescovo, il 19 gennaio 1846, dell’amata città umbra, dove rimase per trentadue anni e creato Cardinale nel 1853, salì al Trono di Pietro, il 20 febbraio 1878. È ricordato, nella storia dei Papi dell’epoca moderna, come colui che ha voluto ostinatamente assegnare alla Chiesa un compito pastorale socio-politico. È difficile sostenere quanto, con evidente abuso di enfasi, è stato scritto da alcuni moderni apologeti del cattolicesimo, “che Leone XIII portò la chiesa nel cuore del cantiere sociale”. Persino Pio XI, quarant’anni dopo, riconobbe molto più realisticamente che l’apostasia, il rifiuto cioè, delle masse operaie continuava ad essere inconfutabile. Resta, comunque, il fatto che Vincenzo Gioacchino Pecci fu il primo papa ad avere coscienza delle trasformazioni sociali del suo secolo e non si illuse sulla precarietà del fenomeno, come la maggior parte dei vicini consiglieri e delle autorità ecclesiastiche dei vari Paesi. Nonostante la sua mentalità e le sue origini aristocratiche fossero le meno adatte a favorire una simile presa di coscienza, maturò ugualmente questa convinzione, in un’Italia dal ritardato processo industriale dove, solo nel 1891, venne istituito il Partito dei Lavoratori Italiani e nacquero le prime Camere del Lavoro. Il Partito Socialista Italiano (PSI), quello rimasto attivo fino al 1994, vide la luce solo l’anno successivo. Gli inizi del pontificato non furono certo tali da far prevedere in lui il “papa sociale” che passò alla storia. Nella seconda enciclica, emanata nel primo anno di regno, la “Quod apostolici muneris” (La natura dell’Apostolico Ministero), si scagliò contro la “micidial pestilenza che serpeggia per le intime viscere della società e la riduce all’estremo pericolo di rovina [lett.]”, micidiale pestilenza che attribuiva ad un’unica setta di untori, sparsi per tutto il mondo e tra sé legati di iniqua cospirazione, cioè socialisti, comunisti e nichilisti, “tutta gente”, aggiungeva, “reclutata più che altro tra gli artigiani e gli operai, che hanno preso in uggia il lavoro”. Un punto di partenza tanto radicale e conservatore spiega come mai sia giunto, solamente tredici anni dopo la sua proclamazione, alla promulgazione, il 15 maggio 1891, di una nuova ulteriore enciclica, definita “sociale”, la “Rerum Novarum” (Delle cose nuove), che ribadiva il diritto naturale alla proprietà privata, sottolineandone anche la funzione comune, che attribuiva allo Stato il compito di intervenire efficacemente dinanzi ai problemi economici del proletariato, che ricordava agli operai la serietà nell’assolvimento del lavoro, con la garanzia, però, di un salario sufficiente ad una vita dignitosa e che, pur condannando la lotta di classe, riconosceva ai lavoratori la prerogativa di riunirsi per difendere i propri diritti. In seguito, e per oltre un decennio, si fece spettatore sempre più partecipe ed interessato alle grandi rivendicazioni sociali che, non solo laici generosi, ma anche, e soprattutto, vescovi eminenti, sollevavano e coordinavano nelle principali diocesi europee. Il Cardinale Henry Edward Manning dall’Inghilterra, i Vescovi Wilhelm Emmanuel von Ketteler dalla Germania, Gaspard Mermillod dalla Svizzera e laici, come i francesi Albert de Mun, René La Tour du Pin, Léon Harmel, l’austriaco Karl von Vogelsang, lo svizzero Caspar Descurtins, l’italiano Giuseppe Toniolo, tutti conosciuti ed a lui vicini fin dal tempo del porporato perugino, furono pionieri del movimento sociale cattolico e suoi sensibili sollecitatori. E quando autonomamente si convinse dell’importanza della questione sociale, anche al fine di conservare alla Chiesa le masse popolari, è indubbio che vi reagì a modo suo, cioè senza rinnegare il proprio fondamentale conservatorismo. Se si legge asetticamente la “Rerum Novarum”, sottraendosi all’esaltazione o alla denigrazione eccessiva che accompagnano sempre i grandi documenti storici, non si può non essere colpiti dal fatto di trovarsi di fronte ad un testo indiscutibilmente singolare e moderno. Mentre il pensiero socialista è affrontato direttamente nei suoi postulati fondamentali, del liberalismo economico la lettera papale non ne fa alcun cenno né, tanto meno, lo presenta come sistema ed ideologia. Tutte le recriminazioni o le deplorazioni, anche quelle più vibrate, che vi si incontrano, riguardano abusi concreti di individui senza nome e senza volto. Neppure una frase, in particolare, lascia sospettare l’eventuale collusione fra la classe economicamente dispotica e quella monopolizzatrice del potere politico, invitando, mai accaduto prima di allora, con severa e ferrea determinazione, i detentori dei pubblici poteri ad adottare le misure suggerite dall’enciclica, per realizzare la giustizia e la pace sociale. La “enciclica sociale” costituì un avvenimento capitale, non solo per la storia della Chiesa, ma per il mondo intero. Decine di milioni di cattolici, soprattutto i più attivi ed i più responsabili, appresero dalle labbra stesse di un papa che non solo i problemi dell’economia cadevano nella sfera della morale, ma che, da allora in poi, le esigenze della giustizia avrebbero dovuto precedere, per urgenza e gravità, quelle dell’assistenza caritativa, e che il loro impegno di individui e di credenti, oltre che sul piano ecclesiastico e politico, si sarebbe dovuto manifestare anche su quello della collaborazione tra le classi. E, doveva essere ben chiaro, in maniera non passiva ma, al contrario, dinamica e precorritrice. Come è facile immaginare, e come i fatti si incaricarono di provare, lo “choc” provocato all’interno della Chiesa fu enorme. La maggior parte dei cattolici più in vista e delle gerarchie ecclesiastiche non erano mai stati toccati dal problema ed erano profondamente insensibili e refrattari ad esso, sia per tradizione che per condizione. Si ebbero vivacissime o tacite resistenze, che soltanto il passare del tempo attenuò, senza mai eliminarle completamente. Ma fu, da parte di Leone XIII, una battaglia vinta, vinta anche nei confronti della maggior parte dei governi liberali del tempo, che egli anticipò nel fronteggiare la situazione. Con il passare degli anni, del resto, si persuase sempre più dell’importanza di quella innovativa “rivoluzione” sociale, sino a colorare tutto l’impegno ai suoi riverberi. Recenti studi sulla elaborazione della “Rerum Novarum” hanno evidenziato, in quel papa, il più progressista tra i responsabili del documento. Si dedicò anche ad altri provvedimenti e prese di posizione in materia, dall’invito rivolto all’aristocrazia di contribuire alla reale e fattiva ricostruzione della Società, agli incitamenti ed ai sussidi dati per la fondazione della “Banca Artisticoperaia”, con l’avveniristico progetto (che non fece in tempo a realizzare) di far istallare, in Vaticano, un laboratorio per costruzioni metalliche, dove gli operai potessero addestrarsi gratuitamente al lavoro. Tutto ciò dimostrò che la grandezza della politica di Papa Pecci aveva poco a che fare con il suo eccezionale e brillantissimo dinamismo diplomatico di cui, peraltro, era schiettamente orgoglioso. Sì, fu un grande politico, non solo perché affrontò, contemporaneamente, i problemi degli stati e quelli delle classi sociali, ma perché fu pronto ad accogliere, più come uomo che come Pontefice, qualsiasi appello dei grandi ideali umanitari del secolo, a partire da quello della lotta alla schiavitù. Era adorato dai collaboratori, di ogni ordine e grado, che si sentivano esaltati nel loro operato. Unico ancora una volta, volle tracciare, nell’ultima enciclica, il consuntivo del suo lungo cammino, conscio di andarsene via serenamente soddisfatto.
Negli ultimi venti giorni della sua agonia, alternò preghiere e recitazione di versi latini, esami di pratiche complicate e lettura della Divina Commedia, come se il mistero dell’aldilà non lo turbasse affatto. Vi passò, il 20 luglio 1903, all’età di novantatré anni, il Pontefice (in carica, ad esclusione di quello Emerito) più longevo della dinastia papale. La Domenica del Corriere scrisse: “Leone XIII si è spento, dopo essersi spesso ribellato, con l’ostinazione dei fanciulli e dei vecchi vigorosi, alle ingiunzioni dei suoi medici, a dir la verità senza immediato suo danno”.
La storia della Chiesa avrebbe portato, per sempre, il suo sigillo ed il ricordo della sua grandezza, con l’incontro del mondo, il riconoscimento dei valori della civiltà e del progresso, la mano tesa alle classi più umili, la riconciliazione offerta ai fratelli separati.