Storia e sport, fantastico connubio!


Lo sport ha, da sempre, avuto un ruolo di primaria importanza nel cammino della storia, modificandone, in molte occasioni, l’intero percorso.
Il 10 giugno 1940, alle sei di quel lunedì pomeriggio, il Duce, dal balcone di Palazzo Venezia, a Roma, comunicò alla nazione che, “nell’ora delle decisioni irrevocabili”, l’Italia interrompeva il lungo e forzato tentativo di “non belligeranza”, entrando in guerra al fianco della Germania nazista, dichiarazione già consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia. Erano trascorsi poco più di otto mesi dal 1° settembre del 1939, quando Hitler aveva deciso di attaccare la Polonia, con un Mussolini assolutamente sicuro della rapida e positiva conclusione delle ostilità.
Cosa avvenne fino al giorno prima e con quale spirito gli italiani si avvicinarono al conflitto, lo ha raccontato la puntata del programma di inchiesta e approfondimento “Storie di Matteo Marani”, dal titolo “1940 – L’ultimo giorno di pace”, andata in onda venerdì 7 agosto, alle ore 19, su Sky Sport Uno (disponibile anche On Demand), che ha ripercorso proprio quel 9 giugno ed il tragico quinquennio che ne seguì, con l’obbiettivo puntato proprio sullo sport. Alle testimonianze dello storico Emilio Gentile, dei giornalisti Mario Sconcerti e Giovanni Bruno, ai ricordi di Pippo Baudo, all’epoca bambino, si sono alternati filmati, interviste, foto esclusive ed il video della dichiarazione di guerra, nella versione restaurata, a colori, dallo “Istituto Luce Cinecittà”.
In quella domenica, lo sport ricoprì uno spazio importante. Si disputarono le due semifinali di Coppa Italia, Juventus-Fiorentina e Genova-Bari, ad una settimana esatta di distanza dalla consacrazione dell’Ambrosiana, di Giuseppe Meazza, a Campione d’Italia. Per inciso, dal 1928, “Società Sportiva Ambrosiana”, con tenuta bianca rossocrociata, e non più “Football Club Internazionale Milano” (Inter), dal momento che il fascismo non ne aveva apprezzato il nome, che non rispettava la tradizionale italianità esaltata dalla linea di governo e richiamava troppo esplicitamente a quello della “Internazionale Comunista”. Tra l’altro, lo scudetto era stato conquistato, dalla squadra meneghina, dopo un accesissimo duello con il Bologna del tedesco, di pura razza ariana, Hermann Felsner al quale, l’anno precedente, l’ungherese Arpad Weisz aveva dovuto lasciare panchina e titolo, a causa delle sopraggiunte leggi razziali.
E, sempre in quella giornata, all’Arena Civica di Milano, un ventenne Fausto Coppi tagliò il traguardo, vincendo il primo dei suoi cinque Giri d’Italia, lui che aveva iniziato la propria carriera ciclistica come gregario di Gino Bartali, caduto al Passo della Scoffera, in Liguria, per colpa di un cane, durante la seconda tappa. Orio Vergani, giovane inviato del Corriere della Sera, al termine dell’undicesima frazione di quel Giro, la Firenze-Modena (di 184 km, con il valico dell’Abetone a 1388 m.), scriveva del corridore: “Avevo visto Binda, seduto sul sellino come un ragioniere davanti ad una macchina calcolatrice, straordinariamente sicuro, prodigiosamente placido sotto lo sforzo… Ma adesso ho visto qualcosa di nuovo: aquila, rondine, alcione, non saprei come dire, che sotto alla frusta della pioggia e al tamburello della grandine, le mani alte e leggere sul manubrio, le gambe che bilanciavano nelle curve, le ginocchia magre che giravano implacabili, come ignorando la fatica, volava, letteralmente volava su per le dure scale del monte, fra il silenzio della folla che non sapeva chi fosse e come chiamarlo”.
Il Regime, che fin dalla sua nascita aveva intravisto nello sport uno strumento fondamentale di propaganda per la supremazia della nazione, tanto da trasformare gli stadi in un “teatro per la massa”, non pensò, nemmeno per un attimo, di interrompere il campionato della neonata Serie A (a differenza della Polonia, della Francia e dell’Inghilterra, che si erano viste costrette a sospendere il campionato).
In un’Italia che voleva lanciare al mondo segnali di forza, incarnandosi nei 204 centimetri di altezza e nei 122 chilogrammi di peso del friulano Primo Carnera, immigrato in Francia, approdato alla boxe dopo aver fatto il manovale e il fenomeno da circo. Era il gigante buono, arrivato al culmine della carriera, di pari passo con un governo giunto al suo massimo splendore. Quindi un modello da imitare, i cui muscoli rappresentavano la vigoria dello Stato, un “uomo” invincibile che “non sarebbe mai potuto finire al tappeto” (evidenziando “uomo”, dal momento che i record sportivi femminili, come quelli di Ondina Valli, non furono inizialmente ben visti). I giornali, del resto, avevano l’obbligo tassativo di rappresentarlo solo nel massimo della sua possanza fisica.
Quando fu poi il Regime a “finire al tappeto”, dopo la destituzione di Mussolini, avvenuta nell’ultima riunione del Gran Consiglio del Fascismo, il 25 luglio 1943, con la votazione del famoso “Ordine del Giorno Grandi”, per l’Italia e per gli italiani iniziò il periodo più buio di quel catastrofico lustro, con i bombardamenti a tappeto su tutto il territorio nazionale e l’inizio della lotta intestina.
Il Paese si divise in due, così come si divise il mondo del calcio. Lo special di Matteo Marani ha ricordato che, fino a tutta la primavera del 1942, le partite si svolsero regolarmente, anche se con preoccupanti fastidi legati agli allarmi aerei. Ma dopo l’8 settembre, la Federcalcio si trasferì, in parte prima a Venezia e poi a Milano, in parte restò a Roma, dove continuò a custodire i tesserini e la “Coppa Rimet”. Il Presidente della FIGC (Federazione Italiana Gioco Calcio), Ottorino Barassi, riuscì a proteggere la Coppa dalle sopraffazioni tedesche, nascondendola, in una scatola di scarpe, presso la propria abitazione romana di Piazza Adriana.
Nella stagione calcistica 1943/44, il classico campionato di Serie A fu, alla fine, rimpiazzato dall’inserimento di tornei regionali misti, divisi per zone: Piemonte e Liguria, Lombardia, Veneto, Venezia-Giulia, Mista Emilia, Toscana. Nel girone emiliano, per l’impraticabilità delle strade che conducevano in Piemonte, militò la squadra dei Vigili del Fuoco di La Spezia. Non erano vigili prestati al calcio, ma veri e propri giocatori, arruolati come pompieri. Il loro Comandante, l’ingegner Luigi Gandino, al fine di preservarli da una possibile partenza per il fronte, istituì l’obbligo di vitto e alloggio in caserma, per motivi si sicurezza pubblica. E furono proprio loro, il 16 luglio 1944, a vincere la sfida decisiva contro il Grande Torino, di Vittorio Pozzo. Bani, Borrini, Amenta, Gramaglia, Persia, Scarpato, Tommaseo, Rostagno, Costa, Tori, Angelini restarono, però, campioni senza scudetto. La FGCI stabilì di assegnare solo una coppa federale, come era avvenuto per il Milan, nel campionato 1915/16.
Nel 2002, è bene ricordarlo, dopo le pressioni ricevute per il riconoscimento del titolo, la Federcalcio ha riconosciuto l’alto valore sportivo e morale di quell’impresa, consentendo allo Spezia, oggi neopromossa, di apporre sulla propria maglia, non lo scudetto, ma un simbolo tricolore, in memoria di un’impresa dimenticata.
Così come a lungo dimenticate sono state le storie di Bruno Neri e Dino Fiorini, tracciate in chiusura dello speciale di Marani. Neri, centromediano della Fiorentina e della Nazionale, che si rifiutò, nel 1931, di salutare col braccio teso le autorità intervenute all’inaugurazione del nuovo stadio di Firenze, progettato dall’architetto Pier Luigi Nervi (su espresso desiderio del Duce, che lo volle a forma di “D”), morì a soli 34 anni, come comandante partigiano, in uno scontro a fuoco con i nazifascisti, nei pressi di Gamogna, a due passi da Marradi, sul crinale appenninico tosco-emiliano. Fiorini, considerato “il bello” del prestigioso Bologna, era un terzino veloce e moderno, conteso anche dalle case di bellezza per sponsorizzare i propri prodotti, come una nota brillantina dell’epoca. L’allenatore della Nazionale di allora, Vittorio Pozzo, non lo convocò mai, per quella fama, forse veritiera, di amante della vita notturna e delle belle donne, anche se le sue qualità di giocatore erano per tutti, e rimangono ancora oggi, indiscutibili. Vinse, con la squadra emiliana, quattro scudetti, una Coppa dell’Europa Centrale ed il Torneo dell’Esposizione di Parigi, nel 1937. Morì, con il grado di Tenente della Guardia Nazionale Repubblicana, in un’imboscata, il 16 settembre 1944, dalle parti di Monterenzio, un piccolo comune del bolognese. Il suo corpo non venne mai trovato.
Winston Churchill, ebbe a dire di noi: “Gli italiani vanno alla guerra come si va a una partita di calcio e vanno alla partita di calcio come si va a una guerra”. Difficile affermare, con assoluta certezza, se un tale sarcastico giudizio da vincitore sia da considerarsi del tutto negativo.
Di sicuro la storia e lo sport sono (la realtà di oggi lo conferma) un fantastico ed irrinunciabile connubio!