Un Imperatore senza protocollo (2a parte)


Si è detto, a conclusione della prima parte, che l’impulsività e l’inclinazione di gestire la disciplina tra i propri sudditi a pugni o bastonate, non abbandonarono mai Pietro il Grande di Russia. Nessun intimo dell’Imperatore ne era escluso, benché di solito, dopo la sfuriata, la calma ritornasse presto. Un giorno, accadde un tipico incidente. L’Imperatore stava guidando il suo calesse accompagnato dal Luogotenente Generale Antonio Devier, Capo della Polizia cittadina. Tra le mansioni di quest’ultimo, anche la responsabilità delle condizioni delle strade e dei ponti di San Pietroburgo. Mentre stavano attraversando quello, in legno, sul canale Mojka, lo Zar si accorse che molte tavole mancavano ed altre erano slegate. Di colpo fece cadere il suo bastone sulla schiena del Devier, ma, quando il ponte fu riparato (ed avvenne immediatamente), si rivolse al povero Luogotenente Generale dicendogli dolcemente: “Monta su, fratello, e siediti”. E i due si allontanarono come se nulla fosse accaduto.
I suoi scoppi d’ira potevano essere terrificanti. In realtà egli era cosciente di questa sua grave pecca. Cercò in tutti i modi di correggere quel temperamento violento, ma non vi riuscì mai completamente. “Riconosco di avere i miei difetti”, diceva, “e di perdere la calma facilmente. Per questo non mi offendo quando quelli che mi stanno vicini me ne parlano e se ne lamentano, come fa anche la mia Caterina”. In effetti, la Zarina era la persona che meglio poteva affrontarlo. Non aveva paura di lui e lui lo sapeva. Una volta, per ammorbidirlo, si servì della cagnolina prediletta di Pietro, Lisette, una piccola levriera italiana dal pelame grigio, che lo seguiva dappertutto. Poiché il marito le aveva proibito di presentargli istanze di ogni genere, lei gliene scrisse una, a favore di un membro della corte che riteneva innocente, fissandola al collare della cagnetta. Quando lui notò la petizione, la lesse e, sorridendo, disse: “D’accordo, Lisette, siccome questa è la prima volta che me lo chiedi, accolgo la preghiera”.
Nonostante la sua avversione per le formalità, c’erano alcune cerimonie alle quali partecipava molto volentieri; altre, le considerava come doveri necessari di un Capo di Stato. Soprattutto amava il varo di una nuova nave. Di solito era parsimonioso, ma non badava a spese per celebrare questo tipo di evento. Per l’occasione c’era sempre un enorme banchetto sul ponte del nuovo vascello. Lo Zar, raggiante e con voce eccitata, era al centro di tutta l’attività, insieme all’intera famiglia, comprese le figlie e la vecchia zarina Praskov’ja Fëdorovna Saltykova (sua cognata), che non sarebbe mai voluta mancare ad una tale evento.
La vita di San Pietroburgo era scandita da matrimoni, battesimi e funerali. I reali russi erano sempre disposti a far da testimoni ad un matrimonio. Il sovrano era spesso il padrino dei figli di soldati semplici, di artigiani e di ufficiali di grado inferiore. Lo faceva volentieri, ma il festeggiato, ahimè, non doveva aspettarsi doni generosi. Un bacio alla madre ed un rublo, fatto scivolare sotto il cuscino battesimale, secondo le antiche tradizioni russe, erano il massimo. Tutte le volte che fungeva da cerimoniere ad un matrimonio, adempiva con puntiglio ai propri doveri, quindi, deposto il bastone simbolico del temporaneo ufficio, si accostava alla tavola imbandita, prendeva con le mani un pezzo di arrosto caldo e lo divorava.
L’inverno non rallentava, o quasi, le sue attività. Durante il periodo in cui, ad esempio, l’Ambasciatore britannico Jefferyes scriveva a Londra che “difficilmente si può mettere il naso fuori della porta senza correre il rischio di perderlo per il gran freddo”, Pietro, Caterina ed un gruppo di cortigiani si recavano frequentemente in una vicina zona collinare, dove si divertivano con un passatempo chiamato “katat”, consistente nello scendere a grande velocità, in slitta, un ripido pendio. Un altro sport invernale lo attirava freneticamente, ossia la corsa a vela sul ghiaccio, con imbarcazioni che venivano ingegnosamente attrezzate per navigarvi sopra.
Nei mesi estivi, apriva il “Giardino d’Estate”, lo splendido parco sulle rive del fiume Fontanka, con un ingresso che affaccia sul Lungoneva del Palazzo Reale, per i ricevimenti e le celebrazioni. L’anniversario della vittoria di Poltava (8 luglio 1709, contro l’esercito svedese), diventava sempre una cerimonia memorabile. Le Guardie Proebraženskij, nelle loro uniformi verde-bottiglia, e le Guardie Semenovskij, in blu, si disponevano in fila in un campo adiacente e, dopo essere passato in rassegna, Pietro stesso distribuiva boccali di vino e birra ai soldati. La Zarina e le figlie, Anna ed Elisabetta, vestite elegantemente, con capelli adorni di perle e gioielli, accoglievano gli ospiti al centro del giardino, circondate dalla corte, tra fontane e cascate gorgoglianti. Accanto, rigidi come due bamboline di cera, Pietro e Natalia, gli orfani dello Zarevič Alessio (il figlio primogenito, che mandò a morte, perché ritenuto alleato dei nemici delle riforme). Gli ospiti, dopo avergli reso omaggio, prendevano posto intorno alle tavole imbandite, sistemate tra gli alberi per la felicità di tutti, soprattutto dei vescovi e degli altri membri del clero, tutti barbuti, i quali vuotavano devotamente i loro bicchieri ricolmi. Caterina e le principesse aprivano sempre le danze, sui ponti delle galee ancorate alla riva del fiume, con i fuochi d’artificio che illuminavano a giorno il cielo sull’acqua. Alcuni continuavano a ballare e a bere fino al mattino, ma i più piombavano a terra, lì dove si trovavano, e scivolavano nel sonno.
I membri della famiglia imperiale ed anche coloro che avevano servito fedelmente l’imperatore, alla loro morte, venivano seppelliti in gran pompa. Lo Zar li trattava con speciale generosità, anche se stranieri, assegnando proprietà e pensioni che venivano poi corrisposte alle vedove ed agli orfani. Non permise mai la riduzione della paga di un soldato, qualunque grado avesse ricoperto, quando questi andava a riposo, nonostante l’iniziale parere contrario del Collegio del Controllo Finanziario.
Poi, gli anni incominciarono a far sentire il loro peso. Nel 1724, Pietro il Grande aveva solo cinquantadue anni, ma era già un uomo vecchio. La sua magnifica costituzione era stata irreparabilmente danneggiata dagli sforzi e dal bere smodato. Soffriva, da tempo, di infezioni renali e nell’estate del 1722, durante la campagna militare in Persia, i sintomi riapparvero più forti. Il 27 gennaio 1725, il tremore che scuoteva il suo corpo divenne così violento, che chiese, già agonizzante, la remissione dei propri peccati e ricevette i sacramenti, implorando l’assoluzione. Ripeteva meccanicamente, mormorando, come se parlasse a se stesso: “Spero che Dio perdonerà le mie colpe per il bene che ho cercato di fare al mio popolo”.
Caterina, che non abbandonò mai il suo capezzale, proprio mentre implorava, “o Signore, ti prego, apri la porta del Paradiso e accogli questa grande anima”, alle sei del mattino del 28 gennaio, vide spirare tra le proprie braccia il suo grande amore, a cinquantatrè anni di età e dopo quarantatrè di regno.
Il corpo di Pietro I il Grande, Padre della Patria, Imperatore di tutte le Russie era stato sepolto, ma il suo spirito continuò a vivere. La venerazione verso di lui divenne un culto. Disse, una volta, di se stesso, sorridendo: “Ho la fama di essere un tiranno crudele. Questa è l’opinione che le nazioni straniere hanno di me. Ma come possono giudicare? Nessuno sa in che condizioni mi sono trovato all’inizio del regno, né quanta gente si è opposta ai miei progetti, ha agito contro i miei piani più utili e mi ha costretto ad essere severo. Ho sempre chiesto la collaborazione di quanti dei miei sudditi abbiano dimostrato intelligenza e patriottismo e che, riconoscendo la giustezza delle mie intenzioni, sono stati disposti ad assecondarle, offrendo io stesso, a loro, la mia gratitudine”.
E’ stato idealizzato, condannato, più volte analizzato. Tuttavia rimane un personaggio leggendario e “smisurato”, essenzialmente misterioso, come tutte le questioni riguardanti la natura ed il futuro della stessa Russia, Russia che lui, per primo, traghettò nella modernità.